Ferruccio Sansa (Il Fatto,
7/4), che leggo sempre volentieri perché ogni tanto scantona dai temi
della legalità e della politica che sono propri del nostro giornale,
avendo letto, a Londra, su una grande lavagna la frase «Prima di morire
vorrei...», riflette sulla vecchiaia, la morte, il tempo.
Nella
mitologia greca Cronos, il padre degli dei, mangia i suoi figli. Cosa
vuol dire questa metafora? Che il Tempo ci divora. E' il padrone
ineluttabile delle nostre esistenze. («Vola il tempo, vola e va, ma
forse più del tempo, che non ha età, siamo noi che ce ne andiamo»- De
Andrè). Per rimuovere questo pensiero riempiamo la nostra vita di ogni
sorta di cose, di azioni e di sentimenti (i quali, nella mia ottica, non
sono che delle, non innocue, malattie psicosomatiche). Cerchiamo in
tutti i modi di 'ammazzare il tempo'. Purtroppo è il Tempo che ammazza
noi.
«Caro
agli Dei è chi muore giovane» scrive Menadro. Quando ero ragazzo
pensavo che fosse solo una bella battuta d'autore. Credo invece che
contenga una cruda verità. La morte di Ayrton Senna, trentenne -quando,
dopo vari preavvertimenti, si infila il casco, come il cavaliere
medioevale si cala la celata, sapendo che va a morire, ma il suo
orgoglio di campione non gli concede scelta- non è tragica, è epica, è
una morte nella pienezza della salute, nello splendore della giovinezza.
E' una morte in bellezza. La morte biologica, quella in genere del
vecchio, con un corpo che si sta disfaccendo, ci fa orrore.
Ma
forse ad essere baciati in fronte dagli Dei sono solo coloro che non
sono mai nati. Perché una volta che ci sei entrato, nella vita, non hai
più scampo. Non puoi evitare il torturante confronto col Tempo. E finché
ci sei te la devi giocare questa partita.
Credo
di aver fatto il giornalista nell'illusione di contrastare il Tempo, di
allungarlo, di dilatarlo vivendo più vite coll'immergermi in quelle
altrui. E ho distillato la mia con la studiata lentezza con cui si
spillano le carte da poker, cercando di assaporarne ogni istante. E se
ho sempre amato la notte è perché ha la qualità del tempo sospeso. Ma,
naturalmente, non c'è stato niente da fare. Non si può contrastare il
Tempo. Anzi più ti opponi più vola. E la sua velocità è inversamente
proporzionale all'età. Quanti secoli ci abbiamo messo per uscire
dall'infanzia? La giovinezza, pur essendo cronologicamente e quindi
oggettivamente assai più lunga, passa molto più in fretta. Dopo i
quaranta il tempo comincia a correre, passati i cinquanta precipita. E
in vecchiaia accade una cosa bizzarra e straziante. La giornata, poiché
siamo molto meno impegnati, è lunghissima, immersa in una noia mortale,
non finisce mai, ma gli anni passano uno dietro l'altro («E' di nuovo
Natale? Ma non è stato ieri?») a una velocità cosmica.
E'
l' 'atra senectus', la cupa, buia, vecchiaia come la chiamavano i
Latini più pragmatici, meno retorici e disposti a mentirsi addosso.
'Senectus ipsa est morvus', la vecchiaia è una malattia in sè dice
Terenzio e Seneca aggiunge «e per giunta insanabile» («Vecchio è bello» è
uno slogan moderno per convincerci ad essere ancora dei consumatori sia
pur deboli, cui si accoppia l'altra mostruosità, quella della medicina
tecnologica che vuole 'salvarci' a tutti i costi, ma lasciateci almeno
morire in santa pace, perdio).
Tuttavia
l'aspetto più drammatico della vecchiaia non è la decadenza fisica, ma
l'impossibilità di un progetto di vita. Esistenziale, sentimentale,
professionale (a meno che uno non se ne renda conto, siano elevati inni
all'ateriosclerosi). Manca il tempo. Manca il futuro. Manca la speranza.
«Basta che non ci debba mai mancare qualcosa da aspettare» canta il
menestrello Jannacci. Ecco, ciò che manca alla vecchiaia è proprio
«qualcosa da aspettare». Se non la morte.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 12 aprile 2014)
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