Proc. Nr. 11719/12 R.G.N.R.DDA
PROCURA DELLA
REPUBBLICA presso il Tribunale di Palermo
Al Signor Giudice della Udienza Preliminare
Dott. Piergiorgio MOROSINI
Oggetto: Memoria
a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio
Il presente procedimento, giunto ora
all'udienza preliminare, costituisce la summa di una lunga, complessa e
laboriosa indagine, che comprende la lettura sintetica ed organica di una gran
mole di atti processuali di fonte eterogenea (dichiarazioni di collaboratori di
giustizia e testimoni, documenti, intercettazioni, telefoniche ed ambientali,
sentenze di varie AA.GG.), tutti inerenti la vicenda della c.d. “scellerata
trattativa”, sviluppatasi a cavallo delle stragi del '92-'93 fra i massimi
esponenti di Cosa Nostra ed alcuni rappresentanti dello Stato.
Quest'Ufficio non esita ad evidenziare
l'importanza della ricostruzione probatoria contenuta in questo procedimento,
che rappresenta l'esito di un faticoso ed ambizioso sforzo investigativo,
frutto dell'impegno di tanti magistrati che si sono avvicendati negli anni, in
ruoli e con funzioni diverse, e del quotidiano impegno di pochi e valorosi
investigatori di varie Forze di Polizia, soprattutto della D.I.A., che ha così
onorato, lavorando in condizioni davvero difficili, l'investimento che su
questo organismo investigativo fecero uomini come Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino.
Straordinari risultati investigativi sono
stati acquisiti anche grazie alla passione per la verità e la giustizia ed al
rigore etico-morale e professionale di magistrati di altre Procure – fra tutti
Gabriele Chelazzi – che tanto si sono impegnati per accertare la verità sulla
stagione delle stragi e della trattativa, nonostante i tanti, troppi,
depistaggi e reticenze, spesso di fonte istituzionale.
Proprio per questo articolato impegno
investigativo, frutto di anni di indagini, l'approccio di questo Ufficio con il
materiale probatorio non è stato certamente pressapochista, né superficiale
(come spesso si è inopinatamente affermato, senza rispetto delle energie generosamente
profuse da tanti uomini dello Stato), bensì estremamente rigoroso nella
valutazione delle prove, come dimostrano anche le ripetute archiviazioni
richieste – nel corso degli anni – allorquando, a differenza di oggi, gli
elementi di prova erano apparsi inadeguati a sostenere proficuamente l’accusa
in giudizio.
Invero, si tratta del primo procedimento penale
incentrato sulla c.d. "trattativa Stato-mafia", che ha fatto emergere
ipotesi di reato a carico di importanti uomini politici e di alcuni dei vertici
nazionali dei più qualificati apparati investigativi del Paese. Né può
trascurarsi che, nella storia delle indagini antimafia degli ultimi anni,
questa è di certo una delle più "sentite", perché ha costituito il
momento più alto del contributo che la Procura di Palermo ha offerto alla
ricerca della verità sulla stagione in cui hanno perso la vita due
uomini-simbolo come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, indimenticati maestri
e componenti, in anni diversi, di questa Procura della Repubblica.
Secondo la ricostruzione emersa dalle
risultanze finora acquisite, la trattativa, dal lato di Cosa Nostra, venne
originariamente gestita direttamente dall'odierno imputato Salvatore RIINA,
all'epoca capo assoluto del sodalizio mafioso, mentre, da parte dello Stato,
venne condotta da alcuni alti ufficiali dei Carabinieri ovvero il Comandante
del ROS Gen. Antonio SUBRANNI, il suo Vice Col. Mario MORI e il Cap. Giuseppe
DE DONNO, a loro volta investiti dal livello politico (ed in particolare dal
sen. Calogero MANNINO, all'epoca Ministro in carica ed esponente politico
siciliano di grande spicco), che contattarono Vito CIANCIMINO – a sua volta in
rapporti con Salvatore RIINA per il tramite di Antonino CINA’ – nel 1992, nel
pieno dispiegarsi della strategia stragista.
In quello stesso periodo, il medesimo col.
MORI venne in contatto – attraverso l'intermediazione del M.llo Roberto
TEMPESTA e di Paolo BELLINI – con i capi di Cosa Nostra lungo il parallelo asse
costituito da Antonino GIOE’ e Giovanni BRUSCA.
E' stata l’analisi complessiva di tali atti
che ha determinato la doverosa instaurazione del procedimento in oggetto, anche
sulla base delle risultanze dei processi davanti alle Corti d’Assise di
Caltanissetta e Firenze relativi alle stragi del ’92 e del ’93, di cui sono
state acquisite le relative sentenze. Rilevano, a titolo emblematico, le
affermazioni contenute nella motivazione della sentenza depositata il 2 marzo
2012 con la quale la Corte d’Assise di Firenze ha condannato Francesco
TAGLIAVIA per concorso nelle stragi del ’93, ove in premessa si legge che
"una trattativa indubbiamente
ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L'iniziativa
fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia".
Va altresì evidenziato che l'odierno
procedimento è frutto dello stralcio dal procedimento penale n. 2566/98 RGNR
(c.d. procedimento Sistemi Criminali): era già allora centrale la vicenda delle
interlocuzioni instauratesi fra l'ex Sindaco di Palermo Vito CIANCIMINO e gli
ufficiali del ROS. Anche dalle dichiarazioni rese dagli stessi interlocutori
(Vito Ciancimino, da una parte, il Col. MORI e il Cap. DE DONNO, dall’altra) si
evinceva che le “ambasciate” che RIINA faceva pervenire allo Stato si risolvevano
nella minaccia di proseguire nella strategia stragista qualora non fossero
state accolte alcune richieste di benefici in favore di “Cosa Nostra”.
Come è noto, è proprio in tale contesto che si
inserisce la vicenda del c.d. “papello” delle richieste che, secondo
dichiarazioni di più collaboratori, Cosa Nostra fece recapitare ai suoi
“interlocutori” istituzionali per ottenere, in tal modo, i benefici in cambio
dei quali avrebbe posto fine alla strategia omicidiaria avviata nel 1992
(circostanze queste di cui collaboratori di giustizia del calibro di Giovanni
BRUSCA e Salvatore CANCEMI – già appartenuti alla Commissione provinciale di
Palermo di Cosa Nostra – hanno dichiarato di avere avuto notizia personalmente
da Salvatore RIINA).
Ed è, pertanto, proprio in tale ambito di verifica e approfondimento che
è stato attenzionato anche il diverso aspetto concernente la c.d. “altra trattativa” del 1992, apparentemente autonoma
e distinta dalla prima, ma che con essa si intreccia ed in parte si sovrappone
per scansione temporale, oggetto, finalità e soggetti coinvolti (così come
prospettato – in particolare – nelle dichiarazioni di Giovanni BRUSCA): e cioè,
la vicenda del diverso canale di dialogo avviato lungo l‘asse GIOÈ –BELLINI
–TEMPESTA – MORI, nell’ambito del quale Cosa Nostra offrì la restituzione di pregiatissime
opere d'arte rubate, richiedendo come contropartita la concessione degli
arresti domiciliari ad alcuni esponenti di vertice dell’organizzazione, tra i
quali Bernardo BRUSCA e Pippo CALO'.
Gli sviluppi investigativi e l'acquisizione di
ulteriori elementi hanno consentito di ampliare la visione delle vicende
inerenti la trattativa e di coglierne meglio genesi, matrice, obiettivi ed
esiti. Un ruolo prodromico di nuove certezze derivava innanzitutto dalle
dichiarazioni di un testimone privilegiato dei fatti, l'odierno imputato
Massimo CIANCIMINO, fonte di prova dalla controversa attendibilità intrinseca
(visto che in questo processo assume anche la veste di imputato del delitto di
calunnia), ma a cui, d'altra parte, va riconosciuto di aver fornito notizie e
informazioni, che, laddove ed in quanto riscontrate, si sono rivelate preziose:
queste hanno infatti consentito di ricostruire genesi, dinamiche ed esito dei
contatti intercorsi fra i capi di Cosa Nostra e i rappresentanti delle
Istituzioni, attraverso il canale dell‘ex Sindaco di Palermo, Vito CIANCIMINO,
padre del dichiarante.
E di particolare valore e significato sono
state, di certo, le successive e conseguenti rivelazioni di "testimoni
eccellenti", alti esponenti delle Istituzioni del tempo, i quali, solo
allorquando sono venuti a conoscenza delle dichiarazioni di Massimo CIANCIMINO
(in parte divenute pubbliche), sono stati finalmente indotti a riferire, per la
prima volta, circostanze che avevano a lungo taciuto e che, una volta inserite
nel mosaico probatorio, evidenziavano in modo più chiaro uomini,
protagonisti e complici della trattativa.
Nel contempo, da ulteriori risultanze, e tra
queste in particolare dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di elevata affidabilità
ed attendibilità come Antonino GIUFFRÈ (peraltro successivamente corroborato da
numerosi altri collaboranti di stretta osservanza “provenzaniana“, fra i quali Ciro
VARA, Stefano LO VERSO, per non parlare di quanto sul punto già risultava dalle
confidenze del capomafia nisseno Luigi ILARDO al Col. RICCIO e al ROS dei
Carabinieri), si evidenziava che la trattativa non si era affatto conclusa
entro il limitato arco temporale del 1992, essendosi invero proiettata anche
nel corso del 1993: è questo un anno decisivo per Cosa Nostra, che incontrò
sempre maggiori difficoltà operative anche a causa dell'applicazione del duro
regime carcerario del 41-bis, che proprio per questo, secondo le dichiarazioni
di numerosissimi collaboratori, costituiva una delle norme di cui Cosa Nostra
chiedeva l'eliminazione o l'attenuazione, unitamente ad altre, in materia di
collaboratori di giustizia, sequestri di beni, e limitazione dei poteri del
Pubblico Ministero.
Peraltro, anche in riferimento a questa
stagione, nuovi testimoni riferivano ignote circostanze, che attribuivano anche
agli odierni imputati, che consentivano così di delineare, ancora una volta,
una “doppia visione“ convergente, proveniente da punti di vista diversi: i
collaboranti, dall’angolo visuale di Cosa Nostra e, dall'altro lato, gli uomini
dello Stato. Anche se – va detto per inciso - questo Ufficio è consapevole del
fatto che non si è del tutto rimossa quella forma di grave amnesia collettiva
della maggior parte dei responsabili politico-istituzionali dell'epoca
(un'amnesia durata vent'anni), che avrebbe dovuto arrestarsi, se non di fronte
alla drammaticità dei fatti del biennio terribile '92-'93, quanto meno di
fronte alle risultanze (anche di natura documentale) che confermavano
l'esistenza di una trattativa ed il connesso – seppur parziale - cedimento
dello Stato, tanto più grave e deprecabile perché intervenuto in una fase molto
critica per l'ordine pubblico e per la nostra democrazia.
Il complesso probatorio, seppur non esaustivo,
appare sufficiente per ricostruire la trama di una trattativa, sostanzialmente
unitaria, omogenea e coerente, ma che lungo il suo iter ha subìto molteplici
adattamenti, ha mutato interlocutori e attori da una parte e dall'altra,
allungandosi fino al 1994, allorquando le ultime pressioni minacciose
finalizzate ad acquisire benefici e assicurazioni hanno ottenuto le risposte
attese.
In questo quadro, può dirsi che è proprio dal
suo epilogo del 1994, che viene ancor meglio in evidenza la vera posta in gioco
di tutta la “trattativa“.
Essa non è stata limitata a singoli obiettivi
“tattici“, come la tregua per risparmiare gli uomini politici inseriti nella
lista mafiosa degli obiettivi da eliminare, o l'allentamento del 41 bis e gli
altri punti del papello, ma – assai più ambiziosamente – ha avuto ad oggetto un
nuovo patto di convivenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe
potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un patto
di convivenza che, da un lato, significava la ricerca di nuovi referenti
politici e, dall'altro lato, la garanzia di una duratura tregua armata dopo il
bagno di sangue che in quegli anni aveva investito l'Italia.
E' proprio questo il senso più profondo della
strategia violenta che ebbe inizio con l'omicidio LIMA. Fu certamente la risposta di Cosa nostra allo Stato che, dopo
la sentenza di Cassazione del maxiprocesso, aveva messo in crisi la credenza
d'impunità dei boss, condizione essenziale per la sopravvivenza
dell’organizzazione criminale mafiosa stessa. Ciò nonostante, è indubbio che il
programma omicidiario-stragista nacque dalla necessità per i boss di
ristrutturare radicalmente ed in modo irreversibile e violento il rapporto con
la politica. Uno scontro che ha portato il Paese a un capovolgimento politico e
istituzionale.
Va, in proposito, rammentato che la sentenza
della Cassazione costituisce soltanto l’epilogo di un rapporto che si era già
usurato a cominciare dalla seconda metà degli anni ’80.
Invero, in quel periodo e fino agli anni ’90, Cosa Nostra attraversò una fase estremamente delicata e di transizione, speculare rispetto alla fase, altrettanto delicata e di transizione, attraversata dal nostro Paese, ove si verificavano importanti mutamenti politici e istituzionali, specie dopo la caduta del Muro di Berlino ed il conseguente e rapido crollo del c.d. “comunismo reale” alla fine degli anni ’80.
Cosa Nostra – come è noto – non è soltanto un’organizzazione criminale, ma anche e soprattutto un vero e proprio sistema di potere criminale, che fonda la sua forza anche sull’interlocuzione con gli altri poteri, in particolare con quello politico e con quello economico, dai quali trae legittimazione e concreti benefici. Sicché, è normale che, nei momenti di tensione e crisi all’interno degli altri sistemi di potere, con i quali la mafia interagisce, si determinino delle immediate ripercussioni nell’universo criminale. E’ quel che accadde nella seconda metà degli anni ’80, ove a tale macro-fenomeno politico-economico, si aggiunsero le più specifiche e contingenti difficoltà dei capi di Cosa Nostra, che subirono proprio in quel periodo le conseguenze più negative del maxiprocesso, non solo sul piano meramente repressivo, ma anche su quello della propria “autorevolezza”:
Invero, in quel periodo e fino agli anni ’90, Cosa Nostra attraversò una fase estremamente delicata e di transizione, speculare rispetto alla fase, altrettanto delicata e di transizione, attraversata dal nostro Paese, ove si verificavano importanti mutamenti politici e istituzionali, specie dopo la caduta del Muro di Berlino ed il conseguente e rapido crollo del c.d. “comunismo reale” alla fine degli anni ’80.
Cosa Nostra – come è noto – non è soltanto un’organizzazione criminale, ma anche e soprattutto un vero e proprio sistema di potere criminale, che fonda la sua forza anche sull’interlocuzione con gli altri poteri, in particolare con quello politico e con quello economico, dai quali trae legittimazione e concreti benefici. Sicché, è normale che, nei momenti di tensione e crisi all’interno degli altri sistemi di potere, con i quali la mafia interagisce, si determinino delle immediate ripercussioni nell’universo criminale. E’ quel che accadde nella seconda metà degli anni ’80, ove a tale macro-fenomeno politico-economico, si aggiunsero le più specifiche e contingenti difficoltà dei capi di Cosa Nostra, che subirono proprio in quel periodo le conseguenze più negative del maxiprocesso, non solo sul piano meramente repressivo, ma anche su quello della propria “autorevolezza”:
1) l’arresto di numerosissimi uomini d’onore,
capi, gregari esemplici “soldati” determinò un concreto depauperamento delle capacità
operative dell’associazione mafiosa;
2) le prime collaborazioni con la giustizia di
uomini d’onore come Tommaso BUSCETTA, Salvatore CONTORNO (e poi Antonino
CALDERONE e Francesco MARINO MANNOIA), causarono una profonda ferita, mai più
rimarginata, alla legge dell’omertà interna;
3) il rinvio a giudizio prima, e la condanna in
primo grado poi di tantissimi mafiosi, alla fine di un processo caricato di
grande significato politico-simbolico, misero in crisi il mito dell’impunità dei mafiosi.
E’ anche e proprio da qui che iniziò una nuova
presa di coscienza all’interno dei vertici dell’organizzazione mafiosa. E’ proprio
dagli effetti nefasti (per l’associazione mafiosa) del maxiprocesso che prese
avvio la crisi dei rapporti di Cosa Nostra con i referenti politici
tradizionali, che agli occhi dei capimafia avevano fallito su uno dei terreni
più importanti per i quali la mafia a loro si rivolgeva: la garanzia
dell’impunità.
Ecco allora che Cosa Nostra mutò atteggiamento
ed elaborò una nuova politica di “alleanze”, tendente a rinnovarle e a
verificare la praticabilità di altri “canali”, di altri “terminali”, verso i
quali eventualmente indirizzare la propria capacità di orientare i consensi
elettorali.
Naturalmente il rapporto fra il potere mafioso e
gli altri poteri non è un rapporto “piano”, fondato sul dialogo e su accademici
scambi di opinione. Tutt’altro: esso è fondato, invece, sulla logica dei
rapporti di forza e spesso sul linguaggio della violenza, vera o sublimata.
Proprio perciò è soltanto con l’uso di questo linguaggio che i capi di Cosa
Nostra concepiscono il loro relazionarsi con la politica, soltanto con l’uso
della violenza pensano di poter realizzare un qualsiasi progetto di “rinnovo”
dei propri rapporti con quel mondo.
Di tale logica fu sintomo il tentativo - prima
attuato e poi rientrato - da parte di Cosa Nostra di mutare alleanza politica, allorquando,
in occasione delle elezioni del 1987, dirottò i propri appoggi dalla Democrazia
Cristiana al Partito Socialista Italiano.
Durante lo svolgersi di questo travagliato
percorso di transizione, si arrivò così alle soglie del nuovo decennio, quando,
all’inizio degli anni ’90, la situazione politica nazionale ed internazionale si fece ancora più complessa.
Il crollo del muro di Berlino e il disfacimento
dell’impero sovietico ridisegnarono gli equilibri politici internazionali sull’intero
scacchiere mondiale. La fine della contrapposizione bipolare Est-Ovest, fondata
sull’equilibrio nucleare e su una guerra fredda combattuta su più fronti, fu la
“grande madre” di una catena di eventi.
La grande criminalità aveva approfittato della
copertura politica della guerra fredda per intessere, all’interno del sistema politico-istituzionale,
una serie di rapporti che hanno fatto dell’Italia uno degli snodi degli
interessi macroeconomici del crimine mondiale. Ebbene, fu proprio il crollo del
muro di Berlino a determinare la fine della giustificazione storica della “collaborazione” con la grande criminalità.
Nel frattempo, nel panorama nazionale, l’eccesso
di tassazione, portato dell’utilizzazione distorta della spesa pubblica, aveva
determinato la rivolta della borghesia commerciale e della piccola
imprenditoria di varie regioni del Nord, espressa nella vertiginosa crescita
politica del fenomeno delle Leghe. Anche al Sud l’emergere di un fenomeno
politico spontaneo e nuovo come quello della “Rete” si rivelò quale ulteriore
sintomo della crisi dei partiti tradizionali.
Fu il combinarsi di tutte queste circostanze a
far sì che dal cuore del sistema politico nazionale vennero precise indicazioni
per “voltare le spalle” alla grande criminalità. E non è forse un caso che
proprio in quel periodo – pur in assenza di una vera e propria emergenza d’ordine
pubblico (del genere di quella che si era realizzata agli inizi degli anni ’80
e come ancor più si realizzò durante la stagione stragista del “biennio
terribile” del ’92-’93) - la politica criminale registrò taluni significativi
segni di mutamenti in senso repressivo.
Nessuno poteva ormai fermare il corso degli
eventi. Si era chiusa in modo irreversibile una fase storica ed il vecchio sistema
era ormai alle corde. Il che poi esplose fragorosamente nei primi anni ’90,
anche per effetto di talune importanti inchieste giudiziarie che travolsero i
vertici di alcuni dei più importanti partiti politici.
E’ in questo quadro complessivo, è in questo
contesto generale che va inserita la strategia di alleanze che Cosa Nostra organizzò
in quella nebulosa e complessa fase storica di transizione e concepì il piano
destabilizzante del quadro politico tradizionale iniziato con l’omicidio LIMA,
poi sfociato nella logica della “trattativa“ per costruire un nuovo “patto politico
mafioso di convivenza fra Stato e mafia“.
Due frasi assumono importante valore simbolico. Una
è quella di Totò RIINA, che spiega ai suoi soldati: «Dobbiamo fare la guerra allo Stato per
poi fare la pace». Un modo rozzo di
esprimere la ragione dello stragismo mafioso all'ombra dello spirito della
trattativa. L’altra è del boss Leoluca BAGARELLA: «In futuro non dobbiamo più correre il
rischio che i politici possano voltarci le spalle». L'obiettivo strategico è costruire le
premesse per un nuovo rapporto con la politica, perché – come diceva sempre BAGARELLA
– fosse Cosa Nostra ad esprimere direttamente le scelte politiche attraverso i
suoi uomini, senza alcuna mediazione. Annullare la politica ed i politici
tradizionali per favorire l'ingresso della mafia in politica, tout court.
Le stragi costuirono la premessa necessaria
della ristrutturazione dello scambio dialettico con la politica. BAGARELLA
all’inizio pensava di rifondare il rapporto con la politica tramite il progetto
separatista di «Sicilia libera», un movimento di diretta espressione della mafia,
per conquistare un più immediato controllo della politica. Ma il progetto
originario risultò troppo elementare e fallì. Il completamento e lo sperato esito della “trattativa politica“ attraverso la stipula del “patto politico-mafioso“ si dispiegò attraverso vari tentativi in
successione, nell’arco temporale che va dal 1992 fino al 1994. Nel piano
criminale di quella stagione non ci fu una progressione rigidamente
predeterminata, almeno da parte di Cosa Nostra, che dimostrò al contrario la
capacità di adattarsi agli eventi, secondo la sua migliore tradizione.
Nel 1992, la posta in gioco era soprattutto la
vita dei politici inseriti nella lista nera di Cosa Nostra che andavano
salvati, e perciò la trattativa ebbe per oggetto la rinuncia agli omicidi già
programmati in cambio dell‘allentamento della morsa repressiva.
Nel 1993, la trattativa sembrò inizialmente non produrre gli esiti sperati e si resero necessarie ulteriori minacce che, questa volta, produssero qualche frutto: l'allentamento del 41 bis. Il “cedimento“, consistito nell’inopinata mancata proroga di oltre 300 decreti di applicazione del 41 bis, costituì il segnale che si volesse andare incontro ai desiderata di Cosa Nostra, lanciando quel “segnale di distensione“, peraltro letteralmente auspicato nella Nota che il Capo del DAP CAPRIOTTI indirizzava al Ministro della Giustizia CONSO in data 26/6/1993. Ma non bastò. Non poteva bastare. La presenza di un governo tecnico determinò la necessità di continuare dietro le quinte una trattativa più squisitamente politica, finalizzata cioè a trovare un nuovo referente politico, azione poi sfociata nell'accordo politico-mafioso, stipulato nel 1994, non prima di avere rinnovato la minaccia al governo Berlusconi appena insediatosi.
Nel 1993, la trattativa sembrò inizialmente non produrre gli esiti sperati e si resero necessarie ulteriori minacce che, questa volta, produssero qualche frutto: l'allentamento del 41 bis. Il “cedimento“, consistito nell’inopinata mancata proroga di oltre 300 decreti di applicazione del 41 bis, costituì il segnale che si volesse andare incontro ai desiderata di Cosa Nostra, lanciando quel “segnale di distensione“, peraltro letteralmente auspicato nella Nota che il Capo del DAP CAPRIOTTI indirizzava al Ministro della Giustizia CONSO in data 26/6/1993. Ma non bastò. Non poteva bastare. La presenza di un governo tecnico determinò la necessità di continuare dietro le quinte una trattativa più squisitamente politica, finalizzata cioè a trovare un nuovo referente politico, azione poi sfociata nell'accordo politico-mafioso, stipulato nel 1994, non prima di avere rinnovato la minaccia al governo Berlusconi appena insediatosi.
*****
Venendo alla sostanza giuridica delle
contestazioni, occorre rammentare che il presente procedimento non ha per
oggetto in senso stretto la trattativa. Nessuno è imputato per il solo fatto di
aver trattato. Non ne sono imputati i mafiosi e neppure gli uomini dello Stato.
Oltre ai mafiosi (RIINA, PROVENZANO, il medico
Antonino CINA', BRUSCA e BAGARELLA), almeno sette uomini dello Stato sono, invece,
ritenuti responsabili di precise e specifiche condotte di reato realizzate
nell’ambito della trattativa. Tre sono gli uomini degli apparati che hanno
fatto da anelli di collegamento fra mafia e Stato: MORI, DE DONNO e il loro
superiore dell’epoca SUBRANNI. Due sono gli uomini politici – cerniera, cinghie
di trasmissione della minaccia: MANNINO prima e DELL'UTRI dopo. Poi c’e’ Massimo CIANCIMINO, imputato di
concorso esterno in associazione mafiosa per il suo ruolo permanente di tramite
fra il padre Vito e Bernardo PROVENZANO. Due sono, infine, gli uomini di Governo,
CONSO e MANCINO, sui quali si è acquisita prova di una grave e consapevole
reticenza. MANCINO è imputato per falsa testimonianza; CONSO, con l’allora
Direttore del DAP Adalberto CAPRIOTTI e l’on. Giuseppe GARGANI sono tuttora
“soltanto“ indagati per false dichiarazioni al PM, esclusivamente in ossequio
alla previsione di legge che impone il congelamento della loro posizione in attesa della definizione del procedimento
principale.
La condotta è stata contestata a ciascuno degli
imputati in funzione della rispettiva posizione nell’ambito della trattativa. I
boss mafiosi RIINA, PROVENZANO, BRUSCA, BAGARELLA e il ‘’postino’’ del papello Antonino CINA’, sono gli autori immediati del
delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta
tipica di minaccia ad un Corpo Politico dello Stato, in questo caso il Governo,
con condotte diverse ma avvinte dal medesimo disegno criminoso, a cominciare
dal delitto LIMA. Omicidio che fu la prima esecuzione della minaccia rivolta
verso il Governo tutto ed in particolare indirizzata verso il Presidente del
Consiglio in carica Giulio ANDREOTTI. L‘avvio di una campagna del terrore
contro il ceto politico dirigente dell'epoca al fine di ottenere i benefici ed
i vantaggi che furono poco dopo specificati nel papello di richieste che RIINA fece pervenire ai vertici
governativi.
La predisposizione ed inoltro del papello ai destinatari della minaccia costituì,
pertanto, un ulteriore momento esecutivo della condotta tipica, dispiegatasi
ancora negli anni successivi attraverso i gravissimi messaggi minacciosi che si
succedettero nel 1993 e all’inizio del 1994, anno in cui, al Governo presieduto
dall’on. BERLUSCONI, BRUSCA e BAGARELLA fecero recapitare, attraverso il canale
MANGANO-DELL'UTRI, l'ultimo messaggio intimidatorio prima della stipula
definitiva del patto politicomafioso.
Si completò, in tal modo, il lungo iter di una
travagliata trattativa che trovò finalmente il suo approdo nelle garanzie
assicurate dal duo DELL'UTRI-BERLUSCONI (come emerge dalle convergenti
dichiarazioni di SPATUZZA, BRUSCA e GIUFFRE‘).
Quanto alle condotte degli uomini dello Stato
imputati di concorso nella minaccia al Governo (SUBRANNI, MORI, DE DONNO,
MANNINO e DELL’UTRI), sono tutti accusati di aver fornito un consapevole contribuito
alla realizzazione della minaccia, con condotte atipiche di sostegno alle
condotte tipiche che si sono risolte nell'avere svolto il ruolo di consapevoli
mediatori fra i mafiosi e la parte sottoposta a minaccia, quasi fossero gli
intermediari di un’estorsione. Con l'aggravante, nel caso di specie, che il
soggetto “estorto“ è lo Stato e l'oggetto dell'estorsione è costituito dal
condizionamento dell'esercizio dei pubblici poteri, così sviati dalla loro
finalità istituzionale e dal bene pubblico.
Per completezza, si segnala, infine, il ruolo di
concorrenti nel medesimo reato assunto da altri uomini delle istituzioni oggi
deceduti. Ci si riferisce all'allora Capo della Polizia Vincenzo PARISI ed al
vice direttore del DAP Francesco DI MAGGIO, che, agendo entrambi in stretto
rapporto operativo con l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi
SCALFARO, contribuirono al deprecabile cedimento sul tema del 41 bis.
Diventa così più agevole la comprensione dei
reati contestati, della tipologia della condotta ascritta a ciascun imputato e
delle ragioni del radicamento della competenza davanti all'Autorità Giudiziaria
di Palermo.
Invero, premesso che si procede per un
classico reato di minaccia, la condotta tipica va ravvisata in ogni minaccia
grave contro un corpo politico amministrativo come il Governo, esercitata dai
vertici dell'organizzazione mafiosa. In particolare, la minaccia, come
descritta nel capo di imputazione, è consistita nell'aver prospettato agli
"uomini-cerniera", perché ne dessero comunicazione a rappresentanti
del Governo, l'organizzazione e l'esecuzione di omicidi e stragi ed altri gravi
delitti ai danni di esponenti politici e delle Istituzioni se lo Stato non
avesse accolto la richiesta di benefici di varia natura che veniva formulata
dai capi di Cosa Nostra.
Va, ovviamente, sempre tenuto conto che, ai fini
della consumazione del reato, è del tutto irrilevante che i benefici richiesti
siano stati effettivamente ottenuti, essendo del tutto indifferente per un mero
reato di pericolo, come nel caso di specie, che la vittima sia stata
concretamente intimidita e quindi costretta a compiere gli atti richiesti, con
conseguente turbamento dell'attività di Governo.
Invero, la condotta incriminata ha trovato il
suo principio di esecuzione nell'omicidio dell'on. Salvo LIMA che ne ha
costituito la prima realizzazione minacciosa, indirizzata ai destinatari finali
del messaggio a contenuto intimidatorio: il Sen. Giulio ANDREOTTI e il Sen.
Calogero MANNINO, entrambi all’epoca componenti del Governo.
Il primo, quale Presidente del Consiglio in
carica, e riferimento nazionale dell'on. LIMA, fu certamente il più immediato
destinatario della minaccia nella duplice veste di Capo del Governo e di
esponente politico che Cosa Nostra riteneva responsabile della mancata
realizzazione delle sue aspettative in merito all’aggiustamento del
maxiprocesso.
Il secondo, l'odierno imputato Calogero
MANNINO, nella doppia qualità di componente del Governo, quale Ministro per gli
Interventi Straordinari nel Mezzogiorno, e soprattutto di principale esponente
siciliano della corrente politica DC facente capo a livello nazionale
all’allora segretario nazionale del partito.
Ciò rileva ancor di più ove si pensi che MANNINO era stato individuato dai vertici di Cosa Nostra come successiva ed ormai designata vittima del progetto omicidiario in danno dei politici che non avevano mantenuto i patti.
Ciò rileva ancor di più ove si pensi che MANNINO era stato individuato dai vertici di Cosa Nostra come successiva ed ormai designata vittima del progetto omicidiario in danno dei politici che non avevano mantenuto i patti.
Il MANNINO, secondo la ricostruzione dei fatti
desumibili dalle risultanze acquisite, si attivava per sollecitare i propri
terminali sul territorio a richiedere a Cosa Nostra la contropartita utile ad
interrompere la strategia di frontale attacco alle Istituzioni politiche, così
di fatto proponendosi come intermediario per conto dell’organizzazione mafiosa
nella ricerca di nuovi equilibri nei rapporti con la politica.
La condotta degli altri concorrenti nel reato
di cui all'art.338 c.p. è di ausilio nell'aver agevolato Cosa Nostra a portare
a destinazione il messaggio intimidatorio. In particolare, questo è il ruolo
oggetto di contestazione ai tre Ufficiali del ROS (SUBRANNI, MORI, DE DONNO) che,
attivati nel 1992 da MANNINO e da altri esponenti del livello politico della
trattativa non tutti ancora compiutamente individuati, aprivano un canale di
interlocuzione con i vertici di Cosa Nostra e finivano per determinare, o
comunque rafforzare, negli stessi il convincimento dell’utilità della minaccia,
prestandosi poi a recapitare il contenuto dei messaggi intimidatori al Governo,
destinatario ultimo della minaccia e titolare del potere per concedere i
benefici di varia natura richiesti dai mafiosi.
In questo contesto, si inserisce la
contestazione di falsa testimonianza a carico dell'odierno imputato Nicola
MANCINO.
E‘ sicuramente emerso che chi condusse la trattativa fece un’attenta valutazione: il Ministro dell'Interno in carica Vincenzo SCOTTI era ritenuto un potenziale ostacolo, mentre MANCINO veniva ritenuto più utile in quanto considerato più facilmente influenzabile da politici della sua stessa corrente, ed artefici della trattativa come il coimputato MANNINO, e da chi lo circondava, a cominciare dal Capo della Polizia PARISI. E rispetto al ruolo di quest'ultimo, va evidenziato il dato, non trascurabile, che mentre i primi approcci della trattativa erano nati su iniziativa ed ispirazione di chi poteva avere un interesse immediato e personale, in quanto più esposto, nel frattempo il quadro si era aggravato perché all'omicidio LIMA aveva fatto seguito la strage di Capaci. E quindi l’affare non riguardava più solo la sorte dei politici, ma l’intero Stato. E' il momento, in cui irrompe sulla scena una male intesa (e perciò mai dichiarata) Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e che coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali.
E‘ sicuramente emerso che chi condusse la trattativa fece un’attenta valutazione: il Ministro dell'Interno in carica Vincenzo SCOTTI era ritenuto un potenziale ostacolo, mentre MANCINO veniva ritenuto più utile in quanto considerato più facilmente influenzabile da politici della sua stessa corrente, ed artefici della trattativa come il coimputato MANNINO, e da chi lo circondava, a cominciare dal Capo della Polizia PARISI. E rispetto al ruolo di quest'ultimo, va evidenziato il dato, non trascurabile, che mentre i primi approcci della trattativa erano nati su iniziativa ed ispirazione di chi poteva avere un interesse immediato e personale, in quanto più esposto, nel frattempo il quadro si era aggravato perché all'omicidio LIMA aveva fatto seguito la strage di Capaci. E quindi l’affare non riguardava più solo la sorte dei politici, ma l’intero Stato. E' il momento, in cui irrompe sulla scena una male intesa (e perciò mai dichiarata) Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e che coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali.
Ed invero, anche l’ex Guardasigilli Claudio
MARTELLI, percepito anche lui come un ostacolo alla trattativa, finisce per
essere politicamente eliminato (anche per effetto di un'inusuale collaborazione
giudiziaria del capo della P2 Licio GELLI) più in là nel ’93, quando si tratta
di ammorbidire il 41 bis. E nello stesso contesto temporale, viene tolto di
scena anche il capo del Dap Nicolò AMATO, ritenuto inizialmente un possibile strumento
utile e inconsapevole della trattativa per il suo acceso garantismo, ma poi
diventato inaffidabile, anche per avere messo inopinatamente nero su bianco (in
una sua nota del 6 marzo 1993 indirizzata al neo-Ministro CONSO) che PARISI
aveva espresso «riserve» sull’eccessiva durezza del 41 bis, a margine
della riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica del 12
febbraio 1993.
D'altra parte, occorre considerare che la
condotta di alcuni protagonisti istituzionali della trattativa del 1992 (MORI e
MANNINO, in particolare), non rimase circoscritta entro quei confini temporali
in relazione al triangolo di rapporti CIANCIMINO-CINA'-RIINA, ma si protrasse certamente
fino al 1993, allorquando, chiusa la Prima Repubblica con la caduta del Governo
Amato, e quindi nella successiva fase di debolezza del quadro politico che
favorì la formazione di un "Governo tecnico" come il Governo CIAMPI
(che fu anche un "Governo del Presidente" e cioè del Presidente della
Repubblica, Oscar Luigi SCALFARO), si affievolì il potere dei politici “garanti“ del primo accordo stipulato a margine della prima trattativa
in costanza della Prima Repubblica. Tale ruolo venne più proficuamente assunto
e mantenuto, in quel particolare momento, dagli uomini degli “apparati“ sopravvissuti alla Prima Repubblica. In particolare, il
Capo della Polizia Vincenzo PARISI ed il Gen. Mario MORI in questo contesto
assunsero un ruolo di particolare protagonismo: gli uomini-cerniera divennero
uomini-artefici della trattativa, decisivi nel garantire l'adempimento degli
accordi presi, e quindi garanti della controprestazione in termini di
allentamento della stretta repressiva, specialmente sul fronte carcerario in
materia di 41 bis.
E' in quel momento che si delinea in tutta la
sua importanza il ruolo di Francesco DI MAGGIO, uomo fidato dei Servizi di
Sicurezza e da sempre legato al ROS dei Carabinieri ed uomo forte della
Amministrazione Penitenziaria, che darà il suo indirizzo imponendolo a
CAPRIOTTI, il nuovo Direttore del DAP, ed al Ministro CONSO. Ciò con l'avallo
che gli derivava anche dai suoi rapporti con il capo dello Stato, Oscar Luigi
SCALFARO ( a sua volta influenzato da PARISI). Capo dello Stato che, come
emerso da varie e convergenti deposizioni testimoniali, ebbe un ruolo decisivo
negli avvicendamenti SCOTTI-MANCINO e MARTELLI-CONSO, e nella sostituzione di
Nicolò AMATO col duo CAPRIOTTI-DI MAGGIO, attraverso i quali seguì l'evoluzione
delle vicende del 41 bis strettamente connesse all'offensiva stragista del
1993.
Ma certamente l'allentamento sul fronte
carcerario, con alcune significative mancate proroghe di regime ex 41 bis nei confronti di boss mafiosi di assoluto rango, non poteva
esaurire l'iter della trattativa che, dalla parte dei capi di Cosa Nostra,
aveva ben più ambiziosi e duraturi obiettivi, mirando ad ottenere garanzie a
tutto campo, con la stipula di un nuovo duraturo patto politico-mafioso. Ed è
per questa ragione che le minacce di prosecuzione della stagione stragista non
si arrestarono e proseguirono fin tanto che, subentrata la Seconda Repubblica
ed insediatasi una nuova classe politica dirigente con la quale “trattare“, all'ultima minaccia portata al neo-Governo
Berlusconi tramite il canale BAGARELLA-BRUSCAMANGANO-DELL'UTRI, seguì la
definitiva saldatura del nuovo patto di coesistenza Stato-mafia.
*****
Così compendiato l'iter complessivo della “trattativa“ e la ricostruzione
delle risultanze probatorie in ordine alla dinamica delle condotte oggetto
della contestazione, alla loro concatenazione finalistica e al loro dipanarsi
nel tempo, diviene più agevole dissipare ogni eventuale dubbio residuo in
ordine alla competenza radicata davanti all'Autorità Giudiziaria di Palermo.
Ciò per un triplice ordine di considerazioni,
anche fra loro alternative:
a) in primo luogo, la condotta di violenza e
minaccia ha inizio certamente a Palermo con la commissione dell'omicidio LIMA
che rappresenta, per le ragioni sopra esposte, il primo atto con il quale si dà
esecuzione alla minaccia, nei confronti del Governo ANDREOTTI allora in carica,
di prosecuzione della progettata serie di delitti di uomini politici di spicco
della Prima Repubblica;
b) in secondo luogo, vi è, altresì, connessione
fra l'omicidio LIMA e i singoli atti di minaccia indirizzati al Governo, in
relazione all'identità di disegno criminoso originario, unica determinazione di
sottoporre a minaccia il Governo in carica anche attraverso la commissione di alcuni
specifici omicidi di uomini politici (così come riferito da alcuni
collaboranti, ed in particolare da Giovanni BRUSCA);
c) in terzo luogo, anche a voler prescindere dei
primi due motivi di competenza territoriale, gli indizi finora acquisiti fanno
ritenere che il primo atto di minaccia nei confronti del Governo ANDREOTTI sia
stato recapitato a Palermo nei confronti dell'allora Ministro Calogero MANNINO.
Quanto sinteticamente esposto, e con riserva di
ulteriore illustrazione nel corso della discussione innanzi alla S.V.,
sostanzia le ragioni per le quali si è ritenuto doveroso esercitare l’azione
penale nei confronti degli odierni imputati, nella ferma convinzione che
l’unica vera Ragione di Stato è quella verità che questo Ufficio non ha mai
smesso, e mai smetterà, di cercare.
Nella consapevolezza che è doveroso adesso
sottoporre tali risultanze al vaglio della S.V., giudice nel contraddittorio
delle parti.
Palermo , il 5 novembre 2012
IL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA AGG.
Antonio Ingroia
I SOSTITUTI PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
Lia Sava Antonino Di Matteo
Francesco Del Bene Roberto Tartaglia
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