martedì 17 giugno 2014

Trent’anni e zero sogni

«Prima ci avete dato tutto, poi ci avete privato della capacità di sognare. Come faremo ad avere anche noi dei sogni?» La domanda mi perseguita. Me la fa una donna di 30 anni. Bruna, sottile. Sta seduta nel lato sinistro della platea, visto dal palcoscenico dove mi trovo. È tra le ultime a parlare, quella sera al Teatro Argentina di Roma. Ho appena presentato il mio ultimo libro, che si definisce un manifesto generazionale per non rinunciare al futuro: rivolto, in prima istanza, ai miei coetanei. Con mia sorpresa, però, quella sera ci sono molti giovani. Questa trentenne fa un intervento che mi rimane scolpito nella memoria. Ecco cosa conservo delle sue parole: «Ho amato la stessa musica della vostra generazione, ricordo da bambina un concerto di Paul McCartney che ascoltavo stando sulle spalle di mio papà. Ho letto gli stessi autori di mia madre e di mio padre. Non è vero che ci avete tolto qualcosa, dal punto di vista materiale. Al contrario, ci avete dato tanto. Un benessere elevato. Siamo stati dei privilegiati. Dal motorino al telefonino, voi genitori non ci avete mai detto di no. Ora scopro quello che ci manca davvero: la possibilità di sognare. Con questo mercato del lavoro, con questa società bloccata, come possiamo avere anche noi dei sogni?».
Ha parlato meglio di come la riassumo io. C’era, nel suo discorso, qualcosa di più di un grande disagio materiale e sociale. C’era l’idea che la mia generazione ha «bruciato» così tanti ideali da lasciare dietro di sé una grande desolazione. Parole dure, sincere, efficaci.
Sul momento, quella sera a teatro non riesco a risponderle come vorrei. In questi casi uno della mia età dovrebbe avere il coraggio di dire: non lo so. Vorrei averle detto proprio così: scusami, la tua domanda è troppo importante, non riesco a improvvisare, devo rifletterci, lo farò finché trovo qualcosa che abbia un senso. Invece, lì per lì non ho il coraggio della verità, sono quasi le undici di sera, sono stanco, improvviso qualche banalità che ora non ricordo neppure. Ma la tua domanda, giovane donna sconosciuta, mi assilla quando le luci si spengono e da solo me ne torno in albergo. Mi angoscia l’indomani sul volo Roma - New York, non riesco a pensare ad altro.
Ora è passato un po’ di tempo. Se leggerai questo libro, ho qualcosa da dirti. Non si tratta di sogni. Quelli sono troppo personali e ognuno deve scegliersi i suoi. Ma ti vorrei offrire tre consigli. 
Il primo mi viene ripensando a me stesso più giovane di te, ventunenne. Anno 1977, l’inizio del mio lavoro da giornalista, nella stampa del Partito comunista italiano. Sono gli anni di piombo, e ricordo che il futuro ci sembrava bloccato, senza uscite. L’Italia era dilaniata da una sorta di guerra civile, non dichiarata, ma con morti e feriti veri. C’era anche una crisi economica (shock energetico, primi smantellamenti della nostra grande industria, iperinflazione, conflittualità sociale), ma la più grave era quella politico-istituzionale. Noi ventenni di allora non eravamo affatto certi di avere un futuro. Ci sentivamo ostaggi in un conflitto che altri manovravano: i terroristi da una parte, i settori deviati dell’apparato statale dall’altra. Col senno di poi, un futuro c’era, un futuro c’è sempre. Anche quando l’oscurità sembra avvolgere tutto.
Secondo consiglio. Tu parti dalla premessa che siete stati all’origine una generazione privilegiata (per il benessere in cui siete nati), e poi avete perso ogni aspettativa per effetto di questa crisi, la chiusura degli sbocchi professionali, un mercato del lavoro che sembra offrirvi solo precariato a vita. In questa fase così cupa, provate a guardarvi attorno e osservate chi sta ancora peggio di voi. Ce ne sono, e tanti. In Italia o in altre parti del mondo. Non sto dicendo che questa sia una «consolazione», anzi. Semmai è una traccia per cercare idee, ispirazione, progetti che rispondano a un disagio che non è solo vostro, e talvolta è molto più acuto del vostro.
Terzo consiglio. Noi non possiamo defraudarvi dei sogni perché strada facendo abbiamo tradito i nostri. Provate a partire proprio da qui: dai nostri fallimenti più gravi. La società italiana non è guarita dai mali più profondi: l’illegalità, la cultura mafiosa, l’egoismo dei clan, il nepotismo, il servilismo dei cortigiani. Cominciate a lavorare nel vostro ambiente più vicino per affermare un’idea forte di società civile, fondata su un patto di cittadinanza, il rispetto delle regole, della legalità. Non disdegnate le piccole cose, i gesti minuti della vita quotidiana: rispettando la coda senza fare i furbi, rilasciando (o richiedendo) la ricevuta fiscale. Poi c’è chi dedica il tempo libero a ripulire i parchi nazionali, agli anziani ammalati, o riscopre il valore della militanza politica di quartiere. Sono le riforme «dal basso», che possono cambiare il sistema di valori dominante. Sta lì il fallimento più grave della mia generazione. È un cantiere che abbiamo lasciato aperto, abbandonato, in disuso. È quel che manca all’Italia per dirsi un paese avanzato. E non lo si può circoscrivere alle sole colpe della nostra classe dirigente. Ecco: a una trentenne, da un cinquantasettenne che non ha dormito per alcune notti sulla sua domanda.
 

Federico Rampini (Banchieri - 2013 - Arnoldo Mondadori Editore)


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