Non vorrei che il grillismo si arenasse in un confuso e inconcludente dibattito sulla antipolitica. Nel caso di Beppe Grillo, anti sta solo per dire «basta» con questi politici, con questi partiti e con questa politica. E, se così, il grillismo non ha sottintesi o implicazioni antidemocratiche.
Io non temo ritorni al fascismo né al comunismo (storico) perché entrambi questi regimi hanno perduto, in Occidente, il loro principio di legittimità. Oggi nemmeno Chávez, il più avanzato demagogo dell’America Latina, osa dire che «lo Stato sono io». Oggi la legittimazione del potere (a meno che non sia teocratica) deve essere democratica, deve essere «in nome del popolo». Però e invece temo «la democrazia che uccide la democrazia, la democrazia che si suicida».
Un timore che ci impone di rivisitare la trinità democrazia- populismo-demagogia. Si tratta di una trinità perché queste nozioni hanno la stessa testa: la parola demosin greco, populus in latino, e popolo in italiano. Ma questo fatto non le rende sinonimi.
Demagogia è l’arte di trascinare e incantare le masse che, secondo Aristotile, porta alla oligarchia o alla tirannide. In ogni caso, il termine indica un agire e un «mobilitare» dall’alto che non ha nulla da spartire con la democrazia come potere attivato dal basso.
Il termine populismo è molto più recente e ci arriva dalla Russia, dove fu coniato alla metà dell’Ottocento per indicare una rivoluzione dei contadini (fermo restando che la parola narod sta, in russo, per popolo). Un significato che poi riemerge all’inizio del secolo scorso negli Stati Uniti. Il primo movimento fu represso, e il secondo fallì. Il che fece anche sparire la parola.
Così la teoria della democrazia continuò a usare, per indicare una degenerazione o una minaccia alla democrazia, la parola demagogia. Poi, d’un tratto, da una ventina d’anni, diventa di moda «populismo». Perché?
Non sono ancora riuscito a capirlo. Intanto offro la mia interpretazione e relativa proposta.
Concettualmente è irrilevante che il populismo sia nato «agrario». Concettualmente è importante, invece, che denoti una genuina democrazia «immediata» che nasce dal basso e che, per questo rispetto, è l’esatto contrario di demagogia. Pertanto il populismo così definito (si sa che io sono un maniaco delle definizioni) ha la forza di essere una democrazia embrionale genuina, ma al contempo la terribile debolezza di incarnare un infantilismo politico (direbbe Lenin) incapace di costruire alcunché. Le sue proposte «al positivo» sono, appunto, puerili e inconsistenti.
Da quanto sopra si ricava che Grillo è, ad oggi, un populista, non un demagogo. La demagogia, in Italia, sta al governo.
Intendiamoci: nelle democrazie di massa e contestualmente di video-potere senza un modico di demagogia nessun leader farebbe oramai molta strada. Eppure se paragoniamo Prodi e Berlusconi a Schröder e alla Merkel, o alla Thatcher e Tony Blair, o a Zapatero e predecessori in Spagna, risulta in modo lampante che solo i «nostri» antepongono la conquista del potere o l’abbarbicamento al potere a qualsiasi interesse e necessità del Paese. Come sarò pronto a dimostrare a richiesta. Qui mi interessa soltanto di portare in evidenza la caratterizzazione fortemente demagogica dei nostri malanni. Alla classica domanda «cosa avete fatto per il vostro Paese?», Berlusconi potrebbe rispondere: niente, salvo che liberarlo da Prodi. E viceversa. Cioè Prodi potrà dire: niente, salvo che liberarlo da Berlusconi.
Tante grazie.
Io non temo ritorni al fascismo né al comunismo (storico) perché entrambi questi regimi hanno perduto, in Occidente, il loro principio di legittimità. Oggi nemmeno Chávez, il più avanzato demagogo dell’America Latina, osa dire che «lo Stato sono io». Oggi la legittimazione del potere (a meno che non sia teocratica) deve essere democratica, deve essere «in nome del popolo». Però e invece temo «la democrazia che uccide la democrazia, la democrazia che si suicida».
Un timore che ci impone di rivisitare la trinità democrazia- populismo-demagogia. Si tratta di una trinità perché queste nozioni hanno la stessa testa: la parola demosin greco, populus in latino, e popolo in italiano. Ma questo fatto non le rende sinonimi.
Demagogia è l’arte di trascinare e incantare le masse che, secondo Aristotile, porta alla oligarchia o alla tirannide. In ogni caso, il termine indica un agire e un «mobilitare» dall’alto che non ha nulla da spartire con la democrazia come potere attivato dal basso.
Il termine populismo è molto più recente e ci arriva dalla Russia, dove fu coniato alla metà dell’Ottocento per indicare una rivoluzione dei contadini (fermo restando che la parola narod sta, in russo, per popolo). Un significato che poi riemerge all’inizio del secolo scorso negli Stati Uniti. Il primo movimento fu represso, e il secondo fallì. Il che fece anche sparire la parola.
Così la teoria della democrazia continuò a usare, per indicare una degenerazione o una minaccia alla democrazia, la parola demagogia. Poi, d’un tratto, da una ventina d’anni, diventa di moda «populismo». Perché?
Non sono ancora riuscito a capirlo. Intanto offro la mia interpretazione e relativa proposta.
Concettualmente è irrilevante che il populismo sia nato «agrario». Concettualmente è importante, invece, che denoti una genuina democrazia «immediata» che nasce dal basso e che, per questo rispetto, è l’esatto contrario di demagogia. Pertanto il populismo così definito (si sa che io sono un maniaco delle definizioni) ha la forza di essere una democrazia embrionale genuina, ma al contempo la terribile debolezza di incarnare un infantilismo politico (direbbe Lenin) incapace di costruire alcunché. Le sue proposte «al positivo» sono, appunto, puerili e inconsistenti.
Da quanto sopra si ricava che Grillo è, ad oggi, un populista, non un demagogo. La demagogia, in Italia, sta al governo.
Intendiamoci: nelle democrazie di massa e contestualmente di video-potere senza un modico di demagogia nessun leader farebbe oramai molta strada. Eppure se paragoniamo Prodi e Berlusconi a Schröder e alla Merkel, o alla Thatcher e Tony Blair, o a Zapatero e predecessori in Spagna, risulta in modo lampante che solo i «nostri» antepongono la conquista del potere o l’abbarbicamento al potere a qualsiasi interesse e necessità del Paese. Come sarò pronto a dimostrare a richiesta. Qui mi interessa soltanto di portare in evidenza la caratterizzazione fortemente demagogica dei nostri malanni. Alla classica domanda «cosa avete fatto per il vostro Paese?», Berlusconi potrebbe rispondere: niente, salvo che liberarlo da Prodi. E viceversa. Cioè Prodi potrà dire: niente, salvo che liberarlo da Berlusconi.
Tante grazie.
Giovanni Sartori (Corriere della Sera - 2 ottobre 2007)
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