Uno specchietto per le allodole, un
totem ideologico, una cosa che “non interessa nessun imprenditore e
nessun precario”. L’articolo 18 è “un falso problema”, un modo per “non
parlare dei problemi reali” concentrandosi solo sulle “fisime
ideologiche”. Quanto era combattivo Matteo Renzi quando era lontano da
Palazzo Chigi e si candidava alle primarie del Pd. Oppure quando si
preparava alla rivincita mentre Bersani cercava di vincere le elezioni.
Risentire oggi, o rileggere, quelle parole è illuminante oltre che
agghiacciante. Lo scarto tra i “due Renzi” è straordinario e descrive
egregiamente la natura del personaggio. Quello che era vero ieri oggi
diventa falso e viceversa. L’annuncio di allora viene smentito e così
via in una girandola di dichiarazioni, frasi a effetto, sortite
improntate all’effimero e al giorno per giorno. Fino a quando sarà
possibile, fino a quando potrà durare.
Era così netto nelle sue ipotesi di
“Jobs Act” – fatto tutto di tutele crescenti, vere, e di ampliamento dei
diritti – che il segretario della Fiom, Maurizio Landini, lo prendeva
sul serio e gli chiedeva, addirittura, di allargare l’articolo 18 a
tutti. Si pensi all’intervista a La Stampa rilasciata all’inizio del
2012 quando il governo Monti stava preparando la riforma dello Statuto
tramite la legge Fornero: “L’articolo 18 è un gigantesco specchietto per
le allodole” spiegava Renzi tutto serio. “Se ci interessano gli aspetti
tecnici sentiamo che hanno da dire Pietro Ichino e Stefano Boeri (in
realtà si tratta di Tito, ndr) mentre se ci interessa l’aspetto
politico, mi pare che il tema ruoti attorno a un totem ideologico”.
Ancora più forte la dichiarazione del 24 marzo di quell’anno, a margine
dell’assemblea nazionale dei giovani di Confartigianato: “L’articolo 18 è
ormai soprattutto un simbolo, non una discussione concreta per la vita
degli imprenditori. Non ho mai trovato un imprenditore che mi abbia
posto il problema dell’articolo 18 come ‘il’ problema della sua azienda.
E non ho mai trovato un ragazzo di 20 anni che mi abbia posto il tema
dell’articolo 18 come fondamentale per la sua carriera”.
La frase, identica, fu poi ripetuta a
giugno dello stesso anno, durante una puntata di Servizio Pubblico di
fronte a un attento Michele Santoro (clicca qui) .
Non si trattava di battute “dal sen fuggite”, perché Renzi, in quei
giorni, spiegava a tutti che per la crescita il governo Monti avrebbe
dovuto “snellire la burocrazia, dare tempi certi alla giustizia,
abbassare la pressione fiscale”. “È su questo che Bersani dovrebbe
incalzare molto di più il governo e che si gioca il futuro del
centrosinistra, non sull’articolo 18” affermava in una intervista al
Mattino. Il 31 marzo, alla conferenza programmatica del Pd di Firenze,
ribadiva il concetto: “L’articolo 18 è un falso problema”. “L’articolo
18 – aggiungeva – è una importante legge del 1970, ma a me interessa
dire che se vogliamo aiutare le imprese e l’occupazione di questo
territorio bisogna fare cose concrete e creare posti di lavoro”.
Dopo la riforma Fornero, Renzi decideva
di omaggiare il ruolo di Pier Luigi Bersani: “Il fatto che sia stato
reintrodotto il principio del reintegro nella riforma dell’articolo 18
segna una vittoria del Pd e del suo segretario Pier Luigi Bersani”. A
Lucia Annunziata che lo intervistava il 17 giugno 2012 diceva invece che
l’articolo 18 è “un totem, un falso problema”. Poi, lanciando
ufficialmente la sua campagna per le primarie del Pd, al Palazzo della
Gran Guardia di Verona, ripeteva queste ispirate parole: “Il problema
del diritto del lavoro non è l’articolo 18, non c’è collegamento fra
quello e la precarietà. Il nostro obiettivo è ridurre le norme sul
lavoro e semplificarle”. Anno nuovo, il 2013, stessa musica. Il 7
gennaio, durante l’inaugurazione di Pitti Immagine Uomo, si cimentava in
una citazione classica: “Sull’articolo 18 c’è la dimostrazione plastica
di guardare il dito mentre il mondo ci chiede di guardare la luna”.
Quando diventa segretario del Pd, dopo
una campagna per le primarie in cui dell’articolo 18 non dice nulla,
riunisce la direzione del suo partito per presentare il Jobs Act come
una “prospettiva per l’Italia” perché, dice di nuovo senza ridere, “con
le riforme istituzionali non si mangia”. “Se rimettiamo il paese a
discutere dell’articolo 18 facciamo la solita grande manfrina mediatica
che entusiasma gli addetti ai lavori e non riusciamo a essere credibili
innanzitutto con i nostri”. Meglio di come lo diceva lui non saprebbe
dirlo nessuno.
Salvatore Cannavò (Jack's Blog - Il Fatto Quotidiano - 27 settembre 2014)
Al di là di qualsiasi inopinabile opinione ma perché dobbiamo sindacare sull'arti. 18 ovvero sui diritti e limiti del lavoratore licenziato e non parliamo sui diritti al lavoro che manca per il 38% degli italiani..
RispondiEliminaE che ne parliamo a fare ..... mica siamo al governo ..... e comunque chi vi sta oggi dice di ascoltare tutti ma in verità va velocemente senza guardare avantri se c'è un muro .....
RispondiEliminaIntanto seminano differenze genrazionali affinchè si alimentino le lotte interne nel mondo del lavoro ...... come diceva quello: Dividi et impera!