giovedì 30 ottobre 2014

I ROTTAMATORI E I CIPPUTIANI



I manganelli della polizia sugli operai di Terni gettano una ulteriore manciata di sale su una ferita non facilmente rimarginabile — ammesso che alle parti interessi rimarginarla. Quella aperta dal duro contenzioso, verbale e dunque politico, tra il Pd di governo e i sindacati, ovvero tra la nuova configurazione (almeno in senso cronologico) della sinistra italiana e le sue radici profonde.
A partire dal colpo d’occhio, la distanza tra Leopolda e piazza romana è sembrata infinita, perfino più di quanto sia interesse della giovane classe dirigente renziana, che sulla rottura con tutti i passati, specie il proprio, punta molte delle sue carte, ma sulla sostanziale unità della sinistra, o di ciò che ne ha preso il posto, poggia molto del suo potere elettorale e parlamentare. Non poteva esserci, quello storico sabato, rappresentazione più efficace delle due antropologie politiche che, pur con cento sfumature intermedie, nei giorni successivi e in modo molto acceso ieri è come se avessero accelerato il reciproco allontanamento, prendendosi a male parole, accusandosi reciprocamente di ogni male e di ogni dolo.
Come potrebbero sopportarsi, del resto, una classe dirigente “democrat” e postideologica, che crede nella forza demiurgica del “fare” e nel dinamismo dell’impresa come sola grande leva per ribaltare la crisi (essendo lei stessa l’emblema di un’impresa politica di successo), tanto da far pensare che Jobs Act derivi da Steve Jobs; e una piazza cipputiana, orgogliosa e scontenta, tenuta insieme, va detto, soprattutto dalle conquiste passate, ma animata dall’idea che la centralità del lavoro, il suo valore, la sua dignità siano la sola vera chiave del futuro, e convinta, a ragione o a torto, che il governo Renzi quella chiave non intenda usarla?
È facile dire, nei convegni e di fronte alle telecamere, che Leopolda e piazza San Giovanni sono complementari, che non ha più senso contrapporre impresa e lavoro (piuttosto complicato spiegarlo agli operai di Terni), che la differenza, in politica, è ricchezza. Sta di fatto che la crisi, drammatizzando i conflitti, mette inevitabilmente in scena molte delle “cose vecchie” delle quali Renzi non vorrebbe più sentire parlare, e che spesso liquida come assurda zavorra: se una piazza operaia è “vecchia”, se “vecchio” è il riflesso condizionato di scioperare e magari occupare una stazione ferroviaria, è perché la vecchia abitudine di considerare il lavoro, e la vita di chi lavora, come il punching ball sul quale scaricare tutti i colpi della crisi, è pienamente in atto. È oggi che succede. Proprio oggi.
Diventa dunque complicato, perfino nella lettura renziana, retrodatare questo pezzo di sinistra al punto da consegnarlo agli archivi. Quella sinistra ce l’ha di fronte qui e ora, ce l’ha in casa qui e ora, il segretario del Pd, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, le sue forme di rappresentanza con la loro vocazione sociale («l’interesse generale» rivendicato da Camusso) e le loro pigrizie consociative e corporative. Quando Renzi dice, con la sua sbrigativa franchezza, che il governo non deve trattare le sue riforme con i sindacati, a ogni italiano di buon senso viene alla mente l’estenuante palude della “concertazione” che per decenni ha imbozzolato la vita socio-economica del Paese fino a renderlo quasi comatoso, tarpando le ali a ogni cambiamento. Ma subito dopo, ogni italiano di buon senso si domanda come mai dei tre protagonisti della (non rimpianta) concertazione, tocchi soprattutto ai sindacati finire in rotta di collisione con la dinamica navigazione renziana, non certo a Confindustria, mai come in questo periodo in buoni rapporti con il governo. Per evitare il sospetto di considerare “vecchio” il sindacato e “meno vecchio” un mondo imprenditoriale che dalla produzione ha progressivamente levato risorse e quattrini per destinarli al capitalismo finanziario; e per smentire l’accusa camussiana, per la verità un poco complottarda, di essere uomo dei “poteri forti”, eterna oscura e mitizzata presenza in un Paese dove tutto, alla prova dei fatti, è comunque debole; a Renzi non basterà tassare qualche rendita finanziaria e detassare qualche busta-paga.
Dovrà inventare, per dirla con parole sue, il gettone da mettere nello smartphone, e cioè trovare una forma decente di sopportazione, e magari di collaborazione, tra il suo esercito in camicia bianca e il mondo del lavoro salariato così com’è. Una società di soli imprenditori e di sole partite Iva non è nelle cose, il lavoro dipendente, a tempo determinato o indeterminato che sia, è ancora la forma prevalente di sussistenza (dunque di vita) della stragrande maggioranza degli italiani che lo votano, e il vero limite della Leopolda non sono i bollori thatcheriani (molto vetero) del finanziere Serra, è il sogno ingenuo di un mondo del lavoro di soli vincenti, tutto energia, ottimismo e sorrisi, una specie di Truman Show che tiene fuori dalla porta, e lontano dalle telecamere, la durezza del conflitto e l’umiliazione di tante vite a perdere.
Se questo sindacato non valesse più come interlocutore politico degno, Renzi e i suoi collaboratori hanno calcolato e/o immaginato chi e che cosa, nell’ambito dell’agognato “nuovo”, possa farne le veci? Un ribellismo frantumato e casuale? Corporazioni tignose ed egoiste? Ognuno per sé, Dio per tutti? Sindacati aziendali alla tedesca, pienamente coinvolti nella gestione, ma poi chi glielo dice a Marchionne e a Squinzi? Come capo del governo e ancora di più come segretario del maggiore partito della sinistra europea, Renzi sicuramente sa che la spaccatura astiosa di questi giorni non è liquidabile con le battute, e merita una riflessione. Fa rima con concertazione, ma non è la stessa cosa.

 

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