giovedì 2 gennaio 2014

Il discorso di Napolitano visto da “Il Fatto”: COLLE 22 (Marco Travaglio)

Metteva tristezza, molta tristezza, l’ottavo monito di Capodanno del Presidente Monarca. Triste il tentativo disperato di recuperare uno straccio di rapporto con la gente comune dopo il crollo di popolarità nei sondaggi (dall’84% di due anni fa al 47-49 di oggi) inaugurando la rubrica “La posta del cuore”: Sua Maestà ha declamato alcune lettere di sudditi in difficoltà per la crisi, omettendo quelle critiche e senza rispondere a nessuna. Triste l’evocazione del dramma degli esodati e il silenzio su chi li ha condannati alla miseria: il governo Monti e la ministra Fornero, creati in laboratorio da lui stesso. Triste l’appello al cambiamento e al rinnovamento della classe politica lanciato da un veterano della Casta entrato in Parlamento nel lontano 1953 per non uscirne mai più. Triste l’encomio al governo Letta jr. per le “misure recenti all’esame del Parlamento in materia di province e di finanziamento pubblico dei partiti”, due maquillage gattopardeschi che non faranno risparmiare un solo euro alla collettività. Triste il successivo atteggiarsi ad arbitro imparziale: “Non tocca a me esprimere giudizi di merito sulle scelte compiute dall’attuale governo… il solo giudice è il Parlamento”, come se non avesse appena elogiato due scelte compiute dall’attuale governo. Triste la citazione con nomi e cognomi dei due marò imputati in India per aver accoppato due innocenti pescatori indiani e spacciati per eroi nazionali martirizzati per la guerra alla pirateria; e, al contempo, il silenzio sul pm Nino Di Matteo condannato a morte da Totò Riina e sui suoi colleghi palermitani minacciati dalla mafia. Tristemente beffardo l’accenno alla Terra dei Fuochi come un “disastro” contro l’“ambiente”, senza una sola parola sulle 150 mila cartoline con le foto dei bambini morti di cancro per un crimine perpetrato dalla camorra e insabbiato per quasi vent’anni dallo Stato, fin da quando lui, Napolitano, era ministro dell’Interno. Tristemente imbarazzante l’autoelogio per lo scrupoloso rispetto delle prerogative presidenziali: “Nessuno può credere alla ridicola storia delle mie pretese di strapotere personale”. Lo dice lui, dunque c’è da credergli: come all’oste che assicura che il vino è buono. 
Triste l’excusatio non petita (accusatio manifesta) per la rielezione, sempre smentita e poi accettata dopo ben un quarto d’ora di tormento interiore: “Tutti sanno (a tutti è stato raccontato, ndr) – anche se qualcuno finge di non ricordare – che il 20 aprile, di fronte alla pressione esercitata su di me da diverse e opposte forze politiche perché dessi la mia disponibilità a una rielezione a Presidente, sentii di non potermi sottrarre a un’ulteriore assunzione di responsabilità verso la Nazione in un momento di allarmante paralisi istituzionale”. Peccato che il 20 aprile, dopo la quarta votazione a vuoto per il nuovo presidente, non ci fosse alcuna “paralisi istituzionale”: ben quattro presidenti non furono eletti nei primi quattro scrutini (Saragat passò al 21°, Leone al 23°; Pertini e Scalfaro al 16°), altri quattro passarono al quarto (Einaudi, Gronchi, Segni e Napolitano) e solo tre al primo colpo (De Nicola, Cossiga e Ciampi). E peccato che nessuno abbia ancora spiegato come fu che il mattino del 20 aprile, nel giro di due ore, Bersani, Berlusconi e Gianni Letta, Maroni, Monti e 17 governatori regionali su 20 abbiano avuto tutti insieme la stessa idea di salire in pellegrinaggio al Colle, sincronizzati disciplinatamente, per chiedergli di restare: furono colti tutti e 22 contemporaneamente da un attacco di telepatia o qualcuno suggerì loro quella scelta e dettò loro i tempi delle visite scaglionate? Triste, infine, la conferma del suo “mandato a tempo” e “a condizione”, espressamente vietato dalla Costituzione. Che, all’articolo 85, recita: “Il presidente della Repubblica è eletto per sette anni”. Non per la durata che decide lui, né tantomeno alle condizioni che impone lui. 
Alla base di quella norma costituzionale tanto secca quanto perentoria c’è un motivo molto semplice: le istituzioni e i cittadini devono sapere quando scade il presidente e viene eletto il successore, affinché le elezioni presidenziali non condizionino permanentemente la normale vita democratica. Ma Napolitano se ne frega e conferma: “Resterò Presidente fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni me lo farà ritenere necessario e possibile… e dunque di certo solo per un tempo non lungo”. Cioè soltanto finché durerà il presunto stato di necessità, che però non dipende da fattori oggettivi e da tutti verificabili, ma esclusivamente dal suo insindacabile capriccio. Se ne andrà quando non sarà più necessario, ma il necessario lo decide lui. Dal Comma 22 al Colle 22. Così ogni giorno, ogni minuto, il Parlamento rimarrà ricattato da questa spada di Damocle, e ogni volta che deciderà qualcosa su qualunque materia, dalla legge elettorale in giù, ogni parlamentare si domanderà se stia facendo il meglio non per gli elettori, ma per il capo dello Stato. Che sarà dunque il padrone assoluto del Parlamento, e quindi del governo: perché ha annunciato che si dimetterà certamente prima del 2020, ma non ha precisato quando. Insomma resterà una mina vagante in grado di condizionare governi, maggioranze e opposizioni, ma anche l’elezione del successore (che, se Napolitano se ne andrà prima delle prossime elezioni, rispecchierà verosimilmente l’attuale asse Pd-Udc-Sc-Ncd; se invece sloggerà dopo, ne rifletterà un’altra ancora tutta da immaginare). E meno male che dice di conoscere bene “i limiti dei miei poteri e delle mie possibilità”: deve averglieli spiegati, in sogno, il Re Sole.


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