Noi italiani non dobbiamo diventare qualcos'altro. Possiamo tenerci tutte le nostre virtù, frutto di secoli di storia, e lavorare sulle nostre debolezze, figlie di recenti sciatterie. Le prime sono inimitabili, e ci vengono invidiate nel mondo. Le seconde sono correggibili, e quasi sempre frutto di furbizie, ingordigia, pressapochismi e disonestà, denunciate sempre con squilli di retorica, ma sostanzialmente impunite. Le sanzioni italiane infatti sono sempre spaventose, lentissime e improbabili; quando dovrebbero essere moderate, rapide e certe.
Anni di viaggi e di mestiere mi hanno portato a incontrare italiani in tutti gli angoli del mondo: credo di sapere cosa ci ha danneggiati e cosa ci ha aiutati. Ci hanno danneggiato l'intelligenza (asfissiante), l'inaffidabilità, l'individualismo, l'ideologia e l'inciucio. Ci hanno aiutato la gentilezza, la generosità, la grinta, il gusto e il genio. Soprattutto il genio di trasformare una crisi in una festa - ed è quello che potremmo fare anche stavolta, se saremo determinati e fortunati.
A costo di sembrare retorico, riscrivo una splendida frase di Luigi Barzini Jr, talvolta accusato di denigrare l'Italia (che invece capiva bene e amava molto): «Essere onesti con se stessi è la miglior forma di amor di patria». Un concetto che molti patrioti da strapazzo - in ogni Paese - non capiscono. Difendono orgogliosamente l'indifendibile, irritando chi sarebbe disposto a comprendere. Il motto di costoro è «I panni sporchi si lavano in famiglia!» - dimenticando che chi sceglie questa soluzione i panni nazionali non li lava mai, e va in giro con i vestiti che mandano cattivo odore.
Noi italiani non abbiamo alcun bisogno di rifugiarci in queste tattiche difensive: siamo un grande popolo con alcune debolezze. Quasi sempre, purtroppo, spettacolari. Qualche esempio? Altre culture hanno prodotto malavita organizzata - spesso frutto di un'idea degenerata di famiglia - ma soltanto la mafia ha creato tanta letteratura, tanto cinema e tanta televisione. Molte belle città hanno attraversato momenti difficili: ma Roma e Napoli sono riuscite a trasformare problemi normali (immondizia e neve) in pasticci clamorosi, fornendo sfondi gloriosi a polemiche imbarazzanti. Alcuni Paesi importanti hanno eletto leader teatrali: ma nessuno ha eletto (tre volte!) un personaggio come Silvio Berlusconi, vero detonatore di stereotipi. A proposito: Mario Monti è sincero quando dice che il predecessore, lasciando il campo e sostenendo l'attuale governo, «guadagna terreno nella sua credibilità, reputazione e autorevolezza» (anche perché, diciamolo, partiva piuttosto indietro).
In una recente pubblicazione del Reuters Institute for the Study of Journalism (Oxford University), l'autore - Paolo Mancini, professore a Perugia - titola così il capitolo conclusivo: «Are the Italians bad guys?», gli italiani sono grami? La sua risposta, e la nostra, è negativa. È vero tuttavia che - dopo l'illusione di Mani Pulite, trasformata da catarsi in farsa - l'autoindulgenza è diventata la norma italiana. «La gente è buona, lo Stato è cattivo!». Come se non fossimo noi - la gente - a impersonare, rappresentare, ingannare e mungere lo Stato nelle sue varie forme.
Ma l'Italia non è come gli orologi, che avanzano regolarmente. È come i bambini: cresce a balzi irregolari, di solito quando uno non se lo aspetta. Abbiamo visto l'abisso finanziario, nei mesi scorsi, e insieme la possibilità della fine di una convivenza basata sul lavoro, il risparmio e i reciproci aiuti familiari (quelli leciti e lodevoli, ci sono anche gli altri). Nella nostra vita pubblica c'è un aspetto operistico che gli osservatori stranieri - bramosi di metafore colorate e comprensibili - non mancano mai di notare: gli italiani applaudono il tenore fino al momento in cui lo cacciano dal palco a suon di fischi, pronti ad accoglierne un altro. Lo stesso abbiamo fatto con chi ci governa: la musica non cambia.
Credo che abbiamo improvvisamente capito alcune cose - tutti, anche chi si rifiuta di ammetterlo per questioni ideologiche (quarta «i», vedi sopra). Non possiamo pretendere servizi sociali nordeuropei mantenendo comportamenti fiscali nordafricani. Non possiamo permetterci buone scuole, buoni ospedali e buone strade se le risorse finiscono nell'economia malavitosa (140 miliardi), nelle banche svizzere (120 miliardi), in corruzione, rendite ingiustificate e sprechi. Non possiamo andare in pensione quando siamo ancora attivi, per essere mantenuti da giovani che manteniamo inattivi (chiudendo loro il mercato del lavoro).
Non siamo previdenti come la formica della favola; ma siamo troppo smaliziati per non intuire il destino della cicala. È un inverno allegoricamente perfetto, quello che stiamo attraversando: duro e freddo, così poco adatto a una nazione considerata solare, nelle semplificazioni del mondo.
La sensazione - la speranza - è che noi italiani ci siamo convinti di una cosa: la gentilezza, la generosità, la grinta, il gusto e il genio possono portarci lontano; l'intelligenza (asfissiante), l'inaffidabilità, l'individualismo, l'ideologia e l'inciucio ci stavano conducendo nel baratro. La nostra è una saggezza preterintenzionale, ma ci ha salvato diverse volte della storia. È il senso del limite: inconfessabile, per gente che ama presentarsi come spontanea, emotiva e sregolata (ascoltate/guardate le pubblicità delle automobili: il commercio conosce chi vuol sedurre).
È presto per sapere se qualcuno saprà interpretare queste novità, e offrire tra un anno un prodotto elettorale all'altezza delle nuove aspirazioni. Per ora possiamo assistere al distacco del prodotto vecchio, che si allontana nel cosmo politico a velocità vertiginosa: oggi Santanché sembra il nome di un satellite di Saturno (come il piccolo Febe, l'unico con moto di rivoluzione retrogrado).
Di sicuro c'è chi, nel mondo, è disposto a darci credito. È un esame? Certo: non finiscono mai, per tutti i Paesi. Le reputazioni nazionali esistono: negarlo può essere consolante, ma è inutile. Sono fatte di tante cose: di storia e di economia, di eroismi e di serietà, di salite e di ricadute, di conquiste e di disastri, di comparse e di protagonisti. La sensazione è che Mario Monti sia servito, ai tanti nostri amici nel mondo, per poter dire a quelli cui stiamo meno simpatici: «Visto? L'Italia è anche questa».
Ed è un'Italia - questa - che in tutti i continenti hanno imparato a conoscere e ad apprezzare: fa quello che dice, e dice quello che fa. Negli uffici e negli ospedali, nelle aziende e nelle università, nei ristoranti e negli alberghi, nelle organizzazioni non governative e nelle nostre rappresentanze all'estero c'è tanta gente che non meritava di diventare lo zimbello del mondo. «II misero uccelletto al quale i cacciatori tirano con la funicella la gamba, per farlo saltare» - evocato in autunno da Emma Marcegaglia - non è diventato di colpo un'aquila; diciamo che si è slegato, è scomparso e non lo rimpiangeremo.
Non è mai esistito un complotto internazionale contro l'Italia e la sua reputazione: esiste invece un'informazione vorticosa, che cerca notizie succose, le mastica e le risputa. L'opinione pubblica internazionale è vorace e frettolosa: sempre, comunque e verso tutti. Tende alla semplificazione e cerca occasioni. Ieri trovava quelle per deriderci (esageratamente), oggi scopre quella per applaudirci (prematuramente?). La narrazione internazionale cerca trame, svolte e volti. In pochi mesi l'Italia ne ha fornito in abbondanza: la maschera di Silvio e il sudario di Mario; una società gaudente disposta ad accettare la penitenza; il Paese più divertente d'Europa che diventa decisivo: anche per l'America pre-elettorale e il suo banchiere cinese.
Stiamone certi, tuttavia: anche queste novità, presto, sbiadiranno. Sarà allora che dovremo provare d'essere seri, e dimostrare d'aver scelto, tra le nostre diverse anime, quella sana e realista. Noi italiani - lasciatemelo ripetere - abbiamo qualità permanenti e difetti rimovibili. Quando decidiamo di essere seri e affidabili, non ci batte nessuno, e tutti ci ammirano. Perché gentilezza, generosità, grinta, gusto e genio - salvo eccezioni, e purtroppo non sono poche - ci vengono spontanei. Sono le qualità che mancano ai nostri critici. E questo, statene certi, non ce lo perdoneranno mai.
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