martedì 2 giugno 2015

Ponti, simboli, allucinazioni



Il libro ricevuto in dono da un amico a Natale è stato selezionato con raffinatezza, ma anche con un pizzico di preveggenza stante il ritorno in auge, in questi giorni, del mito della città di Palmira, dopo l'offensiva lanciata dall'Isis per la sua conquista. E, speriamo, almeno non per la sua distruzione. Palmira era il luogo degli scambi commerciali e culturali tra l'Impero Romano e l'Impero dei Parti, mondi antitetici e nemici.
La suggestione di quel ponte tra civiltà antagoniste evoca altre finestre tra Oriente e Occidente, che, a un certo punto, quasi avvertissero di non poter assolvere più il proprio compito, si richiudono, trasformandosi da luogo di incontro in luogo non solo simbolico di feroce conflitto.
Un destino che sembra accomunare altre Palmire, come quella del mio libro, che parla della Palmira del Nord, come era chiamata un tempo Pietroburgo, occhio dal quale la sterminata Russia guardava l'Europa. "Il Nevskij Prospekt è rettilineo...perché è una prospettiva europea; ogni prospettiva europea non è semplicemente una prospettiva, ma...una prospettiva europea; perché...sì. Perciò il Nevskij Prospeckt è rettilineo". 
È questo il prologo del romanzo Pietroburgo (1913) di Andrea Belyj, uno dei maggiori scrittori russi, appartenente alla corrente letteraria del simbolismo. Lungi da me svolgere qualsiasi esegesi o critica letteraria, materia della quale non ho alcuna competenza, vorrei invece parlare del Belyj che vede in anticipo la catastrofe, dopo l'umiliazione subita "nel Novecentocinque" dall'imperialismo zarista da parte di quello giapponese, modello industriale di stampo occidentale che sconfigge venendo da oriente la Russia e getta Pietroburgo in una crisi di identità irreversibile, con la perdita della propria vocazione di ponte. "Port Arthur era perduta per sempre; la Cina sarebbe insorta; e con essa i cavalieri di Cingis-chan".
Le importazioni delle mietitrici americane, dice Belyj, avrebbero a quel tempo pragmaticamente rassicurato nel rapporto con l'Occidente più delle discussioni sui rispettivi sistemi istituzionali.
Insomma Belyj racconta le paure e il declino annunciato di un mondo, senza riporre fiducia in ciò che la storia prepara per sostituirlo. Il pessimismo simbolista si esprime nelle descrizioni del contesto nel quale si muovono i due personaggi principali e gli altri intorno ad essi: il padre, Apollon Apollonovic, esponente di spicco di una burocrazia imperiale alla fine ("era il burocrate più popolare di Russia, se si eccettua Konsin, il cui autografo è anche sui biglietti di banca"), vive terrorizzato dai segnali che lo vogliono obiettivo dei nuovi nemici, mentre il figlio, Nikolai Apollonovic grottescamente coinvolto in trame rivoluzionarie, e dalle sempre più febbrili allucinazioni, riceve il compito di eseguire, in segno di fedeltà alla causa, un attentato proprio contro il padre. Ma l'ordigno, confezionato all'interno di una scatola di sardine, alla fine esplode sì, ma senza cogliere nel segno, anzi avviando la vita dei protagonisti verso una malinconica e decadente conclusione. E tutto questo avviene dopo che le ultime circolari scagliate dal grand commis come fossero frecce arrivano sempre meno efficacemente al bersaglio, disperdendosi come "cannonate di carta" nel vuoto della organizzazione burocratica dell'Impero.
Pietroburgo emerge come forzatura della storia, città costruita contro natura dal suo enigmatico fondatore il Cavaliere di Bronzo, lo zar Pietro; "Pietroburgo sorge sulle paludi" e ha due volti, quello aulico, ma decadente, della bianca monumentalistica imperiale e quello misero e giallo per le nebbie che emerge dal dedalo di vicoli verso il Nevskij Prospeckt, percorso ogni giorno dal "viscido verme di folla", dal "millepiedi umano" che vi si allunga e snoda in un continuum, senza un inizio distinguibile, senza una testa. Alcune frasi di Belyj erompono con angosciante crudezza: "la grigia e barbuta cariatide di pietra s'era chinata a guardare la folla; non aveva limiti il suo disprezzo; non aveva limiti la sua disperazione".
E ancora: "in quel periodo gli era accaduto di sviluppare una sua paradossale teoria sulla necessità di distruggere la cultura; l'epoca dell'esausto umanesimo era secondo lui terminata; la storia era una marna in continua erosione: stava per cominciare un'era di sana barbarie, una barbarie che si apriva la strada dall'ambito degli strati inferiori del popolo, ma anche delle classi privilegiate... e persino della borghesia...; si', si': Aleksander Ivanovic predicava l'incendio delle biblioteche, delle università, dei musei e la chiamata dei Mongoli (dei quali aveva ora paura)".
Insomma sembra che sia proprio nei luoghi destinati a fare da punto di avvicinamento tra civiltà che si scateni la furia più nichilista, il cupio dissolvi di quello che è stato costruito perché sia di legame, di collegamento, in un rotolamento inarrestabile verso la tragica conclusione annunciata. Eppure, la linearità di quegli eventi, il cui esito è già prevedibile, subirà altre terribili deviazioni, come una guerra mondiale ("del resto la Francia li sta armando con grande rumore") e una rivoluzione ("E sullo sfondo il fuoco dell'Impero Russo in fiamme". "Da noi...sta per cominciare lo sciopero generale"), che Belyj non conosce, ma delle quali già scrive. La grande letteratura è sempre profeticamente disarmante, capace di certificare in anticipo la ineludibilita' degli accadimenti umani, come quando egli afferma ..."il salto sopra la storia avverrà; ci sarà un grande scompiglio; la terra si spaccherà; le montagne crolleranno per un grande terremoto; e le pianure natie per il cataclisma si inarcheranno...Pietroburgo sprofonderà".
Oggi la nostra storia sembra meno tragica di quella passata, siamo senza dubbio maggiormente padroni del nostro destino, poco inclini ai simbolismi per interpretare la nostra vita individuale e collettiva.
Ci aiuta la fiducia nelle istituzioni sovranazionali che stiamo costruendo. 
Ma c'è anche chi sostiene che la nostra cultura si sia indebolita perché non ci aiuta a prevedere alcuni rischi rilevanti per le nostre società, come avvenuto negli anni della follia finanziaria e della più lunga crisi socio/economica del dopoguerra, o per non aver ancora sufficientemente convinto tutti gli attori a costruire più rapidamente l'unita' dell'Europa. E forse più drammaticamente, questa cultura non ci mette abbastanza in guardia neanche dai pericoli di uno scontro di civiltà. Il fatto che non vi sia una grande letteratura profetica come quella del primo trentennio del secolo scorso (da Joice a Svevo, da Roth a Pirandello, da Belyj a Celine) non significa ovviamente che non vi siano eventi della massima importanza che la letteratura non possa aiutarci a decifrare.
A meno che la nostra crisi sia anche crisi di cultura che non sa disegnare i caratteri identitari, limitandosi a qualche difesa di principio, ma incapace di condannare recisamente i tatticismi, la scarsa cooperazione e i confronti moralistici tra chi sia più o meno virtuoso tra i paesi dell'Unione.
Una cultura che si propone di rendere omogenee le diverse componenti nazionali deve essere da un lato più autonoma rispetto alla cultura americana, dall'altro più disposta a censurare politiche volte ad affermare primati che ritardano gli sforzi unitari e richiedono sempre maggiori risorse per aggiustare squilibri causati da regole che sembrano verità assolute da prendere o lasciare.
È opinione di molti che l'Europa sconti queste sue contraddizioni divenendo sempre meno protagonista nell'agone planetario, dove il confronto avviene ormai tra continenti.
Non è da auspicare che l'unica misura di integrazione, ma alla lunga anche di finta coesione, restino le "Circolari scagliate come frecce" e le "Cannonate di Carta" di cui parla con rara efficacia rappresentativa il romanzo di Andrea Belyj, ma che evocano anche i proclami che escono dalle capitali dell'Unione. Forse solo Gunther Grass, appena scomparso, aveva intrapreso, con dolore e coraggio, la via per dare alla letteratura europea un respiro tale da farle superare la più tragica vicenda della sua modernità, fino a dare scandalo con le sue ultime rivelazioni. D'altro canto le grandi letterature nazionali non hanno mai sofferto di provincialismo quando hanno affrontato a viso aperto le contraddizioni delle proprie società, raccontandone l'evoluzione, nelle fasi tanto di decadenza quanto di espansione o di conflitto.
Ma sulla vocazione di ponte moderno tra i propri aderenti e con altre civiltà, comprese quelle del Sud del pianeta, l'Europa ha ancora tanto da lavorare. E non basta che simbolicamente l'immagine dei ponti compaia sulle banconote europee quale elemento identificativo dello sforzo compiuto con l'Euro, sotto la firma del nostro più popolare Apollon Apollonovic in chiave moderna.
Che si debba fare di più è quasi una banalità, che si riesca a fare di più è una sfida dagli esiti tuttora decisamente incerti.

Daniele Corsini 

 

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