I
manganelli della polizia sugli operai di Terni gettano una ulteriore manciata
di sale su una ferita non facilmente rimarginabile — ammesso che alle parti
interessi rimarginarla. Quella aperta dal duro contenzioso, verbale e dunque
politico, tra il Pd di governo e i sindacati, ovvero tra la nuova
configurazione (almeno in senso cronologico) della sinistra italiana e le sue
radici profonde.
A
partire dal colpo d’occhio, la distanza tra Leopolda e piazza romana è sembrata
infinita, perfino più di quanto sia interesse della giovane classe dirigente
renziana, che sulla rottura con tutti i passati, specie il proprio, punta molte
delle sue carte, ma sulla sostanziale unità della sinistra, o di ciò che ne ha
preso il posto, poggia molto del suo potere elettorale e parlamentare. Non
poteva esserci, quello storico sabato, rappresentazione più efficace delle due
antropologie politiche che, pur con cento sfumature intermedie, nei giorni
successivi e in modo molto acceso ieri è come se avessero accelerato il
reciproco allontanamento, prendendosi a male parole, accusandosi reciprocamente
di ogni male e di ogni dolo.
Come
potrebbero sopportarsi, del resto, una classe dirigente “democrat” e
postideologica, che crede nella forza demiurgica del “fare” e nel dinamismo
dell’impresa come sola grande leva per ribaltare la crisi (essendo lei stessa l’emblema
di un’impresa politica di successo), tanto da far pensare che Jobs Act derivi
da Steve Jobs; e una piazza cipputiana, orgogliosa e scontenta, tenuta insieme,
va detto, soprattutto dalle conquiste passate, ma animata dall’idea che la
centralità del lavoro, il suo valore, la sua dignità siano la sola vera chiave
del futuro, e convinta, a ragione o a torto, che il governo Renzi quella chiave
non intenda usarla?
È
facile dire, nei convegni e di fronte alle telecamere, che Leopolda e piazza
San Giovanni sono complementari, che non ha più senso contrapporre impresa e
lavoro (piuttosto complicato spiegarlo agli operai di Terni), che la
differenza, in politica, è ricchezza. Sta di fatto che la crisi, drammatizzando
i conflitti, mette inevitabilmente in scena molte delle “cose vecchie” delle
quali Renzi non vorrebbe più sentire parlare, e che spesso liquida come assurda
zavorra: se una piazza operaia è “vecchia”, se “vecchio” è il riflesso
condizionato di scioperare e magari occupare una stazione ferroviaria, è perché
la vecchia abitudine di considerare il lavoro, e la vita di chi lavora, come il
punching ball sul quale scaricare tutti i colpi della crisi, è pienamente in
atto. È oggi che succede. Proprio oggi.
Diventa
dunque complicato, perfino nella lettura renziana, retrodatare questo pezzo di
sinistra al punto da consegnarlo agli archivi. Quella sinistra ce l’ha di
fronte qui e ora, ce l’ha in casa qui e ora, il segretario del Pd, con tutti i
suoi pregi e i suoi difetti, le sue forme di rappresentanza con la loro
vocazione sociale («l’interesse generale» rivendicato da Camusso) e le loro
pigrizie consociative e corporative. Quando Renzi dice, con la sua sbrigativa
franchezza, che il governo non deve trattare le sue riforme con i sindacati, a
ogni italiano di buon senso viene alla mente l’estenuante palude della
“concertazione” che per decenni ha imbozzolato la vita socio-economica del
Paese fino a renderlo quasi comatoso, tarpando le ali a ogni cambiamento. Ma
subito dopo, ogni italiano di buon senso si domanda come mai dei tre
protagonisti della (non rimpianta) concertazione, tocchi soprattutto ai
sindacati finire in rotta di collisione con la dinamica navigazione renziana,
non certo a Confindustria, mai come in questo periodo in buoni rapporti con il
governo. Per evitare il sospetto di considerare “vecchio” il sindacato e “meno
vecchio” un mondo imprenditoriale che dalla produzione ha progressivamente
levato risorse e quattrini per destinarli al capitalismo finanziario; e per
smentire l’accusa camussiana, per la verità un poco complottarda, di essere
uomo dei “poteri forti”, eterna oscura e mitizzata presenza in un Paese dove
tutto, alla prova dei fatti, è comunque debole; a Renzi non basterà tassare
qualche rendita finanziaria e detassare qualche busta-paga.
Dovrà
inventare, per dirla con parole sue, il gettone da mettere nello smartphone, e
cioè trovare una forma decente di sopportazione, e magari di collaborazione,
tra il suo esercito in camicia bianca e il mondo del lavoro salariato così
com’è. Una società di soli imprenditori e di sole partite Iva non è nelle cose,
il lavoro dipendente, a tempo determinato o indeterminato che sia, è ancora la
forma prevalente di sussistenza (dunque di vita) della stragrande maggioranza
degli italiani che lo votano, e il vero limite della Leopolda non sono i
bollori thatcheriani (molto vetero) del finanziere Serra, è il sogno ingenuo di
un mondo del lavoro di soli vincenti, tutto energia, ottimismo e sorrisi, una
specie di Truman Show che tiene fuori dalla porta, e lontano dalle telecamere,
la durezza del conflitto e l’umiliazione di tante vite a perdere.
Se
questo sindacato non valesse più come interlocutore politico degno, Renzi e i
suoi collaboratori hanno calcolato e/o immaginato chi e che cosa, nell’ambito
dell’agognato “nuovo”, possa farne le veci? Un ribellismo frantumato e casuale?
Corporazioni tignose ed egoiste? Ognuno per sé, Dio per tutti? Sindacati
aziendali alla tedesca, pienamente coinvolti nella gestione, ma poi chi glielo
dice a Marchionne e a Squinzi? Come capo del governo e ancora di più come
segretario del maggiore partito della sinistra europea, Renzi sicuramente sa
che la spaccatura astiosa di questi giorni non è liquidabile con le battute, e
merita una riflessione. Fa rima con concertazione, ma non è la stessa cosa.
Michele Serra (Jack's Blog - La Repubblica - 30 ottobre 2014)
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