"Minico" di Rino Porrovecchio
Minico è un ragazzo di venticinque anni.
Ha perso il padre da un paio d'anni, per cancro.
Lui e sua mamma vivono con una misera pensione, in una casetta mal ridotta di Sferracavallo.
Lo conobbi ad una mostra fotografica.
Minico era il fidanzato di una mia amica fotografa.
Tarchiato,
occhioni scuri e capelli neri come la pece, Minico, in quella
occasione, rimase colpito da alcuni miei commenti alle foto in
esposizione che tentavano maldestramente di cogliere differenze e
similitudini tra la Palermo e la Berlino di strada.
Un tema interessante ma mal sviluppato con immagini peraltro anche tecnicamente di scarsa qualità e di poco effetto.
La
mostra, in un palazzo storico di Palermo, era del resto finanziata da
una banca, e l'artista fotografo era verosimilmente un "amico degli
amici".
Pubblicazioni, buffet, locali ed organizzazione hanno un costo che ormai solo gli amici della casta possono permettersi.
Tanti
gli ospiti illustri e meno illustri, tutti rigorosamente con giacca,
cravatta e panza, s'aggiravano più intorno al cibo che all'arte o a
quella che volevano spacciarci per arte.
Ad un certo punto Minico mi
chiese, un po' imbarazzato, se m'andava di fumare una sigaretta e ci
avviammo dunque nella corte interna del bellissimo palazzo fresco fresco
di restauro.
Fù in quella occasione che cominciammo a conoscerci un po' meglio e che nacque la nostra amicizia.
Cominciammo ad uscire insieme più volte, sia da soli che con Annarosa, la mia amica fotografa e sua fidanzata.
Andavo a prenderlo a casa con l'auto e poi lo riaccompagnavo al ritorno.
Minico era infatti a piedi, senza auto ma anche senza neppure un misero motorino.
In una di queste occasioni mi chiese di salire, per presentarmi a sua madre.
Mi sentii stringere il cuore quando scoprii la precarietà dell'alloggio nel quale vivevano.
Mi sentii un verme, profondamente imbarazzato.
Provai come un po' di vergogna nel confrontare la mia situazione e locazione con le sue.
Non sono ricco, anzi. Ho però un impiego regolare ed una casa di cui pago il mutuo ma che casa lo è per davvero.
Quella
di Minico e sua madre era invece una casa umida e vecchia,
precariamente arredata e, in alcune stanze, con delle crepature tanto
profonde nel muro da far passare la luce dell'esterno.
Minico aveva
da tempo cominciato a spacciare (erba) e, del resto, non era riuscito a
trovare altro da fare per arrangiarsi in un contesto dove la parola
"lavoro" diveniva sempre più una chimera irraggiungibile piuttosto che
qualcosa di concreto col quale vivere onestamente.
Un giorno mi telefonò, chiedendomi di passare a prenderlo.
Aveva bisogno di parlarmi ed anche con una certa urgenza.
Lasciai il lavoro e corsi da lui.
C'incontrammo al bar Collica, in viale Strasburgo.
Ci accomodammo in un tavolinetto all'esterno e prendemmo lì un caffè.
Minico
era strano, avevamo ormai preso molta confidenza e dunque non capivo il
suo sguardo sfuggente e nuovamente pieno d'imbarazzo.
Compresi tutto
quando venimmo al dunque e quando mi disse che lo zio "Totò", il
bossetto del quartiere, lo aveva fatto chiamare per "fare una cosa".
Lo avrebbero pagato e magari poi impiegato in altre "cose da fare".
Fui preso da un misto di sconfortante impotenza ed ira rabbiosa.
Non volevo che Minico imboccasse definitivamente quella strada.
Feci dunque di tutto per dissuaderlo.
Gli dissi che doveva vivere d'un lavoro onesto e che avrei fatto di tutto per trovarglielo.
Scomodando
un amico, appena un paio di giorni dopo, riuscii a trovargli una
sistemazione come "tutto fare" in un'azienda che produceva profilati
metallici.
Minico mi accontentò e cominciò dunque finalmente il suo
primo lavoro degno di tale nome. Che poi della reale degnità di tale
lavoro diremo subito appresso.
Ero contento.
Stavo al lavoro più sereno e tranquillo sapendo che Minico era ormai lontano da ciò che avrebbe potuto rovinargli la vita.
Passò così il primo mese.
Minico
veniva utilizzato per fare fotocopie, per operare alle Poste,
consegnare plichi, rispondere al telefono, accogliere i clienti, fare le
pulizie serali negli uffici.
Lavorava dalle 8 del mattino alle 19 della sera.
Con l'ingegnere proprietario dell'azienda aveva concordato un compenso di 450 euro mensili, in nero ovviamente.
Quando
a fine mese però Minico si presentò a lui per ricevere quanto gli
spettava si sentì rispondere che al momento non gli si potevano dare che
200 euro.
"Ho solo questi in tasca, il restante te lo darò insieme a
quello del prossimo mese, abbi un po' di pazienza, son tempi tristi per
tutti questi" - gli aveva detto l'ingegnere con aria un po'
insofferente.
Minico ci restò male ma continuò a lavorare anche il
mese successivo e quello ancora dopo, con acconti minimi offertigli con
sempre maggiore insofferenza.
Un giorno Minico torna a chiamarmi mentre sono al lavoro.
"Gli
ho ancora una volta chiesto i miei soldi -mi disse- (l'arretrato
ammontava ormai a 900 euro) e mi ha risposto che lo stavo seccando e che
non poteva combattere con me ogni mese per il danaro".
Rimasi allibito.
Ma
come sarebbe a dire che non può combattere ogni mese con chi gli chiede
ciò che gli spetta secondo patti che lo vedono lavorare 11 ore al
giorno già da 3 mesi?
Ma come si fa a pensare e pretendere che la
gente lavori gratis o accontentandosi, al massimo, di pochi spiccioli
dati quasi come fosse un'elemosina?
"Rino, -aggiunse Minico- io non
ce la faccio più, sono senza una sigaretta, questa mattina non ho preso
neppure il caffè, sto qui a lavorare onestamente, come mi avevi chiesto
tu, ma probabilmente non potrò neppure comprare il panino a pranzo, che
devo fare? Io non ci resisto così".
A quelle parole venni preso
dall'ira funesta di Achille: "Stasera vengo a prenderti io, tu stai
tranquillo per adesso e fa' il tuo lavoro come sempre".
Non riuscii più a lavorare tranquillamente, cercavo una soluzione che però non riuscivo a trovare.
Ad
un certo punto decisi che l'unica cosa da fare era usare gli stessi
metodi dell'ingegnere "suca-sangue": sfruttare le sue debolezze e
ripagarlo come meritava.
Alle 17 uscii dall'ufficio e mi recai subito a prendere Minico.
Parcheggiai l’auto e salii sopra. Ad aprirmi fù proprio Minico.
Tutti
gli altri dipendenti erano nelle loro stanze. Diedi un'occhiata veloce
agli ambienti e poi dissi a Minico: “Buttati a terra e lamentata a gran
voce un dolore al ginocchio”.
Minico si fidava di me e fece quanto richiestogli senza chiedermi altro.
A quel punto, mentre Minico per terra urlava di finto dolore, presi in mano il cellulare e feci per chiamare il 118.
Come
le api infastidite da qualcuno che gli strattona l'alveare escono tutte
insieme dalle celle del favo ronzando, così i dipendenti e l'ingegnere
stesso uscirono dalle loro stanze.
"Che succede? E chi è lei?" - dissero tutti in coro come fossero all'Antoniano.
"Sono
il cugino di Minico, faccio il giornalista -dissi- son quello che da 3
mesi lo viene a prendere e lasciare al lavoro qui. Ero appena salito
quando Minico è scivolato sbattendo violentemente il ginocchio tra le
scrivanie della saletta. E' un infortunio sul lavoro e sto dunque
chiamando l'ambulanza".
Panico. Nei loro volti, specie in quello dell'ingegnere, si affacciò il panico più assoluto.
"Oltre
all'ambulanza – proseguii- adesso chiamiamo anche i Carabinieri e
cercheremo di capire quanti altri lavorano in nero qua dentro ed a
quanti altri viene anche negata la retribuzione che gli spetta per il
lavoro che qui prestano per 11 ore al giorno da mesi e mesi".
A quelle parole l'ingegnere mi avvicinò molto dimessamente chiedendomi se fosse possibile parlarne nel suo ufficio.
Accettai.
E dopo avergli evidenziato la gravità del suo comportamento ottenni
l'immediata retribuzione di tutto l'arretrato ed un contratto Co.Co.Co
per Minico.
Eccheccazzo!
Rì, dal punto di vista narrativo è lineare, scarno ed essenziale. E' il tema a colpire qui, anzi che altro. Mi piace perchè è secco, senza fronzoli, ma ha il retrogusto amaro e spietato a mò di Homo homini lupus.
RispondiEliminaMi è piaciuto proprio per questo