Tutte le leadership democratiche dell’Occidente sono,
chi più chi meno, in crisi. In genere la si addebita alla attuale
mediocrità delle classi dirigenti (di cui l’Italia, da sempre Paese
pilota, nel bene e nel male, offre aspetti grotteschi e peraltro
istruttivi). Nessuno osa dire che in crisi è la Democrazia in quanto
tale, come sistema di potere, al di là dei suoi interpreti. Dopo la
caduta del mondo feudale la dottrina liberal-democratica nasce dalla
testa di alcuni pensatori (Stuart Mill, John Locke, Alexis De
Tocqueville) che volevano valorizzare meriti, capacità, potenzialità
dell’individuo singolo, finalmente liberato dalle rigide divisioni di
casta (nobili, ecclesiastici, Terzo Stato). Nei fatti, storicamente, la
democrazia ha realizzato l’opposto, si è rivelata un sistema di
oligarchie, politiche ed economiche, di aristocrazie mascherate, di
lobbies che schiacciano l’individuo che non si piega a questi umilianti
infeudamenti. Questo vulnus, ineliminabile e definitivo, della
democrazia era stato già ben individuato dalla cosiddetta "scuola
elitista" italiana dei primi del Novecento (bollata, chissà perché "di
destra": Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca, Roberto Michels erano puramente
e semplicemente degli studiosi che, come tali, osservavano i fenomeni
sociali per quello che sono). Scrive Gaetano Mosca ne "La classe
politica": "Cento che agiscano sempre di concerto e d’intesa gli uni con
gli altri trionferanno sempre su mille presi uno a uno che non avranno
alcun accordo fra loro". E con questo si dice addio non solo al mito
anglosassone dell’"one man, one vote", ma anche al principio della
meritocrazia su cui prevale la fidelizzazione feudale. Si creano così
leadership di mediocri che, per non esserne scavalcati, si circonderanno
di soggetti ancor più modesti che, diventati a loro volta classe
dirigente, seguiranno la stessa condotta, in un processo che non sembra
trovare il suo fondo. Non è un caso che le democrazie abbiano dato il
meglio di sè quando si sono trasformate, più o meno velatamente, in
autocrazie (il Roosvelt del "New Deal", grande ammiratore di Mussolini,
Churchill ed Eisenhower nella seconda guerra mondiale). Così come non è
un caso che le democrazie non siano in grado di combattere la mafia.
Essendo un coacervo di mafie devono venire a patti con quelle, diciamo
così, ufficiali (solo il fascismo, che non era una democrazia, combattè
seriamente la mafia siciliana, perchè un potere forte non ne sopporta
altri sul proprio territorio). Peraltro quella della democrazia è una
questione di secondo grado. La democrazia è un sistema di regole e di
procedure, non un valore in sè. È un sacco vuoto che va riempito di
contenuti. In due secoli e mezzo il sacco si è riempito solo di valori
quantitativi e materialistici e la democrazia è diventata semplicemente
l’involucro legittimante di un modello di sviluppo economico "paranoico"
perchè si basa sulle crescite infinite che esistono in matematica, non
in natura. Dopo una vertiginosa cavalcata, che proprio nella sua
velocità aveva il principio della sua fine, questo modello è arrivato
inevitabilmente al proprio limite perchè non può più crescere. Io lo
vedo come una potentissima automobile che è arrivata davanti a un muro
invalicabile. Ma il guidatore, invece di prendere atto della realtà, si
ostina a dare di gas. Prima o poi il motore fonde. Fuor di metafora
crollerà, e di colpo, il mondo del denaro, della finanza,
dell’industria, della produzione e del consumo portandosi via anche quel
fragile velo che lo ricopre chiamato democrazia. Ad onta di tutte le
infantili illusioni (Fukuyama) nemmeno la democrazia, come tutte le
costruzioni umane, è destinata a durare in eterno. Già ora a fronte di
sistemi di potere che durarono millenni, dà segni di cedimento, dopo
soli due secoli di vita.
Massimo Fini (Il Gazzettino, 12 ottobre 2012)
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