martedì 5 novembre 2013

CARO MINISTRO, ECCO PERCHÉ DIMETTERSI È UN DOVERE (Francesco Merlo)



Caro ministro, cara Annamaria,
in Italia si dimettono gli innocenti e invece resistono, con le unghie e con i denti, i colpevoli e soprattutto i furbi. E le persone perbene come te si devono dimettere anche per non farsi sporcare dai difensori pelosi che, in questo caso, esibiscono più pelo delle scimmie quando ti assimilano a Berlusconi e al suo reato di concussione nella vicenda Ruby.
Sperimentano su di te una sofisticata variante della macchina del fango: con sapienza offensiva ti attribuiscono sui loro giornali ogni nefandezza sino ad equiparare la telefonata, che hai fatto ai dirigenti del dipartimento penitenziario a favore di Giulia Ligresti, a quell’altra telefonata, che Berlusconi fece ai funzionari della questura di Milano per sottrarre alle istituzioni la prostituta minorenne che “proteggeva” e affidarla, come nipote di Mubarak, alle discinte emissarie del suo gineceo privato: una vera porcheria di Stato.
Dunque ti attribuiscono lo stesso ripugnante reato che ha commesso lui e poi ti blindano politicamente perché, in questo gioco di specchi deformanti, riflettono lui in te, e ti difendono per ripulirlo, e ti imbrattano per difenderlo. E io sono certo, conoscendoti, che tu senti, ad ogni loro parola di difesa, il diavolo che sguazza nell’acqua santa.
Io conosco la tua sensibilità antimafia, il coraggio che hai mostrato come ministro dell’Interno, il tuo equilibro di prefetto al di sopra delle parti, ma credo che la divulgazione delle tue telefonate con la famiglia Ligresti, una famiglia di malfattori finanziari, tra i quali c’è pure un dorato latitante, abbia ormai determinato un inquinamento ambientale e abbia fatto esplodere il conflitto — si diceva un volta — tra la Corona e i sentimenti privati, tipico della gabbia-istituzione che non sopporta la lievità delle buone intenzioni, non riconosce specialità, non distingue ma livella anche nel caso dei malati, tutti i malati, senza differenze di nome, di rango, di parentele, di numeri di telefono.
So bene che in Italia a volte solo la raccomandazione, che è scorciatoia e personalizzazione, riesce a svegliare l’istituzione e anche io, come tutti, non penso che sia reato né che sia riprovevole, finché però non delegittimi l’istituzione facendosi essa stessa istituzione, finché non privatizzi lo strumento pubblico.
Giulia Ligresti, come ha testimoniato Giancarlo Caselli, è stata tirata fuori dalla sua cella perché il suo caso era in mano a magistrati attenti e perché ha dei buoni avvocati. Il tuo intervento è stato forse ininfluente. Ma senza il bisogno di ricorrere al senno di poi, devi ammettere che è assolutamente necessario che un ministro segnali i casi di disagio, come tu hai fatto per ben 109 volte, in silenzio e in solitudine, senza mai cercare il grazie dei parenti del reo, senza comunicare alla banda — allo “zio” della banda: «segnalazione fatta», cioè missione compiuta, senza privatizzare mai il tuo «sono a disposizione».
Tu sei a disposizione dell’Italia ed è giusto che tu abbia una particolare sensibilità per la condizione carceraria, che in Italia è spesso tortura, ma quelle telefonate inscrivono il tuo intervento non solo alla tua umanità, ma anche a quel grumo di rapporti e di sentimenti privati che coinvolgono, come si capisce bene dalle intercettazioni, l’affetto e il rancore, l’accusa di ingratitudine e i sensi di colpa, «io, guarda, avrei dovuto chiamarti prima, non fare complimenti, qualunque cosa io possa fare …».
E c’è anche quel loro parlare di te in modo sguaiato, come se tu dovessi a loro la tua bella carriera, come se il tuo atto fosse loro dovuto, come se tu fossi quel che sei anche grazie ai Ligresti e ai loro affari, che sono malaffari. Millantano? Inventano? Sicuramente inquinano e aggravano quel che io chiamo la tua incompatibilità ambientale.
Nessuno aveva mai sollevato il ben più piccolo sospetto su di te, nessuno stava appostato per tenderti un agguato. È stato un fulmine a ciel sereno per tutti. E qui c’è anche il sospetto odioso, ben alimentato dal cattivo umore dei Ligresti, che tuo figlio fosse lì perché era amico e che dunque questo sia anche un ordinario caso di interfamilismo: noi a tuo figlio, e tu a nostra figlia; la tua famiglia e la mia famiglia. Come fermare questi sospetti? Anche solo per aiutare il tuo Piergiorgio a chiarire il suo ruolo, e a liberarsi di quell’alone di unto che gli lascia addosso una liquidazione legittima ma spropositata, dovresti dimetterti: volevi fare del bene alla figlia loro e rischi di fare del male al figlio tuo.
E non senti, acquattato nell’ombra, il solito razzismo che insinua, già nel linguaggio, la combine familistica tra gli intrallazzatori di Paternò e la parte siciliana della tua famiglia?
Sei stata, non solo ai miei occhi, un buon ministro per l’Italia, contro i cattivi poliziotti quando era il caso, e a favore della polizia quando bisognava, mai per partito preso. Hai finalmente dato un qualche ristoro, sin dove ti è stato possibile, alla famiglia Cucchi che te lo ha riconosciuto.
Hai lavorato non solo per l’amnistia ma per ridare un po’ di umanità al sistema carcerario, inseguendo persino il progetto di un carcere modello costruito in Italia da Renzo Piano … Ecco: le tue dimissioni non sono più un problema solo tuo. Coinvolgono tutti noi italiani che crediamo ancora nella uguaglianza della legge e nella imparzialità dei servitori dello Stato, quelli di cui purtroppo si è perso lo stampo originale.
Io credo infine che solo le dimissioni ti restituiscano un futuro a testa alta e orizzonti puliti. Non puoi essere un ministro dimezzato, come un Alfano qualsiasi; né, come un secondo Monti, puoi farti logorare e imprigionare dalla peggiore politica italiana, carne da macello di Grillo, foglia di fico di Berlusconi. In Italia le dimissioni, non offerte ma date prima che ti ci costringano, nobilitano e sono eleganza. Quando avranno bisogno di te verranno di nuovo a cercarti.


 

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