Il libro ricevuto in dono da un amico a Natale è stato selezionato
con raffinatezza, ma anche con un pizzico di preveggenza stante il ritorno in auge,
in questi giorni, del mito della città di Palmira, dopo l'offensiva lanciata dall'Isis
per la sua conquista. E, speriamo, almeno non per la sua distruzione. Palmira
era il luogo degli scambi commerciali e culturali tra l'Impero Romano e
l'Impero dei Parti, mondi antitetici e nemici.
La suggestione di quel ponte tra civiltà antagoniste evoca altre
finestre tra Oriente e Occidente, che, a un certo punto, quasi avvertissero di
non poter assolvere più il proprio compito, si richiudono, trasformandosi da luogo
di incontro in luogo non solo simbolico di feroce conflitto.
Un destino che sembra accomunare altre Palmire, come quella del mio
libro, che parla della Palmira del Nord, come era chiamata un tempo
Pietroburgo, occhio dal quale la sterminata Russia guardava l'Europa. "Il
Nevskij Prospekt è rettilineo...perché è una prospettiva europea; ogni prospettiva
europea non è semplicemente una prospettiva, ma...una prospettiva europea;
perché...sì. Perciò il Nevskij Prospeckt è rettilineo".
È questo il
prologo del romanzo Pietroburgo (1913) di Andrea Belyj, uno dei maggiori
scrittori russi, appartenente alla corrente letteraria del simbolismo. Lungi da me svolgere qualsiasi esegesi o critica letteraria, materia
della quale non ho alcuna competenza, vorrei invece parlare del Belyj che vede
in anticipo la catastrofe, dopo l'umiliazione subita "nel
Novecentocinque" dall'imperialismo zarista da parte di quello giapponese,
modello industriale di stampo occidentale che sconfigge venendo da oriente la
Russia e getta Pietroburgo in una crisi di identità irreversibile, con la
perdita della propria vocazione di ponte. "Port Arthur era perduta per
sempre; la Cina sarebbe insorta; e con essa i cavalieri di Cingis-chan".
Le importazioni delle mietitrici americane, dice Belyj, avrebbero a
quel tempo pragmaticamente rassicurato nel rapporto con l'Occidente più delle discussioni
sui rispettivi sistemi istituzionali.
Insomma Belyj racconta le paure e il declino annunciato di un mondo,
senza riporre fiducia in ciò che la storia prepara per sostituirlo. Il
pessimismo simbolista si esprime nelle descrizioni del contesto nel quale si
muovono i due personaggi principali e gli altri intorno ad essi: il padre,
Apollon Apollonovic, esponente di spicco di una burocrazia imperiale alla fine
("era il burocrate più popolare di Russia, se si eccettua Konsin, il cui
autografo è anche sui biglietti di banca"), vive terrorizzato dai segnali
che lo vogliono obiettivo dei nuovi nemici, mentre il figlio, Nikolai
Apollonovic grottescamente coinvolto in trame rivoluzionarie, e dalle sempre
più febbrili allucinazioni, riceve il compito di eseguire, in segno di fedeltà
alla causa, un attentato proprio contro il padre. Ma l'ordigno, confezionato
all'interno di una scatola di sardine, alla fine esplode sì, ma senza cogliere
nel segno, anzi avviando la vita dei protagonisti verso una malinconica e
decadente conclusione. E tutto questo avviene dopo che le ultime circolari
scagliate dal grand commis come fossero frecce arrivano sempre meno efficacemente al bersaglio,
disperdendosi come "cannonate di carta" nel vuoto della
organizzazione burocratica dell'Impero.
Pietroburgo emerge come forzatura della storia, città costruita
contro natura dal suo enigmatico fondatore il Cavaliere di Bronzo, lo zar
Pietro; "Pietroburgo sorge sulle paludi" e ha due volti, quello
aulico, ma decadente, della bianca monumentalistica imperiale e quello misero e
giallo per le nebbie che emerge dal dedalo di vicoli verso il Nevskij
Prospeckt, percorso ogni giorno dal "viscido verme di folla", dal
"millepiedi umano" che vi si allunga e snoda in un continuum, senza
un inizio distinguibile, senza una testa. Alcune frasi di Belyj erompono con
angosciante crudezza: "la grigia e barbuta cariatide di pietra s'era
chinata a guardare la folla; non aveva limiti il suo disprezzo; non aveva
limiti la sua disperazione".
E ancora: "in quel periodo gli era accaduto di sviluppare una
sua paradossale teoria sulla necessità di distruggere la cultura; l'epoca
dell'esausto umanesimo era secondo lui terminata; la storia era una marna in
continua erosione: stava per cominciare un'era di sana barbarie, una barbarie
che si apriva la strada dall'ambito degli strati inferiori del popolo, ma anche
delle classi privilegiate... e persino della borghesia...; si', si': Aleksander
Ivanovic predicava l'incendio delle biblioteche, delle università, dei musei e
la chiamata dei Mongoli (dei quali aveva ora paura)".
Insomma sembra che sia proprio nei luoghi destinati a fare da punto
di avvicinamento tra civiltà che si scateni la furia più nichilista, il cupio dissolvi di quello che è
stato costruito perché sia di legame, di collegamento, in un rotolamento
inarrestabile verso la tragica conclusione annunciata. Eppure, la linearità di
quegli eventi, il cui esito è già prevedibile, subirà altre terribili deviazioni,
come una guerra mondiale ("del resto la Francia li sta armando con grande
rumore") e una rivoluzione ("E sullo sfondo il fuoco dell'Impero Russo
in fiamme". "Da noi...sta per cominciare lo sciopero generale"),
che Belyj non conosce, ma delle quali già scrive. La grande letteratura è
sempre profeticamente disarmante, capace di certificare in anticipo la
ineludibilita' degli accadimenti umani, come quando egli afferma ..."il
salto sopra la storia avverrà; ci sarà un grande scompiglio; la terra si
spaccherà; le montagne crolleranno per un grande terremoto; e le pianure natie
per il cataclisma si inarcheranno...Pietroburgo sprofonderà".
Oggi la nostra storia sembra meno tragica di quella passata, siamo
senza dubbio maggiormente padroni del nostro destino, poco inclini ai
simbolismi per interpretare la nostra vita individuale e collettiva.
Ci aiuta la fiducia nelle istituzioni sovranazionali che stiamo
costruendo.
Ma c'è anche chi sostiene che la nostra cultura si sia indebolita
perché non ci aiuta a prevedere alcuni rischi rilevanti per le nostre società,
come avvenuto negli anni della follia finanziaria e della più lunga crisi
socio/economica del dopoguerra, o per non aver ancora sufficientemente convinto
tutti gli attori a costruire più rapidamente l'unita' dell'Europa. E forse più
drammaticamente, questa cultura non ci mette abbastanza in guardia neanche dai
pericoli di uno scontro di civiltà. Il fatto che non vi sia una grande
letteratura profetica come quella del primo trentennio del secolo scorso (da
Joice a Svevo, da Roth a Pirandello, da Belyj a Celine) non significa
ovviamente che non vi siano eventi della massima importanza che la letteratura
non possa aiutarci a decifrare.
A meno che la nostra crisi sia anche crisi di cultura che non sa
disegnare i caratteri identitari, limitandosi a qualche difesa di principio, ma
incapace di condannare recisamente i tatticismi, la scarsa cooperazione e i
confronti moralistici tra chi sia più o meno virtuoso tra i paesi dell'Unione.
Una cultura che si propone di rendere omogenee le diverse componenti
nazionali deve essere da un lato più autonoma rispetto alla cultura americana,
dall'altro più disposta a censurare politiche volte ad affermare primati che
ritardano gli sforzi unitari e richiedono sempre maggiori risorse per
aggiustare squilibri causati da regole che sembrano verità assolute da prendere
o lasciare.
È opinione di molti che l'Europa sconti queste sue contraddizioni
divenendo sempre meno protagonista nell'agone planetario, dove il confronto
avviene ormai tra continenti.
Non è da auspicare che l'unica misura di integrazione, ma alla lunga
anche di finta coesione, restino le "Circolari scagliate come frecce"
e le "Cannonate di Carta" di cui parla con rara efficacia
rappresentativa il romanzo di Andrea Belyj, ma che evocano anche i proclami che
escono dalle capitali dell'Unione. Forse solo Gunther Grass, appena scomparso, aveva intrapreso, con
dolore e coraggio, la via per dare alla letteratura europea un respiro tale da
farle superare la più tragica vicenda della sua modernità, fino a dare scandalo
con le sue ultime rivelazioni. D'altro canto le grandi letterature nazionali
non hanno mai sofferto di provincialismo quando hanno affrontato a viso aperto
le contraddizioni delle proprie società, raccontandone l'evoluzione, nelle fasi
tanto di decadenza quanto di espansione o di conflitto.
Ma sulla vocazione di ponte moderno tra i propri aderenti e con
altre civiltà, comprese quelle del Sud del pianeta, l'Europa ha ancora tanto da
lavorare. E non basta che simbolicamente l'immagine dei ponti compaia sulle
banconote europee quale elemento identificativo dello sforzo compiuto con
l'Euro, sotto la firma del nostro più popolare Apollon Apollonovic in chiave
moderna.
Che si debba fare di più è quasi una banalità, che si riesca a fare
di più è una sfida dagli esiti tuttora decisamente incerti.
Daniele Corsini
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