Prima di affrontare il tema mi corre tuttavia l'obbligo di dire
alcune verità (così almeno credo che siano) su tre questioni di
bruciante attualità: il Jobs Act, la legge delega approvata dal
Parlamento ha dato luogo ai primi due decreti attuativi; la legge
elettorale che sarà tra breve trasmessa in Parlamento e la riforma della
legge di Bilancio che il governo proporrà alle Camere il prossimo
autunno.
Tre temi della massima importanza, i primi due hanno già
suscitato profonde divisioni e aperto un confronto molto serrato con le
organizzazioni sindacali dei lavoratori, mentre il terzo è finora
ignorato da giornali e pubblica opinione, ma il governo ci sta
lavorando e susciterà anch'esso nel momento in cui sarà presentato in
Parlamento, proteste altissime e profonde divisioni. *** Ho già
scritto domenica scorsa che il Jobs Act non crea alcun nuovo posto di
lavoro, semmai può distruggerne alcuni. Saranno infatti assunti altri
precari per un periodo massimo di tre anni, con salari inizialmente
assai bassi ma lentamente crescenti. Dopo tre anni gli imprenditori
decideranno se assumerli con un contratto a tempo indeterminato ma
fermo restando che non godranno — come invece ancora accade per i
vecchi assunti — dell'articolo 18. Per i nuovi assunti il 18 non esiste
più; ci sarà dunque una diversa contrattualità per lavoratori che
fanno il medesimo lavoro nella medesima azienda. La questione potrebbe
creare imbarazzi con la Corte costituzionale.
Il Jobs Act non
crea dunque alcun posto di lavoro. Potrà forse promuovere i precari in
dipendenti regolari di quell'azienda (ma senza articolo 18) concedendo
contemporaneamente un forte risparmio agli imprenditori che saranno
premiati con l'esenzione dai contributi e con la piena libertà di
licenziare i neoassunti durante i primi tre anni ma anche dopo, contro
pagamento di un indennizzo da trattare tra le parti.
Il Jobs Act
ha avuto nel corso del suo iter parlamentare sotto forma di legge
delega molteplici mutamenti, quasi tutti in maggior favore degli
imprenditori. In questi ultimi giorni sono usciti i due primi decreti
attuativi che saranno presentati alla commissione parlamentare
incaricata di fornire al governo un parere puramente consultivo, ma già
si sa che in quei decreti c'è anche un trattamento per i licenziati
collettivamente (in numero da cinque in su): anche in questo caso
indennizzi ma non reintegro deciso — come era un tempo — dal giudice del
lavoro.
Grande soddisfazione degli imprenditori ma altrettanto
grande opposizione dei sindacati che protestano, invieranno ricorsi
alla Corte di Bruxelles contestando i licenziamenti collettivi e forse
indiranno nuovi scioperi di categoria o generali. Si può ovviamente
dissentire in merito ma sta di fatto che il governo ha scelto da che
parte stare e non è una scelta accettabile quella dei forti mettendosi
sotto i piedi i deboli.
Si dice che leggi di questo tipo sono
gradite dalla Commissione europea, dalla Bce e dal Fmi. A me non pare.
Quei tre enti desiderano che l'Italia, come tutti i governi
dell'Eurozona, rispetti gli impegni presi: il "fiscal compact", una
politica tendente a ridurre il debito pubblico sia pure con qualche
concessione nei tempi e nella quantità, l'aumento della produttività e
della competitività. Con quali strumenti questi due ultimi obiettivi
debbano essere realizzati non c'è scritto da nessuna parte. Secondo me
dovrebbero essere realizzati dagli imprenditori attraverso la creazione
di nuovi prodotti e nuovi metodi di produzione e distribuzione.
Dell'articolo 18 all'Europa non interessa nulla, riguarda il governo
italiano. Produttività e competitività riguardano le aziende e chi le
guida, il costo del lavoro, i licenziamenti eventuali e quanto ne
deriva pesano esclusivamente sui lavoratori. Per un partito che si
definisce di sinistra democratica questa scelta non mi sembra molto
coerente.
***
La legge elettorale approderà in Parlamento la
prossima settimana e il primo voto dovrebbe avvenire prima del 14
gennaio, giorno in cui sembra che Napolitano lascerà il Quirinale. A me
quella legge complessivamente sembra una buona legge che contiene
nell'ultimo articolo la clausola di garanzia secondo la quale non
potrà essere applicata prima dell'autunno 2016.
La chiamano
l'Italicum e — lo ripeto — mi sembra efficace ma è aggrappata
all'abolizione del Senato, riforma che mi sembra invece pessima. Ne ho
spiegato più volte i motivi e non starò dunque a ripetermi, ma è
evidente che la legge elettorale della Camera senza più un Senato crea
un regime monocamerale che rafforza moltissimo il potere esecutivo e
attenua i poteri di controllo del potere legislativo.
Questo è
l'aspetto estremamente negativo: non l'Italicum ma il Senato relegato
ad occuparsi delle attività delle Regioni essendo i suoi membri eletti
dai rispettivi Consigli regionali. Per un governo che vuole rafforzare
i propri poteri questa riforma è l'ideale.
***
Terzo argomento
la legge di Bilancio. Attualmente ce ne sono tre: quello che fu un
consuntivo del bilancio alla fine dell'anno; quella che un tempo si
chiamò legge finanziaria e indica la politica economica e i suoi
obiettivi per l'anno futuro; la terza è il trattato europeo dal quale
deriva il "fiscal compact" applicato all'Italia da una deliberazione di
Bruxelles che ha valore costituzionale per tutti i Paesi dell'Unione.
Ricordo tra parentesi che nella Costituzione italiana esiste l'articolo
81 (che fu ispirato da Luigi Einaudi, a quell'epoca ministro del
Bilancio e ancora governatore della Banca d'Italia).
Era molto
semplice l'articolo 81: tre commi in cui la frase decisiva diceva: «Non
può esser fatta alcuna spesa senza che ne sia indicata l'entrata
corrispondente ». Ricordo che negli anni Sessanta esisteva alla Camera
un comitato di Bilancio (del quale io feci parte nella legislatura
1968'72) al quale andavano tutte le leggi di spesa per un controllo
preliminare. Il comitato aveva a disposizione tutti i dati necessari per
valutare se il dettato dell'articolo 81 fosse stato rispettato. Se il
parere era negativo il governo ritirava il disegno di legge per rifarlo
su basi completamente diverse.
Credo che quel comitato sia stato
sciolto e forse ricostituito con nuove e più elastiche mansioni. Ma la
legge di Bilancio, sia pure attenuata, esiste tuttora e discute,
approva o respinge il bilancio sempre sulla base dell'articolo 81 che
però è stato alleggerito con l'abolizione del terzo comma dal governo
Monti nel 2012.
Nel prossimo autunno quella legge sarà fusa con
l'attuale legge di stabilizzazione. Nel frattempo la parola pareggio è
stata sostituita (negli studi preparatori in corso) dalla parola
equilibrio. La legge deve cioè dimostrare per il passato e promuovere
per il futuro l'equilibrio tra le entrate e le spese. All'articolo 81
dunque diamo addio. È chiaro che l'equilibrio sarà anche valutato dal
Parlamento cioè dalla Camera ed è chiaro altrettanto che la Camera è
un'assemblea in gran parte di "nominati" dalle segreterie del partito
che vincerà le elezioni. E poiché siamo un Paese di spendaccioni, è
legittimo pensare che il debito continuerà ad aumentare come del resto
sta già avvenendo sia pure in regime di "fiscal compact". Avveniva
perfino con l'81 vigente, aggirato in vari modi; figurarci ora che sarà
completamente abolito che cosa farà la "Compagnia dei magnaccioni".
Dio ci scampi, ma temo che il Padreterno sia in tutt'altre faccende
affaccendato.
***
Ed ora la coerenza. Mi è rimasto meno spazio di
quanto pensassi ma qualcosa dirò.
Noi non siamo un Paese abitato
da persone coerenti. Parlo naturalmente di coerenza nei rapporti con
la società e quindi con la vita pubblica e le istituzioni che la
rappresentano.
Noi non amiamo lo Stato, non amiamo le Regioni
(che del resto fanno poco o nulla per meritarselo). Non amiamo i
giudici e i loro tribunali. Insomma non amiamo chi emette regole alle
quali dovremmo attenerci. Detestiamo le tasse e cerchiamo di evaderle.
Noi amiamo il "fai da te". È una libertà? Certo è una grande e
importante libertà, ma con un limite: la puoi applicare in pieno
purché non danneggi gli altri e la società che tutti ci contiene.
Le mafie prosperano in Italia perché i capi ottengono completa
obbedienza e rispetto dello statuto dell'organizzazione e ai riti di
iniziazione. Se li tradiscono li aspetta il giudizio del capo e la
punizione da lui decretata. Perciò, salvo rare eccezioni, i mafiosi
sono coerenti. I non mafiosi no. L'esercito ausiliario della mafia è
fatto da non mafiosi il cui "fai da te" ha scelto quella zona grigia
che tiene un piede dentro la scarpa mafiosa ed uno fuori. Senza di loro
la mafia conterebbe assai poco ma con loro conta moltissimo. Le mafie
sono Stati nello Stato perché lo combattono ma ci vivono dentro.
Le persone coerenti della nostra vita pubblica sono molto poche. Li
chiamiamo "padri della Patria", una buona definizione, ma quanti sono
da quando nacque lo Stato unitario? Certamente Mazzini, Garibaldi,
Cavour lo furono. In modi diversi e spesso conflittuali ma l'obiettivo
era unico.
Gran parte della Destra storica che andò al governo
dopo la morte di Cavour, e lo tenne per sedici anni costruendo lo Stato
unitario nel bene e nel male, merita quel titolo: Ricasoli, Sella,
Minghetti, Fortunato, Silvio Spaventa, Nitti e in tempi più recenti
Einaudi, De Gasperi, Parri, La Malfa, Di Vittorio, Trentin, Lama,
Adriano Olivetti, Calamandrei, Berlinguer, Raffaele Mattioli,
Menichella, Pertini, Ciampi, Napolitano.
Ma poi ci furono
scrittori e personaggi da loro creati, in Italia e in Europa, che sono
esempi di coerenza. Pensate a padre Cristoforo dei "Promessi Sposi" e
pensate a Jean Valjean dei "Miserabili" di Victor Hugo. Ed alcuni santi,
specialmente monaci, a cominciare da Francesco d'Assisi e Benedetto.
Sembrano tanti questi nomi e molti altri me ne scordo. Ma gli
incoerenti sono una massa, senza nome e senza volto ma una quantità
che esiste in ogni Paese del mondo. Qui da noi è una moltitudine, una
popolazione che vuole ignorare la sua storia e vivere il presente
ignorando passato e non riuscendo ad immaginare futuro. Se i docenti
delle nostre scuole partissero dal concetto della coerenza e lo
applicassero nel bene e nel male ai fatti accaduti, credo farebbero
un'opera santa e fornirebbero un'educazione che costituisce la base di
un Paese civile.
Eugenio Scalfari (La Repubblica, 28 dicembre 2014)
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