mercoledì 3 luglio 2013

La strada, o la psicopatologia del semaforo

Dicono che siamo intelligenti. È vero. Il problema è che vogliamo esserlo a tempo pieno. Voi stranieri restate
sconcertati dalle trovate a raffica, dalle girandole di fantasia, dalle esplosioni alternate di percettività e pignoleria: insomma, dai fuochi d'artificio che partono dalla testa di noi italiani. Un inglese, invece, può essere stupito ogni ora, un americano ogni mezz'ora, un francese ogni quarto d'ora. Non ogni tre minuti: altrimenti si spaventa.
Ecco perché, in Italia, le norme non vengono rispettate come in altri paesi: accettando una regola generale, ci sembra di far torto alla nostra intelligenza. Obbedire è banale, noi vogliamo ragionarci sopra. Vogliamo decidere se quella norma si applica al nostro caso particolare. Lì, in quel momento.
Guardate questo semaforo rosso. Sembra uguale a qualsiasi semaforo del mondo: in effetti, è un'invenzione italiana. Non è un ordine, come credono gli ingenui; e neppure un consiglio, come dicono i superficiali. È invece lo spunto per un ragionamento. Non si tratta quasi mai di una discussione sciocca. Inutile, magari. Sciocca, no.
Molti di noi guardano il semaforo, e il cervello non sente un'inibizione (Rosso! Stop. Non si passa). Sente, invece, uno stimolo. Bene: che tipo di rosso sarà? Un rosso pedonale? Ma sono le sette del mattino, pedoni a quest'ora non ce ne sono.
Quel rosso, quindi, è un rosso discutibile, un rosso-nonproprio-rosso: perciò, passiamo. Oppure è un rosso che regola un incrocio? Ma di che incrocio si tratta? Qui si vede bene chi arriva, e non arriva nessuno. Quindi il rosso è un quasi-rosso, un rosso relativo. Cosa facciamo? Ci pensiamo un po': poi passiamo.
E se invece fosse un rosso che regola un incrocio pericoloso (strade che s'intersecano, alta velocità, impossibile vedere chi arriva)? Che domanda: ci fermiamo, e aspettiamo il verde. A Firenze - ci andremo - esiste l'espressione «rosso pieno». «Rosso» è una formula burocratica. «Pieno» è il contributo personale.
Notate come le decisioni non siano avventate. Sono invece frutto di un processo logico che, quasi sempre, si rivela corretto (quand'è sbagliato, arriva l'ambulanza).
Questo è l'atteggiamento di fronte a qualsiasi norma: stradale, legale, fiscale, morale. Se si tratta di opportunismo, non nasce dall'egoismo, ma dall'orgoglio. Lo scultore Benvenuto Cellini, cinque secoli fa, si considerava «al di là della legge in quanto artista». La maggioranza di noi non arriva a questo punto, ma si attribuisce il diritto all'interpretazione autentica. Non accetta l'idea che un divieto sia un divieto, e un semaforo rosso sia un semaforo rosso. Pensa, invece: parliamone.

Nelle strade del mondo, davanti alle strisce pedonali, le automobili, in genere, si fermano. Dove non accade è perché non hanno le strisce, o non hanno le strade. In Italia siamo speciali. Abbiamo strade (piene) e strisce (sbiadite); ma le automobili raramente si fermano. Anticipano, posticipano, rallentano, aggirano. Passano dietro, schizzano davanti. Il pedone si sente un torero, ma i tori almeno si possono infilzare.
Qualche volta, tuttavia, una santa, un matto o un forestiero si fermano. Osservate cosa accade. I conducenti che seguono frenano, mostrando di essere irritati: hanno rischiato il tamponamento, e per cosa? Per un pedone, che in fondo poteva aspettare che la strada fosse libera. Il pedone, dal canto suo, assume una patetica aria di riconoscenza. Ha dimenticato che sta esercitando un diritto. Vede solo la concessione, il privilegio insolito, il trattamento personalizzato: attraversa, e ringrazia.
Se avesse il cappello lo toglierebbe, inchinandosi come un contadino del Boccaccio.
Un giornalista americano scriveva una trentina d'anni fa: «Non è chic essere un pedone in Italia. È di cattivo gusto». Se è cambiato qualcosa, è cambiato in peggio. Nella brutale gerarchia della strada, tra le auto e i pedoni si sono inseriti i motorini (le biciclette no: quelle sono compagne di sventura).
Certo, rispetto ad allora, le auto frenano meglio. Ma scoprire il buon funzionamento di un sistema Abs a due metri dalle caviglie non è una consolazione. A meno che non siate di quelli che arrivano in Italia e trovano tutto pittoresco. In questo caso meritereste tutto quello che vi dovesse succedere. E in una strada italiana, non so se l'avete capito, può succedervi di tutto.

Se gli esseri umani si esprimono attraverso le corde vocali, la lingua, gli occhi e le mani - sostiene lo scrittore John Updike - le auto usano clacson e fari. Un suono breve significa «Salve!». Un suono lungo «Ti odio!». Lampeggiare coi fari vuol dire «Passa tu».
Che dire? Updike ha scritto romanzi magistrali, ma la sua semantica automobilistica è elementare. Guardatevi intorno. In Italia le macchine non soltanto parlano: commentano, insultano, insorgono, insinuano, tengono corsi universitari.
Sussurrano, gridano, protestano, chiedono, piangono, esprimono ogni sfumatura dell'animo umano. E noi le capiamo.
Con il clacson componiamo sinfonie. Lo usiamo meno di un tempo, ma resta uno strumento espressivo, allusivo, occasionalmente offensivo. Un suono secco indica «Ehi, quel parcheggio l'ho visto prima io!», oppure «Sveglia! Il semaforo è diventato verde!». Un altro suono, lungo e desolato, domanda «Di chi è quella macchina di fronte al mio portone?». Un breve suono intermittente indica «Sono qui!» al figlio che esce da scuola. Alcuni taxisti, con il clacson, riescono a esprimere perfino dispiacere e solidarietà. Non è disturbo della quiete pubblica. È una forma di virtuosismo superfluo: non l'unica, in Italia.
E il lampeggio? Non vuol dire «Passa tu»; vuol dire, invece, «Passo io» (lo straniero che ignora questo linguaggio, lo fa a suo rischio e pericolo). Sulle autostrade, in corsia di sorpasso, significa «Fammi passare». Quando appare immotivato, serve a segnalare la presenza di una pattuglia della polizia stradale. È uno dei rari casi in cui noi italiani - felici di gabbare l'autorità costituita - ci coalizziamo, manifestando solidarietà con gli sconosciuti. È un caso di civismo incivile.
Qualcuno dovrebbe studiarlo.

Osservate il traffico, simpaticamente isterico, e ammirate il distacco filosofico della polizia municipale. A Milano, nella zona chiusa alle auto, circolano milanesi autorizzati, lombardi arrabbiati, italiani confusi, svizzeri furbi o smarriti. Guardate le processioni di macchine ferme in seconda fila: ne basta una per trasformare un viale in un vicolo. Perché vigili e vigilesse non intervengono? Perché sono tolleranti. Hanno concluso di non
poter multare l'intero genere umano.
Neppure loro giudicano in base a regole generali.
Discutono le scelte personali dell'automobilista, mostrando un'elasticità ignota alle forze di polizia di altri paesi. Ascoltate uno di questi dialoghi. Sono mini-processi per direttissima, con tanto di pubblico ministero (il vigile), testimoni (l'altro vigile, il passante), avvocati (la moglie), attenuanti generiche («Abito qui di fronte», «Stavo andando in farmacia»); seguono sentenza e motivazione. È una strana giustizia ambulante e a differenza dell'altra - nove milioni di processi in attesa di sentenza, otto reati su dieci impuniti - funziona.
Ma la tolleranza è come il vino: un po' fa bene, troppo fa male. Ricordate le auto lanciate come bolidi sulla corsia di sorpasso? Se parlaste con i conducenti, scoprireste che in Italia il limite di velocità sulle autostrade - centotrenta chilometri l'ora - non è un numero, ma l'occasione per un dibattito.
Sembra impossibile che il troglodita che piomba sulle altre auto, lampeggiando come un ossesso, sia in grado di giustificarsi. Invece lo fa, spaziando dall'antropologia alla psicologia, ricordando i principi della cinetica e quelli del diritto, invocando interpretazioni favorevoli e margini di errore, affidandosi alla discrezionalità e alla clemenza dell'autorità. Per come guida, sarebbe da arrestare. Per come discute, merita una cattedra universitaria. Il poliziotto che l'ascolta pensa: forse è il caso di essere tolleranti. Salvando lui, e condannando tutti noi.

Beppe Servergnini (La testa degli italiani - 2006 - Rizzoli)

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