giovedì 9 ottobre 2014

IL DECRETO ABRACADABRA DEL MAGO MATTEO

È l’ultima delle leggi abracadabra. Un grande pentolone dove galleggiano linee guida, forse buoni propositi ma anche tanti cattivi pensieri. 
Galleggiano fino a perdersi, nel continuo moto ondoso renziano che restituisce a riva pezzi di provincie abrogate ma vive, di leggi elettorali definite ma forse anche sconfessate, riforme annunciate ma mai approvate, tagli decisi ma poi revocati. La debolezza di Matteo Renzi sta nella sua forza, il punto di crisi coincide con la smisurata abilità illusionistica che correda ogni suo atto. Dà sistematicamente per certo l’incerto, trasforma il fumo in arrosto, confonde volutamente il dire con il fare.
Quando l’immaginazione al potere si spinge oltre il lecito, la tecnica illusionistica diviene totalizzante e i provvedimenti si trasformano in sacchi vuoti, misure parziali e contraddittorie, testi incompleti. Un perenne sbriciolamento di commi, di previsioni e di coperture che fa affondare nel dubbio anche il cuore più fedele, il militante più generoso.
Nel Jobs act non si capisce quale sia la misura delle nuove tutele offerte ai giovani lavoratori e quante quelle tolte ai vecchi. E quale sia il limite al licenziamento. La riforma dell’articolo 18 è dentro una bolla sospesa: sarà cambiato ma nessuno sa come. Esattamente come sono inghiottite dall’oscurità le promesse di realizzare una riforma elettorale che superi l’indecente Porcellum. Restano vivi i listini bloccati, rimane intatto il potere delle segreterie dei partiti, integro il blocco dei nominati. Però si sta lavorando all’opposto: forse le preferenze, forse un mix. Renzi è per la salvaguardia del territorio, la tutela del paesaggio, la mitigazione del cemento. Poi sforna il decreto che chiama Sblocca Italia e che invece sembra frutto di un trust di betoniere. I controlli di legalità saltati, i controllori semplicemente eliminati dalla scena. Tutto il potere al concessionario, alle ditte appaltatrici.
La potenza di Matteo Renzi si è ancora una volta esplicata in quella che appare la sua più grande qualità: la prestidigitazione. In politica è utile, e in un certo senso decisivo per dare passione alle proprie idee e gambe al proprio popolo, far apparire un buon proposito come un fatto acquisito. E ieri sia Angela Merkel che Françoise Hollande hanno salutato con favore l’approvazione del Jobs act, la legge che darà lavoro a chi ne è sprovvisto. Lui, sorridendo, ha raccolto l’apprezzamento: “Gli impegni presi si mantengono. Noi cambieremo l’Italia”. Come si sa ha già approvato la riforma costituzionale, abrogato il Senato o quasi, realizzata la spending review. Vero? Falso?
Siamo nella condizione, grazie a questa procedura illusionistica, di avere le idee confuse al punto che due mattine fa i senatori sono stati convocati per votare il Jobs act ma nel mezzo della discussione si sono accorti che il testo sul quale dibattevano era superato da uno nuovo che però non si conosceva. Sulla Stampa Mattia Feltri ha documentato nei dettagli lo stralunato confronto. “Ma di cosa stiamo parlando, presidente?”, chiedeva un senatore. E il presidente di turno, inflessibile: “Questo è il testo e andiamo avanti”.
Era un testo pro tempore, un foglio di passaggio, una scrittura cangiante. Più di un testo sembrava un pretesto per spingere i senatori a scornarsi sul nulla e dimostrare ancora una volta che palazzo Madama è meglio chiuderlo. Poi è giunta Maria Elena Boschi in un bell’azzurro elettrico e tutte le caselle sono andate in porto. Renzi è un innovatore nato e ha così definito la cornice della richiesta di fiducia orale: un voto sull’articolo 18 e tutto il resto. Anzi, scorgendo i vuoti nell’emendamento sottoposto all’approvazione, ha spinto sull’acceleratore imponendo la fiducia alla fiducia. E’ nata così la “fiduciona”. Un atto insieme patriottico e sentimentale: vuoi bene all’Italia? Allora vota sì. 
Cosicchè a Milano il premier ha potuto dimostrare ai colleghi europei che – abracadabra – tra il dire e il fare non c’è più di mezzo il mare. 

 

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