domenica 26 febbraio 2012

PALERMO FANTASMA.

"I miei guai derivano dal fatto che purtroppo io, essendo mafioso ... essendo mafioso ... essendo siciliano..." (Marcello Dell'Utri, in "Moby Dick", 11 marzo 1999).

"Alla domanda se esiste la mafia rispondo con le parole di Luciano Liggio. Se esiste l'antimafia, significa che esiste anche la mafia" (Marcello Dell'Utri, ibidem).

La cosa migliore da fare a Palermo è dimenticare. Vivere da turista o da emigrante di testa, straniero in patria, come fanno ormai molti palermitani onesti e intelligenti. Godersi i contrasti di una città meravigliosa con i tempi di un viaggiatore esotico, fermarsi una giornata nello splendore di piazza Marina, il luogo più dolce e simbolico della città, con il palazzo dell'Inquisizione, lo Steri, magnificamente restaurato e le magnolie secolari, grandi che paiono palazzi, le radici dappertutto che si inabissano, risorgono, si proiettano al cielo e ridiscendono di colpo, come la storia della Sicilia. Immergersi nella Palermo barocca, nella città normanna e in quella liberty, o in quel che ne resta. Figurarsi, a partire dalle due o tre ville liberty risparmiate dal tritolo della mafia, come poteva essere un tempo via Libertà. Abbandonarsi al piacere, in una città di gioventù bellissima, di colori accesi, di mercati ancora esplosivi di sapori e odori come Ballarò, di ristoranti indimenticabili e di vini ormai fra i migliori del mondo, e chiudere la gita partendo dalla spiaggia di Mondello, l'antico villaggio di pescatori, per la campagna dai profumi stordenti, fino alle vigne dei Planeta, un angolo d'Italia da paradiso terrestre. «Si sbrighi a goderla Palermo, prima che la distruggano del tutto,» raccomanda l'editore e fotografo Enzo Sellerio. «La Vucciria è morta, e guardi come stanno rovinando la Zisa, un orripilante parco marmoreo, o i palazzi normanni, o Monreale.» Questo bisognerebbe fare a Palermo, ad averne la saggezza, e fottersene di mafia e politica. Ma non ci si riesce mai. Perché quelli ti afferrano e ti trascinano a fondo.
Nelle strade di Palermo ogni uomo che cammina ha accanto un fantasma. Non esiste via, piazza, monumento, negozio, cortile che non abbia un ricordo di sangue versato, di un fatto di cronaca, di una violenza. Si parla con i morti come le vecchine al cimitero, ci si discute e litiga come fossero cristiani presenti. E loro rispondono. Ogni giorno Falcone e Borsellino intervengono nel dibattito su mafia e antimafia, ogni giorno Sciascia scrive e polemizza con i contemporanei, a ogni ora a palazzo di giustizia e nelle caserme i procuratori e i poliziotti di oggi ragionano con quelli di ieri, nei palazzi del potere i politici trattano con i predecessori, i mafiosi si scontrano con i fantasmi di defunti, ergastolani, latitanti, e nessuno, vivi e morti, riposa mai in pace.

Fra tutti i fantasmi che circolano a Palermo, ho scelto di farmi raccontare la storia della città e i suoi cambiamenti da uno che conosco e che forse è il più grande, almeno negli ultimi decenni: il senatore Marcello Dell'Utri, fondatore di Forza Italia. Che sia lui e non Berlusconi il vero padre di Forza Italia, l'ho capito dall'autunno del 1993, prima ancora della famosa «discesa in campo»: l'ho capito perché l'ho visto. Nella sede appena intonacata di viale Isonzo, periferia sudest di Milano, c'erano gli operai al lavoro, Gianni Pilo che saltava da una stanza all'altra con in mano i risultati dei sondaggi, le belle ragazze del ricevimento lucide di lampada abbronzante, i vigilantes formato lottatori di wrestling. Ogni tanto arrivava Silvio Berlusconi a eccitare le truppe con la promessa napoleonica del bastone di maresciallo nello zaino dei soldati. Ma il padrone di casa era un altro, un signore piccolo e gentile, vestito di grigio, gli occhiali d'oro, un intenso odore di colonia: Marcello Dell'Utri era ovunque e decideva tutto, sceglieva operai e signorine e candidati, le domande dei sondaggi e dei provini, radunava gli agenti di Publitalia e di Programma Italia e affidava le missioni. Sei mesi dopo lo vidi alla testa del plotone di berluscones che prendevano possesso di Montecitorio e Palazzo Madama, dell'Italia intera.

Dell'Utri Marcello nasce l'11 settembre 1941 e cresce in una Palermo dove la mafia è la naturale espressione della classe dominante. E’ un bambino il giorno della strage di Portella della Ginestra ma è un ragazzo nell'ottobre del 1957, quando si svolge all’Hotel delle Palme, in pieno centro, il celebre vertice mafioso italoamericano con da una parte Lucky Luciano, Joseph Bonanno e Carmine Galante in rappresentanza delle famiglie newyorkesi e dall'altra Salvatore Greco, Genco Russo e Vito La Barbera per i siciliani. Può capire, insieme alla sua città, che la mafia è tornata padrona, con l'appoggio dello stato italiano e dell'alleato americano, grato ai boss per l'aiuto dato allo sbarco in Sicilia e alla lotta ai «rossi».

La mafia è la normalità da sempre. La sua storia è circolare. Lo spiega bene il grande storico Salvatore Lupo, con il paragone fra la storia universale e quella di Ciaculli, borgo contadino di Palermo. Dal 1789 al 1970 quante cose sono successe? La Rivoluzione francese, russa, cinese, due Guerre mondiali, l'apogeo e il crollo degli imperi coloniali, il fascismo, il nazismo, l'Olocausto, la Guerra fredda, il boom e lo sbarco sulla Luna: «In tutto questo periodo,» scrive Lupo, «a Ciaculli ha sempre comandato uno che si chiamava Greco». Così, la prima relazione della Commissione parlamentare antimafia, costituita all'alba del Regno d'Italia e presieduta dall'onorevole Bonfadini, dà l'impronta reticente e ipocrita a tutte le successive. In risposta arriva la prima inchiesta giornalistica, di Franchetti e Sonnino, che nel 1874 giunge alle stesse conclusioni di sempre, di oggi, nel rapporto fra stato e mafia: la mafia si regge sulla politica, soltanto l'intervento deciso del governo di Roma può debellarla. Ma un governo, di destra o di sinistra, che si cimentasse nella lotta finale firmerebbe la propria caduta, perché i voti siciliani sono decisivi per tenere in piedi qualsiasi maggioranza parlamentare. Sarà così ai tempi del Regno e poi nel dopoguerra, con la Prima e la Seconda repubblica.

Il primo delitto eccellente, l'assassinio del marchese Notarbartolo –narrato nel bel romanzo "Il cigno" di Sebastiano Vassalli (Einaudi, 1993) - li contiene tutti e illustra il «pendolo» dell'antimafia. Lo scempio di Notarbartolo, eroe garibaldino e galantuomo chiamato a risanare il Banco di Sicilia, provoca una ciclopica reazione nell'opinione pubblica. Si arriva ai processi e vengono condannati il sicario, il mafioso Piddu, e il mandante, l'onorevole crispino Raffaele Palizzolo. Ma quando, attraverso i legami del deputato, si comincia a risalire al «terzo livello», alle responsabilità dei governi, da Crispi a Giolitti, il mare si richiude. «Non si può scrivere la storia nelle aule di giustizia.» In appello Palizzolo, per quanto organico alla mafia, viene assolto per insufficienza di prove ed è accolto come un trionfatore da tutta la cittadinanza di Palermo: baroni, vescovi e borghesi in testa, ma anche popolino, in «una festa più partecipata di Santa Rosalia». Celebrato come eroe e martire di «giudici socialisti», benedetto dalle autorità ecclesiastiche e invitato perfino in America a tenere conferenze. Come vedremo,è il destino di ogni processo «politico» di mafia,fino al caso Andreotti.

Nella Palermo del dopoguerra la mafia è opportunità. E’ lo strumento per mantenere lo status quo ma anche l'unica possibilità per un giovane ambizioso e spregiudicato di far carriera e sfuggire al vero incubo del siciliano, l'anatema dell'invisibilità. Racchiuso nel peggiore degli insulti: «Tu sì nuddu"mmiscatu cu nenti». Nessuno mischiato con niente. Al centesimo interrogatorio, il pentito Francesco Marino Mannoia perse la pazienza davanti alla pignoleria dei suoi giudici: «Voi però dovete prima capire perché uno si fa mafioso. Non sono soltanto i soldi. Io mi sono fatto mafioso perché prima ero nuddu "mmiscatu cu nenti e poi invece mi rispettavano ovunque andassi».
Il giovane Marcello Dell'Utri ambizioso e spregiudicato lo è di sicuro. A ventisei anni ha già intrecciato relazioni con gli ambienti che ne benediranno l'irresistibile ascesa. Ha conosciuto alla facoltà di Legge della Statale di Milano un altro giovane ambiziosissimo, Silvio Berlusconi. Nel '66 è a Roma, dove organizza un centro sportivo per l'Opus Dei. Nel '67 torna a Palermo, dove è allenatore e direttore sportivo della società di calcio Bacigalupo, e conosce lì, dice, i boss Vittorio Mangano e Gaetano Cinà, quest'ultimo «amico di una vita» e parente di Stefano Bontate. E’ un pezzo di bel mondo cittadino, la Bacigalupo: accanto ai mafiosi, giocano i figli dell'onorevole Vizzini, del ministro Restivo e del principe Lanza di Scalea, il futuro deputato La Loggia, e c'era anche Piero Grasso, oggi capo della Superprocura antimafia. «Era famoso perché, anche quando c'era fango, non si schizzava mai,» ricorda Dell'Utri. Gli amici di Dell'Utri all'epoca scherzano sul fatto che il vero gemello di Marcello non sia il fratello Alberto, ma proprio il giovane Bontate, figlio del boss Paolino. Stessa eleganza, stesso stordente profumo di colonia, identiche manie aristocratiche (Bontate si fa chiamare «principe di Villagrazia»), una notevole somiglianza nei tratti e nei gesti. Stefano Bontate è a quel tempo, insieme a Salvatore Inzerillo, il padrone della città. Sono i giorni di un nuovo «sacco» della città. Ogni notte in via Libertà salta per aria una villa liberty e ogni mattina il sindaco Salvo Lima e l'assessore ai Lavori pubblici Vito Ciancimino firmano una licenza per costruire. E’ la Palermo che «volta le spalle al mare» e si popola di orrori architettonici. Più famelici ancora dei mafiosi sono i nobili palermitani, i quali, secondo il primo rapporto dell'antimafia, lamentano con Lima e Ciancimino il «troppo poco cemento». Bontate e Inzerillo controllano il traffico di eroina verso l'America, prodotta nelle raffinerie nascoste nelle campagne di Punta Raisi, pronta all'imbarco. Alla morte di Stefano Bontate, ucciso dai kalashnikov dei corleonesi a Villagrazia il giorno del suo quarantaduesimo compleanno – il 23 aprile 1981 -, il suo patrimonio è stimato in mille miliardi. Ancora oggi, nessuno sa dove sia finito l'immenso tesoro.
Grazie agli amici e alla vivace intelligenza, Dell'Utri fa carriera in banca e nel '73 diventa direttore generale della Sicilcassa di Palermo. L'anno dopo, in primavera, torna a Milano, chiamato da Silvio Berlusconi. L'imprenditore ha ricevuto minacce di rapimento per sé e per i figli, ma invece di correre dai carabinieri telefona al vecchio amico palermitano. Dell'Utri porta con sé ad Arcore un giovane mafioso di Porta Nuova, Vittorio Mangano, quello che la stampa chiamerà «lo stalliere». Anch'io lo chiamavo così, ma un giorno Attilio Bolzoni, grande inviato di «Repubblica», si è messo a ridere: «Io Mangano l'ho conosciuto al palazzo di giustizia di Palermo, dove ormai faceva parte dell'arredamento. Un elegantone, alto, distinto, con le scarpe fatte a mano, il cappotto cammello di cachemire, gli occhiali di tartaruga, la pochette di seta intonata alla cravatta e alle calze. Stallieri siamo tu e io».

L'assunzione di Dell'Utri e Mangano ad Arcore viene suggellata, secondo le testimonianze dei pentiti Francesco Di Carlo e Nino Giuffrè, da una serie di incontri a Milano fra Berlusconi e i capi di Cosanostra Stefano Bontate e Mimmo Teresi (l'assassino del giornalista Mauro DeMauro). Nel primo, autunno '74, Berlusconi e Bontate si vedono nella sede Edilnord di foro Bonaparte alla presenza di Dell'Utri, di Mimmo Teresi, dello stesso Di Carlo, e si scambiano reciproca disponibilità. Bontate, affascinato dal trentottenne costruttore, lo invita a investire a Palermo e gli assicura che «può stare tranquillo» per la faccenda dei sequestri, «e poi ci ha un Marcello, per qualsiasi cosa. Marcello è molto vicino a noi altri». Altri pentiti, fra i quali il finanziere Filippo Alberto Rapisarda, socio e datore di lavoro di Dell'Utri, sostengono che Bontate abbia poi investito direttamente decine di miliardi nelle reti Fininvest, ma l'accusa non è provata. Neppure smentita, per la verità. Quando nel 2002 i magistrati chiedono ragione al Cavaliere della marea di soldi – oltre centodieci miliardi dil ire – che dal '75 all'83 confluiscono nel suo gruppo attraverso le misteriose finanziarie che compongono la Fininvest (Holding Italiana 1, Holding Italiana 2 e così via fino al numero 34), Berlusconi si avvale della facoltà di non rispondere.
Comincia per Marcello Dell'Utri il «costante e trentennale rapporto di mediazione» fra la mafia e il gruppo Berlusconi, com'è scritto nella sentenza di condanna a nove anni emessa dal Tribunale di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa sulla base dell'inchiesta condotta per anni dal p.m. Antonio Ingroia. Una delle tre condanne del pregiudicato Dell'Utri, ritenuto colpevole anche per le false fatturazioni di Publitalia dai giudici di Torino (condanna definitiva a due anni), e per tentata estorsione ai danni dell'imprenditore trapanese Vincenzo Garraffa, in complicità con il capofamiglia trapanese Vincenzo Virga, dai giudici di Milano (condanna a due anni in appello). Ma qui la storia giudiziaria interessa fino a un certo punto.

La questione mai chiarita dalle indagini è quale sia stato, in trent'anni, il reale rapporto fra Dell'Utri e Berlusconi: chi comanda,chi ubbidisce. Senza scomodare la celebre pagina hegeliana sulla dialettica servo padrone, è certo che per trent'anni è sempre Berlusconi a chiedere aiuto e consiglio a Dell'Utri. La prima volta nel '74 e poi nell'83, quando riassume un Dell'Utri reduce da una bancarotta fraudolenta (della Bresciano Costruzioni, alle dipendenze di Rapisarda) e lo colloca a capo del motore del suo impero, Publitalia. Poi nel '90, quando manda Dell'Utri a Catania dopo gli attentati mafiosi alla Standa e le bombe subito tacciono. Infine, nel '92, nella piena di Tangentopoli che si porta via gli amici politici, a cominciare da Bettino Craxi. Soltanto una volta è Dell'Utri ad aver bisogno di Berlusconi, durante il processo per i fondi neri Fininvest a Torino. Berlusconi presidente del Consiglio ed evita di rispondere a qualsiasi chiamata nelle aule di giustizia. Durante il processo, Dell'Utri a un certo punto interrompe il giudice: «Ha provato a chiamare a testimoniare il dottor Berlusconi?». «Certo. Ma chi lo convince, lei?» «Non c'è bisogno di convincerlo, stavolta verrà.» Quella volta infatti Berlusconi si precipita dai giudici e tiene un'apologia di Dell'Utri al cui confronto il discorso di Antonio sulle ceneri di Cesare gronda spirito critico: ne esalta due o tre volte le «alte qualità morali e religiose», arriva a paragonarlo a George Washington. Chi è il servo, chi è il padrone?

Dalla metà degli anni settanta Dell'Utri si tiene lontano per un ventennio da una Palermo sconvolta dalla sanguinaria ascesa dei corleonesi. Settanta pecorai venuti dal quadrilatero composto da Corleone, Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e Prizzi, prima agli ordini di Luciano Liggio e poi dei suoi luogotenenti Totò Riina e Bernardo Provenzano, in tre anni - dall'81 all'83 –si prendono la città con un massacro senza precedenti. Parlare di guerra di mafia è improprio. Da una parte ci sono millecinquecento morti e dall'altra nemmeno un ferito. Stefano Bontate, il «vero gemello», è fra i primi a cadere, seguito da Mimmo Teresi, l'altro boss dell'incontro con Berlusconi raccontato dai pentiti; poi viene spazzata via l'intera aristocrazia mafiosa che comandava da decenni per diritto ereditario, imparentata con gli americani –gli Inzerillo, i Gambino, i Di Maggio. I punti più suggestivi e simbolici della città, da piazza Politeama al Giardino Inglese, da via Libertà a via Cavour, da Mondello a Monreale, i parchi, i bar, i ristoranti, le sedi dei giornali e dei partiti, il palazzo di giustizia, tutti diventano luoghi di sangue e memoria, teatri di omicidi eccellenti: il giornalista Mario Francese, il capo della mobile Boris Giuliano, il segretario della D.C. cittadina Michele Reina e il giudice Cesare Terranova, il governatore della Regione Piersanti Mattarella, i capitani dei carabinieri Emanuele Basile e Mario D'Aleo, il segretario regionale comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il capo dell'Ufficio istruzione Rocco Chinnici. Nel 1984 Totò Riina è l'incontrastato dittatore della nuova mafia. Marcello Dell'Utri è tornato da Berlusconi, ai vertici del gruppo. Scomparsi gli antichi referenti, tiene i contatti con gli ambienti palermitani attraverso i fratelli Pullarà, Giovan Battista e Ignazio, traslocati dalla mafia perdente ai corleonesi. I due tengono nascosti per un po' questi legami a Totò Riina, che quando lo scopre si infuria, li destituisce e affida i rapporti con la Fininvest all'affiliato Pippo Di Napoli e al vecchio amico di Dell'Utri, Gaetano Cinà. Il pentito Salvatore Cancemi racconta: «Ogni anno Dell'Utri mandava duecento milioni a Cinà, che li consegnava a Riina». Il vero obiettivo del boss dei boss non è però l'estorsione, vogliono usare Berlusconi per arrivare a Bettino Craxi. Nelle elezioni dell'87 Riina ordinerà a Cosanostra di scaricare la D.C. (che non ha saputo ostacolare a dovere il maxiprocesso a Cosanostra, istruito dai pool di Falcone e Borsellino in base alle confessioni di Tommaso Buscetta) e di «blindare» i voti sui socialisti. La famosa «onda lunga» di Craxi parte dalle coste siciliane.

Nel frattempo è sorta dalle stragi, dalle voci dei fantasmi sempre presenti, la più straordinaria, partecipata, commovente reazione alla mafia di una storia secolare, la «primavera di Palermo». Due uomini, il sindaco Leoluca Orlando e il giudice Giovanni Falcone, si sono messi in testa di trasformare la città. La storia è abbastanza nota per non doverla ripercorrere, ma c'è un piccolo episodio dimenticato da tutti, tranne che da Orlando. Nel '90 Orlando esce con un libro su Palermo che diventa un bestseller, vende centocinquantamila copie in Italia in pochi mesi ed è tradotto in sei lingue. L'anno successivo la Mondadori decide di inserirlo nella collana economica degli Oscar. Nelle stesse settimane il controllo della casa editrice, con l'annullamento del famoso Lodo Mondadori – frutto della corruzione di un giudice da parte di Cesare Previti con denaro della Fininvest - passa al gruppo Berlusconi. Subito dopo, decine di migliaia di copie già stampate del libro di Leoluca Orlando vengono distrutte e bruciate nei magazzini: l'Oscar non arriverà mai nelle librerie e Orlando non verrà più pubblicato in Italia. Continuerà a scrivere libri di successo in tedesco, sua seconda lingua («Dopo il siciliano, s'intende,» precisa lui), e in inglese. Ma perché nel '91 la Mondadori di Berlusconi ha preso questo provvedimento? Una nuova strategia editoriale?
Il nodo dei rapporti Berlusconi mafia, e soprattutto dei misteri recenti del paese, sta nel biennio 1992-1993. La tesi, o se si preferisce il teorema, dei magistrati è che la nascita di Forza Italia sia totalmente frutto della strategia mafiosa di creare ex novo un referente politico al posto del sistema in disfacimento, quasi sepolto dalle macerie del Muro di Berlino e di Tangentopoli. Il terreno è minato e occorre muoversi sulle certezze. E’ certo che la mafia, come spiegano mille segnali e testimonianze di pentiti, ha capito prima di qualsiasi altro attore della vita pubblica italiana l'inevitabilità del crollo della Prima repubblica. Perfino prima delle inchieste di Mani pulite. Con l'assassinio di Salvo Lima (marzo 1992), da trent'anni il viceré di Andreotti in Sicilia, la mafia segnala che la stessa Democrazia Cristiana è ormai un cadavere.

Sempre nella primavera del '92, altro fatto certo, prima delle stragi di Capaci e via D'Amelio: MarcelIo Dell'Utri assume come consulente il democristiano Ezio Cartotto e gli affida lo studio di un nuovo soggetto politico – il progetto Botticelli – un anno prima delle famose riunioni di Arcore sull'ipotesi di Forza Italia.

Dell'Utri, e non Berlusconi, è il primo ideatore del partito e sarà a lungo anche l'unico sostenitore, con Cesare Previti, durante i vertici in villa. Contrari sono tutti gli altri, da Fedele Confalonieri a Gianni Letta, da Maurizio Costanzo a Enrico Mentana. Berlusconi è tutt'altro che convinto, sembra tenere in maggior considerazione i suggerimenti dei tradizionali consiglieri politici del gruppo ed esperti di salotti romani, Letta e Confalonieri, e prende contatti con Mario Segni. Fedele Confalonieri mi rilascia un'intervista su «La Stampa» nella quale giura: «Il gruppo non farà mai un partito, Berlusconi dovrebbe vendere le sue televisioni e, ancora prima, passare sul mio cadavere». Poi ricominciano le stragi in continente, una novità nella storia della mafia. La prima bomba, in via Fauro, «avverte» Maurizio Costanzo. Seguono gli attentati di via Georgofili a Firenze, al Pac di Milano, alle basiliche del Velabro e del Laterano a Roma. Tutto fra maggio e luglio del 1993. E’ un altro, italianissimo romanzo delle stragi, del quale si può ripetere quel che scriveva Pasolini: «Io so chi sono i responsabili delle stragi...Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore. Ma non ho le prove». Nel «gran Gotha del nulla» romano, come lo chiama nel suo ultimo romanzo Giancarlo De Cataldo, intanto si agitano presenze spettrali, spioni e faccendieri, industriali e uomini d'onore, impegnati in frenetiche trattative intorno al «papello», la bozza di un nuovo patto fra mafia e politica.
Una domenica di fine ottobre del 1993 è fissata l'ultima strage, la più spaventosa. Ma si inceppa il telecomando della Lancia Thema imbottita di tritolo piazzata davanti all'uscita centrale dello stadio Olimpico. I morti, dicono gli inquirenti, sarebbero stati centinaia: quasi tutti carabinieri reduci dal servizio d'ordine allo stadio. Nei giorni seguenti Berlusconi annuncia un «passo storico» e di lì a poco invade le televisioni con il messaggio della «discesa in campo». Il pentito Antonino Giuffrè, la cui attendibilità è «fuori discussione» per il Tribunale di Palermo, racconta che Bernardo Provenzano comunica ai padrini e ai picciotti: «l'accordo è stato trovato, siamo in buone mani» e ordina a tutti di sponsorizzare Forza Italia alle elezioni. Cosa nostra accantona per sempre il progetto di un partito tutto suo – Sicilia Libera, una sorta di Lega Sud fondata mesi prima dai boss Brusca, Bagarella e Cannella – e si butta su Forza Italia. Alle elezioni del marzo ‘94, precedute da vari incontri fra Dell'Utri e Vittorio Mangano –ormai pluri condannato e riconosciuto capo mandamento di Porta Nuova - , Forza Italia vince e la destra va al potere grazie anche ai collegi siciliani. Non sarà il cappotto del 2001, con sessantun collegi su sessantuno, ma sono pur sempre cinquantasette: bastano e avanzano per mandare Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Compiuto il capolavoro, Dell'Utri fa un passo indietro e non si candida. Sarà costretto a farlo più tardi e nel '99, secondo le intercettazioni, Cosa nostra lo sostiene alle elezioni europee per fargli ottenere un'altra immunità parlamentare e «impedire a quei cornuti [i magistrati di Palermo, N.d.A.] di fotterlo».
I magistrati sostengono che con l'avvento di Forza Italia «la mafia si fa stato». Non è più l'intermediazione con la politica romana, ma rappresentanza diretta. Chi conosce bene la storia della nascita di Forza Italia sa che ci sono stati altri e importanti motivi a decidere la «discesa in campo». Materiali, come le difficoltà finanziarie del gruppo e la paura delle inchieste giudiziarie. Ideologici e politici, come l'anticomunismo viscerale di Berlusconi e la spinta dei consigli di Bettino Craxi. Infine personali, da ricercarsi nell'ego arroventato del padrone di Arcore. Ma non si può escludere che la scintilla decisiva sia arrivata da Palermo. Di sicuro c'è che nell'egemonia culturale esercitata dal berlusconismo in tutti questi anni, attraverso i media, vi sono tratti inspiegabili se non con l'estensione a livello nazionale della cultura mafiosa. Sono mafiose la violenza verbale come sublimazione della violenza fisica; la tecnica dell'avvertimento, della minaccia allusiva e della diffamazione dei nemici; l'ossessione dell'anticomunismo in morte del comunismo, alibi comunque buono per giustificare gli affari più sporchi in nome della difesa dell'Occidente minacciato. La stessa ossessiva campagna contro i magistrati, gli attacchi continui alla Costituzione e alla cultura della legalità, in nome di un garantismo da opportunisti, che ha fra gli obiettivi principali, guarda caso, la museruola all'indipendenza della magistratura, l'abolizione delle leggi sul pentimento, del 41bis e del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Lo capirà per primo Tommaso Buscetta, il più grande dei pentiti, quando prima di morire convocherà Saverio Lodato per dettargli la sua intervista testamento e ne sceglierà il titolo: "La mafia ha vinto". Marcello Dell'Utri non è soltanto il fondatore del primo partito italiano,ne è l'ideologo principale, è il mecenate degli intellettuali vicini al partito azienda, quello che tiene i cordoni della borsa dalla quale dipendono i giornalisti, gli scrittori, i cantori del nuovo corso. La sua capacità di tessere relazioni, usare ogni strumento – dai circoli alle sezioni, dalla fiction ai teatri – per influenzare la cultura del paese e spingerla verso una «pacifica convivenza» con la mafia – per usare la spudorata formula dell'ex ministro Lunardi – è straordinaria. Neppure negli anni peggiori dei «ministri della malavita» era stato sperimentato un così diretto assalto ai princìpi legalitari. Formalmente anche la D.C. andreottiana era «antimafia», com'era «antifascista». La nuova stagione si proclama apertamente «afascista» e «amafiosa». Non mancano le finezze concettuali. L'inedito professionismo dell'antiantimafia rivendica per esempio una nobile paternità in Leonardo Sciascia. L'unico fra i grandi scrittori siciliani che avesse mai osato sfidare la mafia, infondo a una tradizione di indifferenza, da Capuana a Verga, Pirandello, Vittorini, Brancati, Tomasi di Lampedusa, Quasimodo. Purtroppo Sciascia era caduto in tarda età, per vezzo anticonformista o narcisismo aristocratico o và a sapere, nel tragico equivoco della polemica contro il «professionismo dell'antimafia»: il celeberrimo titolo del suo articolo sul «Corriere», peraltro rinnegato dallo stesso Sciascia, prima di morire. Non c'è stata formula più citata e strumentalizzata in questi anni. Ma non una volta si sono ricordati, accanto alla formula, gli obiettivi in carne e ossa di quel maledetto articolo, additati con nome e cognome dall'autore come esempi infami di «carrierismo», «opportunismo», «calcolo»: Paolo Borsellino e, indirettamente, Giovanni Falcone, oltre al sindaco Orlando.
Che cosa è diventata la cultura della legalità in Italia negli anni dell'egemonia berlusconiana? La pro va della «mafia che si fa stato» sta nel paragone fra il processo Palizzolo degli inizi del Novecento e il processo Andreotti. Come il piccolo deputato Palizzolo, il grande statista Andreotti, sette volte presidente del Consiglio, è stato giudicato – in appello e in Cassazione – colpevole di associazione per delinquere con la mafia del dopoguerra fino al 1980, ma salvato dalla prescrizione (reato «commesso» ma prescritto). Come il piccolo «Cigno», il grande «Divo Giulio» è accolto e festeggiato come un martire e un eroe da una comunità che non ha alcuna voglia di fare i conti con se stessa. Ma un secolo dopo, ad auto assolversi nella festa per l'ex mafioso non è soltanto la Palermo ottocentesca dei notabili, della borghesia e della nobiltà mafiose, fra lo sconcerto del «Corriere» e della «Stampa» e perfino del «Giornale di Sicilia», lo sdegno di tutti gli intellettuali, l'indignazione dei sindacati, la protesta dei socialisti in parlamento. Ad acclamare Giulio Andreotti, nello sconcerto ora del resto del mondo, è l'Italia intera, da Milano a Sciacca, da Torino a Reggio Calabria, tutti i giornali e i giubilanti salotti televisivi, l'intero quadro politico, da destra a sinistra.
La Palermo dei nostri giorni è l'unica città d'Italia dove questo messaggio è stato compreso fino in fondo. E’ una città in cui, per dirla con Tommaso Buscetta, «la mafia ha compiuto il miracolo di rendersi invisibile senza sparire». Il procuratore aggiunto antimafia Roberto Scarpinato, non soltanto un bravo magistrato ma un acuto intellettuale, sostiene che Palermo sta diventando un modello per la nazione: «Esistono due modelli, per la verità, Napoli e Palermo. Napoli è il modello favelas, fondato sul disordine. Il 90 per cento delle ricchezze sta nelle mani del 10 per cento. Questa classe dominante vive nelle sue roccaforti e lascia che nel territorio si muovano le bande camorristiche. Il discorso è, grossomodo: poiché non posso garantirti nulla, né benessere né lavoro, a Scampia sei libero di fare quello che vuoi. I quartieri sono discariche sociali dove non si controllano più i rifiuti. Il modello Palermo è invece fondato sull'ordine. E’ il modello Ucciardone. Negli anni ottanta era il carcere più tranquillo d'Italia perché la direzione aveva affidato l'ordine ai mafiosi. A Palermo è la classe dominante a gestire la violenza, attraverso il braccio militare. Qui nessuno fa come gli pare, la divisione del lavoro è ferrea. La borghesia mafiosa fa affari e le cosche controllano il territorio. La disuguaglianza sociale non è motivo di conflitto, come a Napoli, ma serenamente accettata come dato naturale. In via Libertà si vendono le Vuitton a duemila euro, al quartiere Zen si muore di fame. Ma l'unica aspirazione sociale è farsi mafioso e poter un giorno vivere come i ricchi. Tutto ha una logica, perversa ma pur sempre una logica. A Napoli la metà degli assassinii avviene per sbaglio, a Palermo ogni attentato è una mossa di scacchi, studiata a lungo, dopo aver valutato tutte le possibili contromosse».

Nel caos italiano d'inizio millennio, il «modello Palermo» è in fondo una soluzione. Per molti problemi. Palermo è l'unica città d'Italia dove l'economia è davvero globalizzata e la mafia l'unica attività economica cresciuta con la globalizzazione. Non è accaduto con l'industria, le banche, le comunicazioni. In città sono perfino tornate a investire le famiglie americane, in testa i Gambino. Si tratta certo di accettare una globalizzazione da Colombia, da capitali sporchi. Ma una delle leggi di maggior successo e consenso del governo Berlusconi non è stata forse quella sul rientro dei capitali all'estero, che ha permesso il riciclaggio legale (e anonimo) di ottanta miliardi di euro? Il modello Ucciardone rappresenta una soluzione alla prima paura sociale degli italiani, la microcriminalità. A Corleone, negli ultimi ventisette anni,non si è registrato un solo furto negli appartamenti. Il modello Palermo significa anche forte impronta identitaria, dunque consenso e pace sociale, garantiti con la minaccia e l'uso della violenza. Ma cos'altro è stata,in cinquant'anni, la strategia della tensione e delle stragi di stato?

Nelle strade di Palermo c'è sempre da sconfiggere, è vero, il fantasma dell'antimafia. Più forte di quanto si pensi, nelle istituzioni e nella coscienza delle persone, dei palermitani stessi. Nelgirare l'Italia, Palermo è paradossalmente l'unico luogo dove sembra di incontrare e toccare con mano il «senso dello stato». Altrove è retorica. Questa è una città seria, perchè la morte ti fa serio. Giovanni Falcone, che conosceva bene la sua gente, girava con quella scorta impotente per via Maqueda o via Libertà, a sirene spiegate, perché i concittadini vedessero la potenza dello stato. I suoi killer per questo l'hanno fatto saltare con cinquecento chili di tritolo, invece di mandare un killer sotto il ministero a Roma. Oggi i magistrati del pool, quando passano con le scorte, sentono ancora alle spalle un pezzo di città che è con loro. Ma quanto durerà? L'ultima riforma della Giustizia, appena approvata dalla maggioranza di centrosinistra, contiene norme che stabiliscono il trasferimento obbligatorio per chiunque ricopra incarichi direttivi da più di otto anni. Fra pochi mesi alla procura di Palermo non ci saranno più i Roberto Scarpinato, Guido Lo Forte, Alfredo Morvillo, cognato di Falcone. La memoria storica dell'antimafia sarà azzerata. Al loro posto verranno ragazzini o anziani magistrati a fine carriera. Sulla gloriosa procura potrà tornare a vegliare il vero patrono della magistratura italiana, il settimo procuratore della Giudea, il cavalier Ponzio Pilato. L'antimafia sarà allora finalmente come l'hanno sempre voluta loro: nuddu "mmiscatu cu nenti.

Curzio Maltese (I Padroni della Città – Feltrinelli - 2007)


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