Un tempo esisteva la disciplina di partito. Ma un tempo – si dirà
– esistevano i partiti, intesi come strutture compatte e solide ma pur sempre
pluralistiche al loro interno, articolate sul territorio e rappresentative di
interessi reali, che si riconoscevano in una ben definita tradizione
ideologica, guidate da leader spesso autorevoli e dal pugno di ferro ma sempre
frutto di una selezione interna e comunque mai padroni assoluti di quelle
strutture. La disciplina esisteva perché esisteva una realtà che trascendeva i
singoli, una macchina organizzativa che aveva vita e forza proprie, che non
dipendeva dalle decisioni di un singolo o dai suoi umori.
Date queste premesse, la domanda che sorge spontanea è se ci si possa
appellare al senso di lealtà politica o alla disciplina interna – come ha fatto
Renzi rivolgendosi ai dissidenti del Pd che non vogliono votare in aula la sua
riforma del Senato – in un’epoca in cui i partiti tradizionalmente intesi sono
pressoché spariti dalla scena. Se nei partiti non esiste più una comune cultura
politica di riferimento, se è tutto un tessere l’elogio del pragmatismo, del
trasversalismo sociale e del superamento delle antiche categorie di destra e
sinistra, se veniamo da anni in cui hanno prevalso il trasformismo parlamentare
e l’anarchia parlamentare (come dimostra il processo, in corso in questi
giorni, sulla compravendita dei senatori all’epoca del governo Prodi), allora
vuol dire che oggi ci si affida solo alle virtù taumaturgiche del capo.
Se ci si affida per l’elaborazione del programma e la vittoria
nelle urne solo alle virtù taumaturgiche del capo, a cosa si dovrebbe essere
leali se non appunto alla persona fisica di quest’ultimo e alla sua volontà
insindacabile?
Nella sinistra italiana d’un tempo, malata d’intellettualismo e
animata da un senso di superiorità che spesso sfociava nella supponenza, si
discuteva troppo. E questo atteggiamento, mentre nel mondo si andava affermando
la personalizzazione della politica, l’avrebbe resa sempre più debole e
inconcludente, senza per questo averle fatto perdere l’inclinazione ad una
certa superbia. In quella attuale, l’impressione è che si rischi il fenomeno
contrario: l’unanimismo forzato, l’omologazione dei giudizi e infine quella stessa
deriva carismatica e plebiscitaria che era imputata come un male da rifuggire
al berlusconismo.
Insomma, dacché anche il Pd è diventato a sua volta un partito
fortemente condizionato, sul piano dell’immagine e dei contenuti, dalla
personalità del leader – una novità per la sinistra italiana, per certi versi
persino salutare, purché non si esageri – si può comprendere il malessere di
quei parlamentari ai quali sembra che non si chieda altro che di assecondare le
scelte del vertice e di limitare il loro dissenso – se proprio non possono
farne a meno – alle interviste o ai lanci d’agenzia.
Le cose non vanno diversamente, ma sono almeno più schiette e più
facili da spiegare, sul versante berlusconiano. Se il Pd ha imboccato di
recente e non senza ambasce la strada del leaderismo, Forza Italia è un partito
nato padronale e tale destinato e restare sino alla fine. E infatti al suo
interno non si chiede lealtà o fedeltà o dedizione alla causa, che sono pur
sempre termini larvatamente politici, ma obbedienza, che è concetto tra il
paternalistico e il militaresco. Obbedienza ad un capo che vuole che ci si fidi
di lui e delle sue intuizioni senza fare troppe domande. Ma una volta quel capo
almeno vinceva e distribuiva medaglie e prebende alla truppa, oggi non si capisce
cosa abbia in testa e verso quale approdo voglia condurre le sue residue forze.
Si comprende come anche da quelle parti certe spinte ribellistiche e certi
dissensi manifesti non siano del tutto ingiustificati. L’obbedienza ad un capo
politico può spingersi sino al sacrificio di sé o, come sembra stia avvenendo
nel centrodestra, alla dissoluzione di un intero mondo politico?
Pd e Forza Italia sono ovviamente casi diversi, ma al dunque
convergenti nella inclinazione a mal tollerare chi non si uniforma o si mostra
troppo problematico: costui va politicamente neutralizzato o, se insiste, messo
alla porta senza tanti complimenti. Berlusconi è stato cristallino nell’ultima
riunione con i suoi parlamentari: chi non appoggerà il patto sulle riforme che
lui ha sottoscritto con Renzi (del quale sarebbe bello un giorno conoscere
tutte le clausole e condizioni) si deve considerare fuori da Forza Italia.
Nel Pd renziano, forse per un soprassalto di orgoglio
democraticista, non si è stati altrettanto brutali. Ma per come si pensa di
congegnare la futura legge elettorale, basata sul meccanismo delle nomine
dall’alto dei parlamentari, già si sa che fine faranno i riottosi odierni:
semplicemente non saranno ricandidati dai vertici che hanno nelle loro mani il
potere di compilare le liste.
La frustrazione del parlamentare malauguratamente in contrasto col
proprio partito, poco importa se per ragioni politiche o persino di coscienza,
è dunque doppia. Da un lato gli viene chiesto di rinunciare, nel nome di un
interesse di partito che sempre più coincide con la volontà esclusiva del
leader, alla propria residua autonomia intellettuale, avendo peraltro già perso
qualunque rispettabilità agli occhi dell’opinione pubblica e molte delle sue
antiche funzioni e prerogative, dall’altro gli viene fatta balenare la minaccia
della mancata ricandidatura nel caso non la smetta di mostrarsi polemico o non
allineato. Se, come si dice, la democrazia è dissenso, diversità d’opinioni e
spirito critico, questi poveretti (al netto di nobili ragioni di visibilità e
di bandiera di alcuni neo Catoni) che a destra e a sinistra da settimane si
stanno battendo con tutte le loro forze contro la riforma del Senato,
prendendosi rimproveri e insulti dai loro stessi vertici politici, andrebbero
protetti come si fa con gli animali in via d’estinzione.
Alessandro Campi (Jack's Blog - Il Messaggero - 17 luglio 2014)
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