venerdì 26 aprile 2013

"Minico" di Rino Porrovecchio

Minico è un ragazzo di venticinque anni.
Ha perso il padre da un paio d'anni, per cancro.
Lui e sua mamma vivono con una misera pensione, in una casetta mal ridotta di Sferracavallo.
Lo conobbi ad una mostra fotografica.
Minico era il fidanzato di una mia amica fotografa.
Tarchiato, occhioni scuri e capelli neri come la pece, Minico, in quella occasione, rimase colpito da alcuni miei commenti alle foto in esposizione che tentavano maldestramente di cogliere differenze e similitudini tra la Palermo e la Berlino di strada.
Un tema interessante ma mal sviluppato con immagini peraltro anche tecnicamente di scarsa qualità e di poco effetto.
La mostra, in un palazzo storico di Palermo, era del resto finanziata da una banca, e l'artista fotografo era verosimilmente un "amico degli amici".
Pubblicazioni, buffet, locali ed organizzazione hanno un costo che ormai solo gli amici della casta possono permettersi.
Tanti gli ospiti illustri e meno illustri, tutti rigorosamente con giacca, cravatta e panza, s'aggiravano più intorno al cibo che all'arte o a quella che volevano spacciarci per arte.
Ad un certo punto Minico mi chiese, un po' imbarazzato, se m'andava di fumare una sigaretta e ci avviammo dunque nella corte interna del bellissimo palazzo fresco fresco di restauro.
Fù in quella occasione che cominciammo a conoscerci un po' meglio e che nacque la nostra amicizia.
Cominciammo ad uscire insieme più volte, sia da soli che con Annarosa, la mia amica fotografa e sua fidanzata.
Andavo a prenderlo a casa con l'auto e poi lo riaccompagnavo al ritorno.
Minico era infatti a piedi, senza auto ma anche senza neppure un misero motorino.
In una di queste occasioni mi chiese di salire, per presentarmi a sua madre.
Mi sentii stringere il cuore quando scoprii la precarietà dell'alloggio nel quale vivevano.
Mi sentii un verme, profondamente imbarazzato.
Provai come un po' di vergogna nel confrontare la mia situazione e locazione con le sue.
Non sono ricco, anzi. Ho però un impiego regolare ed una casa di cui pago il mutuo ma che casa lo è per davvero.
Quella di Minico e sua madre era invece una casa umida e vecchia, precariamente arredata e, in alcune stanze, con delle crepature tanto profonde nel muro da far passare la luce dell'esterno.
Minico aveva da tempo cominciato a spacciare (erba) e, del resto, non era riuscito a trovare altro da fare per arrangiarsi in un contesto dove la parola "lavoro" diveniva sempre più una chimera irraggiungibile piuttosto che qualcosa di concreto col quale vivere onestamente.
Un giorno mi telefonò, chiedendomi di passare a prenderlo.
Aveva bisogno di parlarmi ed anche con una certa urgenza.
Lasciai il lavoro e corsi da lui.
C'incontrammo al bar Collica, in viale Strasburgo.
Ci accomodammo in un tavolinetto all'esterno e prendemmo lì un caffè.
Minico era strano, avevamo ormai preso molta confidenza e dunque non capivo il suo sguardo sfuggente e nuovamente pieno d'imbarazzo.
Compresi tutto quando venimmo al dunque e quando mi disse che lo zio "Totò", il bossetto del quartiere, lo aveva fatto chiamare per "fare una cosa".
Lo avrebbero pagato e magari poi impiegato in altre "cose da fare".
Fui preso da un misto di sconfortante impotenza ed ira rabbiosa.
Non volevo che Minico imboccasse definitivamente quella strada.
Feci dunque di tutto per dissuaderlo.
Gli dissi che doveva vivere d'un lavoro onesto e che avrei fatto di tutto per trovarglielo.
Scomodando un amico, appena un paio di giorni dopo, riuscii a trovargli una sistemazione come "tutto fare" in un'azienda che produceva profilati metallici.
Minico mi accontentò e cominciò dunque finalmente il suo primo lavoro degno di tale nome. Che poi della reale degnità di tale lavoro diremo subito appresso.
Ero contento.
Stavo al lavoro più sereno e tranquillo sapendo che Minico era ormai lontano da ciò che avrebbe potuto rovinargli la vita.
Passò così il primo mese.
Minico veniva utilizzato per fare fotocopie, per operare alle Poste, consegnare plichi, rispondere al telefono, accogliere i clienti, fare le pulizie serali negli uffici.
Lavorava dalle 8 del mattino alle 19 della sera.
Con l'ingegnere proprietario dell'azienda aveva concordato un compenso di 450 euro mensili, in nero ovviamente.
Quando a fine mese però Minico si presentò a lui per ricevere quanto gli spettava si sentì rispondere che al momento non gli si potevano dare che 200 euro.
"Ho solo questi in tasca, il restante te lo darò insieme a quello del prossimo mese, abbi un po' di pazienza, son tempi tristi per tutti questi" - gli aveva detto l'ingegnere con aria un po' insofferente.
Minico ci restò male ma continuò a lavorare anche il mese successivo e quello ancora dopo, con acconti minimi offertigli con sempre maggiore insofferenza.
Un giorno Minico torna a chiamarmi mentre sono al lavoro.
"Gli ho ancora una volta chiesto i miei soldi -mi disse- (l'arretrato ammontava ormai a 900 euro) e mi ha risposto che lo stavo seccando e che non poteva combattere con me ogni mese per il danaro".
Rimasi allibito.
Ma come sarebbe a dire che non può combattere ogni mese con chi gli chiede ciò che gli spetta secondo patti che lo vedono lavorare 11 ore al giorno già da 3 mesi?
Ma come si fa a pensare e pretendere che la gente lavori gratis o accontentandosi, al massimo, di pochi spiccioli dati quasi come fosse un'elemosina?
"Rino, -aggiunse Minico- io non ce la faccio più, sono senza una sigaretta, questa mattina non ho preso neppure il caffè, sto qui a lavorare onestamente, come mi avevi chiesto tu, ma probabilmente non potrò neppure comprare il panino a pranzo, che devo fare? Io non ci resisto così".
A quelle parole venni preso dall'ira funesta di Achille: "Stasera vengo a prenderti io, tu stai tranquillo per adesso e fa' il tuo lavoro come sempre".
Non riuscii più a lavorare tranquillamente, cercavo una soluzione che però non riuscivo a trovare.
Ad un certo punto decisi che l'unica cosa da fare era usare gli stessi metodi dell'ingegnere "suca-sangue": sfruttare le sue debolezze e ripagarlo come meritava.
Alle 17 uscii dall'ufficio e mi recai subito a prendere Minico.
Parcheggiai l’auto e salii sopra. Ad aprirmi fù proprio Minico.
Tutti gli altri dipendenti erano nelle loro stanze. Diedi un'occhiata veloce agli ambienti e poi dissi a Minico: “Buttati a terra e lamentata a gran voce un dolore al ginocchio”.
Minico si fidava di me e fece quanto richiestogli senza chiedermi altro.
A quel punto, mentre Minico per terra urlava di finto dolore, presi in mano il cellulare e feci per chiamare il 118.
Come le api infastidite da qualcuno che gli strattona l'alveare escono tutte insieme dalle celle del favo ronzando, così i dipendenti e l'ingegnere stesso uscirono dalle loro stanze.
"Che succede? E chi è lei?" - dissero tutti in coro come fossero all'Antoniano.
"Sono il cugino di Minico, faccio il giornalista -dissi- son quello che da 3 mesi lo viene a prendere e lasciare al lavoro qui. Ero appena salito quando Minico è scivolato sbattendo violentemente il ginocchio tra le scrivanie della saletta. E' un infortunio sul lavoro e sto dunque chiamando l'ambulanza".
Panico. Nei loro volti, specie in quello dell'ingegnere, si affacciò il panico più assoluto.
"Oltre all'ambulanza – proseguii- adesso chiamiamo anche i Carabinieri e cercheremo di capire quanti altri lavorano in nero qua dentro ed a quanti altri viene anche negata la retribuzione che gli spetta per il lavoro che qui prestano per 11 ore al giorno da mesi e mesi".
A quelle parole l'ingegnere mi avvicinò molto dimessamente chiedendomi se fosse possibile parlarne nel suo ufficio.
Accettai. E dopo avergli evidenziato la gravità del suo comportamento ottenni l'immediata retribuzione di tutto l'arretrato ed un contratto Co.Co.Co per Minico.
Eccheccazzo!
Rino Porrovecchio
 

1 commento:

  1. Rì, dal punto di vista narrativo è lineare, scarno ed essenziale. E' il tema a colpire qui, anzi che altro. Mi piace perchè è secco, senza fronzoli, ma ha il retrogusto amaro e spietato a mò di Homo homini lupus.
    Mi è piaciuto proprio per questo

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