In un paese normale il ministro della
Giustizia non parla con i parenti di un’amica arrestata per gravi reati,
rassicurandoli con frasi del tipo: “Qualsiasi cosa io possa fare, conta su di
me”. Né tantomeno chiama i vicedirettori del Dipartimento Amministrazione
penitenziaria per raccomandare le sorti dell’amica detenuta. Ma, se lo fa e
viene scoperto da un’intercettazione telefonica (sulle utenze dei familiari
della carcerata), si dimette un minuto dopo. E, se non lo fa, viene
dimissionato su due piedi, un istante dopo la notizia, dal suo presidente del
Consiglio.
Siccome però siamo in Italia, il premier
tace, il Quirinale pure. Come se fosse tutto normale. Una
telefonata allunga la vita, diceva un famoso spot: qui invece accorcia la
galera, o almeno ci prova. Nel paese del sovraffollamento carcerario
permanente, Anna Maria Cancellieri, prefetto della Repubblica in pensione,
dunque “donna delle istituzioni” che molti in aprile volevano addirittura capo
dello Stato, ha pensato bene di risolverlo facendo scarcerare un detenuto su 67
mila: uno a caso, una sua amica. Poi ha dichiarato bel bella ai magistrati
torinesi che la interrogavano come testimone su quelle telefonate: “Si è
trattato di un intervento umanitario assolutamente doveroso in considerazione
del rischio connesso con la detenzione. Essendo io una buona amica della Fragni
(Gabriella Fragni, compagna di Salvatore Ligresti, padre dell’arrestata Giulia,
ndr) da parecchi anni, ho ritenuto, in concomitanza degli arresti, di farle una
telefonata di solidarietà sotto l’aspetto umano”.
E ha raccontato una bugia sotto
giuramento, perché il suo non è stato solo “un intervento umanitario”,
tantomeno “doveroso”, né una “telefonata di solidarietà”. È
stata un’interferenza bella e buona nel normale iter della detenzione
dell’amica di famiglia. Anche perché, dopo quella telefonata, ne sono seguite
altre ai vicedirettori del Dap, Francesco Cascini e Luigi Pagano. Che, a quanto
ci risulta, hanno – essi sì, doverosamente – respinto le pressioni, spiegando
all’incauta Guardasigilli che la detenzione di un arrestato compete in
esclusiva ai giudici, non ai politici. Anche su questo punto la Cancellieri ha
raccontato una bugia ai pm: “Ho sensibilizzato i due vicecapi del Dap perché
facessero quanto di loro stretta competenza per la tutela della salute dei
carcerati”. Salvo poi dover ammettere che li aveva sensibilizzati su un unico
carcerato: l’amica Giulia.
La figlia di don Salvatore Ligresti
soffriva di anoressia e rifiutava il cibo in cella, ma non è la sola malata fra
i 67 mila ospiti delle patrie galere. Per questi casi esistono le leggi e i
regolamenti, oltre al personale penitenziario specializzato che di solito,
nonostante l’eterna emergenza, segue con professionalità le situazioni a
rischio. Così come effettivamente stava avvenendo, anche da parte dei
magistrati torinesi. Senza bisogno delle raccomandazioni del ministro. La
Procura aveva subito disposto un accertamento medico e in seguito aveva dato
parere favorevole alla scarcerazione, respinta però in un primo tempo dal gip,
che aveva scarcerato la donna soltanto dopo il patteggiamento.
L’iter giudiziario, dunque, non è stato
influenzato dalle pressioni della ministra: ma non perché la ministra non le
abbia tentate, bensì perché i vicecapi del Dap le hanno stoppate.
Eppure la Cancellieri avrebbe dovuto astenersi anche dal pronunciare il nome
“Ligresti”, specie dopo la retata che portò in carcere l’intera dinastia, visti
i rapporti non solo familiari, ma anche d’affari che suo figlio Piergiorgio
Peluso intrattiene con don Salvatore e il suo gruppo decotto. Peluso è stato
prima responsabile del Corporate & Investment banking di Unicredit,
trattando l’esposizione debitoria del gruppo Ligresti verso la banca; poi
divenne direttore generale di Fondiaria Sai (gruppo Ligresti) dal 2011 al 2012;
e quando passò a Telecom, dopo un solo anno di lavoro, incassò da Ligresti una
buonuscita di 3,6 milioni di euro.
Un conflitto d’interessi bifamiliare che
avrebbe dovuto sconsigliare al ministro di occuparsi della Dynasty
siculo-milanese. Non è stato così, e ora la ministra
(della Giustizia!) deve pagare per le conseguenze dei suoi atti. Se restasse al
suo posto, confermerebbe ancora una volta il principio malato della giustizia
ad personam per i ricchi e i potenti, già purtroppo consolidato da vent’anni di
casi Berlusconi, e anche dallo scandalo Mancino-Napolitano. Ma a quel punto
tutti e 67 mila i detenuti potrebbero a buon diritto farla chiamare da un
parente qualunque perché s’interessi dei loro 67 mila casi personali: 67 mila
“conta su di me”. Se una telefonata accorcia la galera, che almeno valga per
tutti.
Marco Travaglio (Jack's Blog - Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2013)
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