La richiesta del voto di fiducia sembra una prova
di forza ma è un segno di debolezza. Il governo chiede al Parlamento una delega
a legiferare mentre impedisce al Parlamento di precisare i contenuti di quella
stessa delega. Il potere esecutivo si impadronisce del potere legislativo per
disporne a suo piacimento, senza alcun contrappeso istituzionale. Il Senato
delega per sentito dire nelle televisioni, senza quei “principi e criteri
direttivi” prescritti dalla Costituzione. È l’anticipazione di un metodo che
diventerà normale con la revisione costituzionale in atto.
Si forzano le regole per paura di un libero
dibattito parlamentare. Il Presidente del Consiglio non è in grado di
presentare gli emendamenti che ha proposto come segretario del suo partito. In
questo modo, la legge delega sarà priva non soltanto di alcune garanzie
ampiamente condivise, ma perfino della famosa questione della cancellazione
dell’articolo 18. Se ne parla sui media, ma non risulta nei testi. D’altronde,
a quanto pare, non conta più cosa decide il Parlamento - sarà poi il governo
tra qualche mese a scrivere i veri decreti - l’importante è ora creare
l’apparenza di una grande riforma.
L’argomento è stato scelto ad arte per inscenare
una contrapposizione simbolica. Ce la potevamo risparmiare questa guerra di
religione sul diritto del lavoro. Non solo perché il Paese avrebbe bisogno di
ritrovare coesione sociale intorno a un chiaro progetto di cambiamento. Non
solo perché si dovrebbe evitare di lacerare la ferita già dolorosa della
disoccupazione che segna la vita di milioni di italiani. Ma soprattutto perché
non c’è alcun motivo pratico per ingaggiare l’ennesimo duello giuslavorista. E
il primo ad esserne convinto sembrava proprio Matteo Renzi. Solo qualche mese
fa riteneva che ridiscutere dell’articolo 18 fosse una fesseria. Si era
addirittura impegnato di fronte al popolo delle primarie ad archiviare la
questione. Come mai ha cambiato idea? Sarebbe doverosa una spiegazione.
Altrimenti potrebbe alimentare il dubbio che la guerra di religione è ingaggiata
per distrarre l’opinione pubblica, per coprire le evidenti difficoltà
dell’azione di governo, per occultare gli scarsi risultati ottenuti nella
trattativa europea.
Temo che si vada consolidando
un metodo di governo basato sulla ricerca continua di un nemico. Può servire a
creare un consenso effimero, ma non aiuta il paese a trovare una rotta;
asseconda il rancore sociale ma non coagula le passioni civili per il
cambiamento.
La furia distruttiva stavolta è indirizzata verso
un bersaglio inesistente, un altro ceffone alle mosche. L’articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori non esiste più nella legislazione italiana, è stato
cancellato da Monti due anni fa.
Si racconta ancora la bufala secondo cui
nell’Italia di oggi un’impresa non può licenziare per motivi economici e
disciplinari. Eppure, lo scorso anno ci sono stati circa 800 mila licenziamenti
individuali, il 10% portati in tribunale e solo 0.3% annullati. Infatti,Il
governo tecnico ha eliminato tutti i vincoli degli anni settanta, venendo
incontro alle pressanti richieste degli imprenditori. Il reintegro è rimasto
solo nel caso più estremo, quando cioè il magistrato constata la falsità della
“giusta causa”. Se ora si cancella questa ultima garanzia un lavoratore potrà
essere licenziato con l’accusa di aver rubato oppure con la giustificazione di
una crisi aziendale, perfino se un processo dimostrasse che si tratta di
falsità. In altre parole, per licenziare una persona diventa legittimo
dichiarare il falso in tribunale. Non è flessibilità economica, ma barbarie
giuridica che nega un principio generale del diritto: “Quod nullum est nullum
effectum producit”. Una soglia mai varcata dal ministro Fornero - o forse
dovrei dire dalla “compagna” Fornero, riconoscendo amaramente che il governo
tecnico ha certo sbagliato sugli esodati ma ha difeso i diritti dei lavoratori
meglio del governo a guida Pd.
In seguito alle nostre critiche è stato riproposto
il reintegro nei casi disciplinari fasulli, ma non per le false cause
economiche. Questo diventerà il canale privilegiato per ottenere i
licenziamenti ingiustificati. D’altronde, per svuotare un secchio d’acqua basta
un solo buco, non ne servono due.
In apparenza Renzi attacca la Camusso, ma nella
realtà contesta la Fornero. Ed è curioso che l’ex-presidente delConsiglio,
Mario Monti, presente in quest’aula come senatore a vita, non senta il bisogno
di difendere la sua legge, che pure presentò in tutti i consessi internazionali
come strumento per la crescita del Pil.
Solo in Italia può accadere che dopo due anni si
scriva un’altra legge sul lavoro, senza neppure analizzare gli effetti della
precedente. È un film già visto, da venti anni la legislazione è in continua
mutazione senza risolvere alcun problema, aumentando solo la burocrazia. Si
attacca la magistratura per la varietà di giudizi su casi similari, a volte
davvero troppo ampia, dimenticando che proprio l’eccesso di legislazione ha
impedito il consolidarsi della giurisdizione sui casi esemplari. Ciò che
allontana davvero gli investitori stranieri è proprio il susseguirsi frenetico
di nuove regole.
Se si riflette onestamente su questa anomalia
italiana appare ridicola la retorica dei conservatori che hanno bloccato le
riforme degli innovatori. È vero esattamente il contrario: sono state approvate
troppe riforme, tutte purtroppo sbagliate. E questa proposta di legge persevera
negli errori del passato:
- Si continua a far credere che abbassando
l'asticella dei diritti riprenda la crescita. L'esperienza dovrebbe averci
convinto che la svalutazione del lavoro ha contribuito pesantemente alla crisi
della produttività totale dei fattori perché ha ridotto la capacità di
innovazione.
- Si continua a contrapporre i garantiti e i non
garantiti mentre è evidente che entrambi hanno perso diritti nel ventennio,
come certifica ormai anche l'Ocse attribuendo all'Italia uno dei massimi indici
di precarizzazione. La contrapposizione è ancora più falsa in questo disegno di
legge poiché mantiene il reintegro per i lavoratori occupati e lo toglie ai
giovani neoassunti.
- Si continua nella politica dei due tempi - “ora
aumentiamo la precarizzazione, e poi verranno gli ammortizzatori sociali”. Fin
dalle leggi Treu la promessa non è mai stata mantenuta e anche stavolta il
passo indietro nei diritti è certo e immediato mentre il sussidio di
disoccupazione è incerto e insufficiente.
- Si continua a denunciare il freno del sindacato,
quando è evidente a tutti che non ha mai contato così poco nelle fabbriche. I
politici, anche della vecchia guardia, hanno sempre polemizzato con i leader
sindacali ma hanno sempre impedito l’approvazione di una legge di
rappresentanza che desse voce ai lavoratori.
- Si continua nell’illusione che basti incentivare
il tessuto produttivo attuale per creare lavoro. Ma la ripresa non avverrà
facendo le stesse cose di prima. Non suscita alcuna riflessione il fallimento
dei bonus fiscali per le assunzioni e della Garanzia giovani, né la scarsa
risposta alle offerte dei prestiti della Bce. Che altro deve succedere per
capire che ormai le norme e gli incentivi sono strumenti inutili se non si
innova la struttura produttiva?
Nel primo annuncio del Jobs Act subito dopo le
primarie tutte queste leggende sembravano abbandonate, ma ora sono tornate in
auge. La forza del passato ha preso il sopravvento, riducendo l’entusiasmo
della novità a stanca retorica. Il Grande Rottamatore porta a compimento i
programmi dei rottamati di destra e di sinistra.
Ben due generazioni hanno creduto agli annunci di
una flessibilità coniugata ai diritti e sono rimaste ferite. La promessa di
uscire dal buco nero della precarietà è troppo seria per essere delusa.
Stavolta alle parole devono seguire i fatti. Solo da questa preoccupazione
muove la mia critica.
Sento dire che il contratto a tutele crescenti
dovrebbe eliminare la sacca della precarietà. Qualcuno mi sa indicare il comma
che assicura il risultato? Purtroppo non esiste, poiché il nuovo contratto si
aggiunge ai precedenti, adottando quindi la soluzione Ichino contro quella
Boeri. Le imprese non ricorrono al tempo indeterminato se possono continuare a
gestire rapporti di lavoro meno costosi e senza futuro. Anzi, questi sono stati
ulteriormente incentivati con il decreto Poletti di luglio che ha abbassato le
garanzie dei contratti a tempo determinato e dell’apprendistato, e in questa
delega si amplia l’uso del voucher che nega perfino il rapporto tra lavoratore
e impresa.
Si è annunciata l’eliminazione del cocopro, ma è
molto difficile che da questa figura parasubodinata si approdi a un vero
contratto di lavoro. Più facile invece che si regredisca nel sommerso delle
partite Iva. D’altro canto, anche i critici di sinistra peccano di
normativismo, illudendosi che basti togliere questa o quella figura
contrattuale per migliorare la qualità del lavoro.
C’è un lavoro autonomo di seconda generazione che è
legato alla trasformazione tecnologica e produttiva del nostro tempo. È una
figura anfibia che non si può ingabbiare negli schemi tradizionali
dell’imprenditore e del lavoratore, ma va riconosciuta nella sua peculiarità e
sostenuta con strumenti non convenzionali. Dovremmo saperlo soprattutto in
Italia, avendo sotto gli occhi quei sei milioni di nuclei produttivi con meno
di tre dipendenti che ci ostiniamo a chiamare imprese per ragioni ideologiche,
mentre costituiscono una mutazione della figura del lavoratore. L’armatura
giuslavoristica di questa legge delega non riesce a contenere il fenomeno e
anzi rischia di soffocarlo.
Il carattere anfibio del lavoro terziario richiede
l’attivazione di tutele di tipo universalistico – pensionistiche, formative, di
welfare territoriale - a prescindere dalle forme contrattuali. Perfino il
sostegno al reddito deve essere legato allo status di cittadinanza e non può
essere limitato solo al passaggio da un’occupazione all’altra, come invece è
necessario e assolutamente prioritario per il lavoro dipendente.
La complessa flessibilità è quella del lavoro
autonomo, per quello subordinato sarebbe molto più facile ricondurre
l’ordinamento a poche e chiare figure contrattuali che prevedano un periodo di
prova e di formazione prima dell’assunzione definitiva e forme di impiego
temporaneo più costoso e legato a reali esigenze produttive. Questa
semplificazione è credibile solo se si attua la riforma più difficile in
Italia, cioè l’obbligo di rispettare la legge.
La gran parte della precarietà nel lavoro
subordinato si regge su una pratica di illegalità ed elusione. In questa
proposta si delega il governo a fare tutto, tranne che a organizzare un
efficiente sistema di controlli sulle condizioni di lavoro. Basterebbe
rafforzare il corpo degli ispettori del lavoro e incrociare le banche dati con
la lotta all’evasione fiscale e previdenziale, con l’obiettivo di sopprimere il
lavoro nero e aumentare la vigilanza sulla sicurezza.
Ma a dare il buon esempio dovrebbe essere prima di
tutto lo Stato. Nella stragrande maggioranza i contratti precari della pubblica
amministrazione sono illegali, perché utilizzano rapporti temporanei per
funzioni continuative e in alcuni casi di delicato interesse pubblico. La
recente promessa di assumere 150 mila insegnanti che attualmente hanno cattedre
annuali va nella giusta direzione e dovrebbe riguardare le tante figure che si
trovano in condizioni simili: ricercatori e archeologi, ingegneri e architetti,
informatici e operatori sociali. Non solo per rispettare la dignità di quei
lavoratori, ma anche perché la valorizzazione delle loro competenze
aumenterebbe la qualità delle politiche pubbliche. Anche le gare di appalto a
massimo ribasso oggi contribuiscono a diffondere l’illegalità e il precariato
selvaggio, mentre la committenza pubblica dovrebbe prendersi cura del rispetto
dei diritti del lavoro. È curioso che questa proposta di legge si occupi del
mercato privato e ignori completamente le responsabilità dello Stato come
datore di lavoro diretto e indiretto.
Tra le righe si legge una sfiducia nel futuro del
paese. Si ritiene che l’Italia non possa essere diversa da come è oggi, non sia
in grado di modificare la sua struttura economica tradizionale ormai messa
fuori gioco dalla competizione internazionale. Si pretende di risolvere il
problema eliminando i diritti e riducendo i salari, già oggi i più bassi in
Europa, magari utilizzando gli 80 euro e il Tfr per pareggiare il conto.
Sembra una scelta di buon senso ma è una via senza
uscita. I paesi emergenti saranno sempre nelle condizioni migliori di costo per
vincere la concorrenza. L’unico modo per mantenere il rango di grande paese
consiste invece nel migliorare il livello tecnologico, la specializzazione del
tessuto produttivo, l'accesso nell'economia della conoscenza. Ma ci vorrebbe
un'agenda di governo tutta diversa; bisognerebbe puntare sulla formazione
permanente per migliorare le competenze, mentre qui si promuove per legge il
demansionamento dei lavoratori; si dovrebbe puntare sulle politiche industriali
della green economy mentre il decreto sblocca-Italia rilancia la rendita
immobiliare; si dovrebbe puntare sulla ricerca scientifica e tecnologica, che
invece subirà altri tagli con la legge di stabilità; si dovrebbe puntare
sull'economia digitale non a parole ma con azioni concrete che ancora non si
vedono.
Non si è mai cominciato a cambiare verso. Finora si
sono visti i passi indietro. Con le riforme istituzionali gli elettori contano
meno di prima. Con il Job Act si intaccano le garanzie per i lavoratori. Queste
scelte non erano previste nel programma elettorale del 2013 che abbiamo
sottoscritto come parlamentari del Pd. Non siamo stati eletti per indebolire i
diritti.
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