lunedì 14 aprile 2014

Dell’Utri, i giorni dell’abbandono

Fedeli alla linea che i fatti devono essere separati dalle opinioni, nel senso che non devono disturbarle, i giornaloni geneticamente modificati a immagine e somiglianza del Palazzo non dedicano una riga di commento alle conseguenze politiche della fuga del latitante Dell’Utri. Così come, verosimilmente, taceranno oggi su quelle del suo arresto a Beirut da parte dell’Interpol, e martedì su quelle della sentenza di Cassazione nel processo per mafia. Hanno fatto lo stesso l’altroieri su quelle della promozione di Berlusconi al rango di detenuto. “Non aprite quelle porte”, è la consegna.
Altrimenti bisognerebbe dare ragione, con vent’anni di ritardo, a chi l’aveva sempre detto che Forza Italia è un partito fondato da fior di delinquenti per farla franca. “Le prove, ci vogliono le prove”, ribattevano i finti tonti. Poi arrivarono le prove. “Le sentenze, aspettiamo le sentenze”, insistevano. Poi arrivarono le sentenze. “Devono essere definitive, presunzione di innocenza, garantismo”, salmodiavano. Con comodo, arrivarono anche le sentenze definitive. Previti fu condannato in Cassazione per due corruzioni giudiziarie, finì in galera per tre giorni, poi andò ai domiciliari e ne uscì grazie all’indulto. Silenzio generale. B. fu condannato per frode fiscale e sta per essere affidato ai servizi sociali. Zitti tutti. Dell’Utri attende la condanna definitiva per mafia, che lui dà per scontata (e per la precisione l’ha già avuta: la Cassazione ha annullato il primo verdetto d’appello solo per un periodo di 4 anni, confermandolo per oltre un ventennio) e se la svigna in Libano. Non vola una mosca. Intendiamoci: il silenzio non riguarda i dettagli, che anzi vengono sminuzzati e scandagliati nei minimi particolari proprio perché nessuno alzi gli occhi per uno sguardo d’insieme.
Il partito fondato da questi criminali matricolati è forse marginale ed emarginato, nella vita politica italiana? No, è tuttora centrale anzi indispensabile. E non solo per la riforma elettorale, che dovrebbe essere condivisa da tutti. Ma anche per il voto di scambio e persino per riformare la Costituzione repubblicana: un testo che nessun sano di mente farebbe toccare a certi figuri neppure con una canna da pesca. Invece Renzi, Boschi & C., sotto lo sguardo vigile di Re Giorgio, la stanno riscrivendo proprio con B. e con il partito fondato da Dell’Utri (il cui fratello gemello confida agli amici: “Quando Marcello parla, Silvio ubbidisce”). Eppure non si sente una voce, dal cosiddetto Parlamento e dalle presunte istituzioni, che osi obiettare: “Scusa Matteo, ma con chi stai parlando? Non sarebbe il caso di riconsiderare i compagni di viaggio, che fra l’altro hanno le mani impegnate da robuste paia di manette e potrebbero presto raggiungere Dell’Utri oltre confine? Che si fa, si organizza una Bicamerale nelle piantagioni d’oppio della valle della Bekaa, si traslocano i vertici istituzionali dal Nazareno alla foresta nera della Guinea-Bissau?”.
Dopo vent’anni trascorsi a fingere di non vedere e non capire cos’è Forza Italia, farlo ora tutto d’un colpo pare brutto. Con la consueta eleganza, Pigi Battista ci spiega sul Corriere che fra i vari problemi del centrodestra c’è “l’istinto di abbandono di Dell’Utri”. Non è meraviglioso? Se la latitanza di Bottino Craxi era “esilio”, quella di Dell’Utri è “istinto di abbandono”. Del resto Fedele Confalonieri assicura a Salvatore Merlo, l’intervistatore più boccalone del Foglio, che Vittorio Mangano non era un boss sanguinario, ma “una specie contadino capo” che accudiva “un giardino di un milione di metri quadri”. Marcello l’aveva portato su direttamente da Palermo perché “si occupava di tutto, persino delle tende del salotto”. Poi, com’è noto, divenne un manager, un pubblicitario e soprattutto un bibliofilo, molto religioso tra l’altro. Ultimamente – rivela alla Stampa il gemello Alberto – era passato al “commercio di cedri”, e dove se non in Libano? Ma la sua vera passione “è crescere i giovani, formare le coscienze delle persone”. Sono vent’anni che raccontano balle e tutti ci credono. Perché dovrebbero smettere proprio adesso? Hanno ragione loro.

Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano, 13 Aprile 2014)

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