venerdì 20 marzo 2015

Musicisti, traduttori e altri servi della gleba


Servi del potere secondo Beppe Grillo in Italia. Membri dell'establishment di sinistra, secondo il movimento neoreazionario del Tea Party in America. A scelta, obbedienti alla censura o candidati alla galera: secondo Vladimir Putin, Xi Jinping e altri autocrati del pianeta. Non siamo popolari. Di conseguenza, ogni analisi sul problema della gratuità di Internet che parli di noi e della crisi dei giornali suscita diffidenze. Corporativisti e autoreferenziali, descriviamo la Rete come un nemico solo perché al restante 99,9% degli utenti online offre gratis il "nostro" monopolio di una volta, l'informazione. E perbacco, se proprio fossimo destinati a fare la fine dei minatori di carbone nell'Inghilterra di Margaret Thatcher, forse a suo tempo potevamo commuoverci un po' di più per la sorte dei minatori. Non è facile affrontare questo tema senza che il lettore s'insospettisca sui moventi di chi scrive.

Perciò devo parlarvi di Jaron Lanier, genio multiforme della California, nongiornalista, anticonformista, grande tecnologo... e musicista. Lanier è un protagonista della vera controcultura della Silicon Valley. A cinquantaquattro anni, è stimato tra gli scienziati informatici, ha insegnato alla Silicon Graphics e in molte università californiane. È stato uno dei pionieri della "realtà virtuale". Negli anni ottanta lavorò alla società Atari, un nome che evoca una "preistoria" dell'economia digitale e fu un incubatore di cervelli visionari. Il magazine "Time" lo ha indicato tra le cento personalità più influenti del nostro tempo. Due suoi libri sono tradotti in italiano, Tu non sei un gadget e La dignità ai tempi di Internet. Lanier ha anche una seconda vita, come musicista di formazione classica, ardito sperimentatore di musiche sia classiche sia d'avanguardia con incroci di strumenti della tradizione asiatica, compositore di colonne sonore cinematografiche.

Questa seconda attività è importante quanto la prima ai fini delle sue critiche contro la Rete 2.0. Lanier, amando la musica e i musicisti, denuncia il fatto che la Rete li sta rovinando. Da una parte c'è la religione della gratuità, con il dogma "naturale" per le generazioni più giovani: la musica si ascolta e non si paga. Fenomeno di cui ricordo bene le origini, perché partì da San Francisco con Napster, che mise la pirateria alla portata di tutti gli adolescenti. Dall'altra parte c'è Tanti-Napster, nato sulle ceneri di quella società: cioè il meganegozio digitale di iTunes, una delle trovate geniali di Steve Jobs. Con pochi comandi del mio polpastrello, sfiorando lo schermo dell'iPod o dell'iPhone, compro su iTunes qualsiasi brano musicale per la modica cifra di 99 centesimi di dollaro. Una semplicità disarmante. Di quei 99 centesimi, quanta parte va al musicista? Quasi niente. Jobs inventò iTunes per arricchire Apple, non i musicisti. Dunque, se sono un teenager, normalmente ascolto la musica senza pagare niente a nessuno; se sono un adulto ligio a costumi antichi, ascolto la musica pagando Apple o Amazon. Chi ci imane fregato è il musicista. Sempre.

Ci siamo tutti fatti sedurre dal canto delle sirene, abbiamo creduto davvero di vivere nel giardino dell'Eden, il paradiso terrestre dove ogni bendidio è alla portata di un clic, gratis? Molti giovani appassionati di musica hanno sinceramente visto nella Rete un alleato.
Non solo per scaricare brani e ascoltarli a costo zero. Ma anche per creare musica, diffonderla, arrivare direttamente al pubblico saltando l'intermediazione rapace delle case discografiche. Com'è andata? Malissimo, spiega Lanier, che quel mondo lo conosce bene. Lui è un musicista di successo, che ha sfondato. Ma i talenti che riescono a emergere sulla scena musicale usando la Rete come piattaforma sono "un numero esiguo", garantisce Lanier. Tutti gli altri: servi della gleba. Producono musica, magari di ottima qualità, che viene consumata gratis. A guadagnarci è YouTube, che piazza la sua pubblicità quando noi clicchiamo su un segmento di video o di audio.

Tutta la nuova economia digitale funziona così. Interi mestieri stanno scivolando verso la povertà cronica, sottopagati o non pagati affatto. I giornalisti vi stanno sulle scatole?
Amazon sta facendo lo stesso con gli scrittori. E Google sta saccheggiando il lavoro dei traduttori che "amalgama e aggrega" nel suo algoritmo di traduzione. Dietro quel traduttore automatico c'è tanto lavoro non pagato. Ecco il nuovo "business model". Una massa sterminata di servi della gleba genera contenuti gratis, che poi loro stessi consumano gratis nella loro veste di utente. In mezzo, il sistema è presidiato da potenti aggregatori e intermediari, che ai propri azionisti e top manager garantiscono una ricchezza smisurata.

Ogni singolo utente di Facebook è chiamato a sua volta a offrire generosamente un contenuto gratuito (informazioni su se stesso, i propri gusti, le proprie amicizie) che i proprietari di Facebook trasformano in ricchezza privata, vendendola sotto forma di pubblicità e contatti di marketing. Lo stesso fanno gli altri big della Rete: vendono tutto quello che sanno su di noi alle aziende che piazzano prodotti e servizi su iTunes e Amazon, pubblicità a pagamento su Google. Le aziende devono pagare un pedaggio esoso per ottenere dai giganti dell'economia digitale quelle stesse informazioni che noi invece abbiamo regalato senza nessun compenso.

Se fosse vero che la gratuità di Internet è un generatore di ricchezza alla portata di tutti, dove sono i posti di lavoro? Dov'è la nuova ricchezza diffusa a piene mani grazie a Google, Facebook, Amazon e Twitter? A parte i milionari della Silicon Valley e le oasi di benessere create in alcune tecnopoli come San Francisco e Seattle, gli ultimi vent'anni hanno visto un rattrappimento della middle class americana, un impoverimento dei lavoratori e del ceto medio.

Lanier attacca quello che lui chiama "cyber-totalitarismo" e che vede annidarsi anche nelle ideologie apparentemente libertarie e progressiste della Silicon Valley, come il movimento open source e Wikipedia, potenti fautori della gratuità. L'approccio open source secondo lui ha distrutto enormi opportunità per i giovani laureati di mantenersi lavorando alla creazione di contenuti, e ha spostato tutto il beneficio economico della Rete a favore dei Signori delle Nuvole ("cloud" o memoria dei server). Il ceto medio è espropriato, gli utenti sono stati convinti a regalare informazioni preziose su se stessi senza ricevere nulla in cambio, se non un accesso gratuito alla Rete... dove altri servi della gleba creano contenuti anch'essi non remunerati. Interi settori dell'economia - tutto ciò che ha a che fare con delle forme di creatività intellettuale - vengono inghiottiti nella voragine della gratuità, mentre i centri di profitto si spostano verso quelli che Lanier chiama i Siren Servers, server informatici come le sirene di Ulisse. Che sia informazione o musica, spettacolo o enciclopedia online, "l'informazione gratuita non è mai veramente gratuita, perché qualcuno ha dovuto crearla". Noi parliamo erroneamente di gratuità, mentre dovremmo riconoscere che il pagamento è stato spostato altrove, a vantaggio di altri. Una nuova oligarchia della Rete, molto meno libertaria, egualitaria e democratica di quanto voglia farci credere.

I nuovi Padroni dell'Universo sono stati all'origine di una nuova religione, con tanto di certezze assolute, condivise dalla tecno-casta sacerdotale di esperti che serve i loro interessi. Per esempio, siamo stati indottrinati sulla meraviglia di un progresso esponenziale nell'informatica. È la famosa legge di Moore (dal nome di Gordon Moore, cofondatore di Intel, che è il numero uno mondiale dei microchip), in base alla quale il numero dei transistor nei circuiti integrati raddoppia ogni due anni. La potenza di molti gadget digitali è legata a questa legge: velocità delle operazioni, capacità di memoria, sensori, pixel nelle videocamere digitali, tutto si muove di conseguenza.

Lanier sottolinea però che la legge di Moore non si applica affatto al software, e che i programmi informatici continuano a essere afflitti da difetti di progettazione, incidenti gravi, attacchi di hacker, spionaggio. Su questi i Padroni dell'Universo non vogliono essere chiamati alle loro responsabilità. Si è mai visto un tribunale americano trattare Google come tratta la General Motors?
Se un modello di automobile ha un difetto di fabbricazione, i vertici della General Motors sono chiamati a risponderne davanti alla giustizia, colpiti da multe, obbligati a versare risarcimenti. Né Google né Microsoft né Apple né altri consimili hanno mai dovuto pagare per gli episodi in cui le loro vulnerabilità hanno reso noi (i nostri dati personali, le nostre carte di credito) vittime di pirati e truffatori. E mentre eserciti di avvocati della Silicon Valley combattono una guerra senza quartiere per accaparrare brevetti industriali a favore di questo o quel colosso capitalistico, il diritto d'autore dei piccoli creativi è terreno di caccia per scorribande corsare.

Il sistema di ripartizione delle risorse che emerge nell'economia digitale è quello che si definisce "winner-takeall": il vincitore prende tutto. È un sistema che, in altri contesti, troviamo legittimo. Per esempio, l'assegnazione del premio Nobel (in qualsiasi disciplina) funziona proprio così: tutto il premio va al vincitore, non sono previsti premi minori per il secondo, terzo, quarto classificato. La regola stabilita per il Nobel può avere una giustificazione, serve da incentivo, e dà la massima visibilità al premiato di quell'anno. Ma "winner-take-all" può funzionare come criterio di organizzazione di una società, di un'economia? Questa definizione viene usata sempre più spesso, in America, per designare un capitalismo dove la ricchezza è spaventosamente concentrata in poche mani, la piccola minoranza dei vincitori si accaparra quasi tutto il miglioramento della produttività, i frutti della crescita, del progresso tecnologico.

Verso questo modello convergono due capitalismi che all'origine sembravano distanti: la finanza di Wall Street da una parte, i giganti della Rete dall'altra. Sembravano due mondi alternativi, e confesso la simpatia che mi ha sempre ispirato quello californiano: giovanile, trasgressivo, progressista quando va a votare, aperto a tutte le diversità, pioniere nell'ambientalismo e nelle lotte per i diritti dei gay. Wall Street però ha capito presto che un'alleanza era possibile, anzi inevitabile, i banchieri newyorchesi si sono innamorati dei ragazzini geniali e veloci che venivano dalla West Coast.

Istinto monopolistico, concentrazione di ricchezza, intrusione nei diritti dell'individuo: com'è lontano il giardino dell'Eden che ci era stato promesso, nei Vangeli apocrifi della mia California.
 
Federico Rampini (tratto da "Rete Padrona" - 2014 - Feltrinelli)


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