venerdì 31 luglio 2015

Enrico Letta, lettera al Fatto: “Meritiamo di più della politica alla House Of Cards”



Insegnare la politica significa, anche, insegnare a vivere. A vivere con la schiena dritta, direi. È l’impegnativa conclusione cui approda la bellissima analisi di Maurizio Viroli pubblicata sul Fatto qualche giorno fa. L’articolo trae spunto dalla mia Scuola di Politiche e poi si sofferma sul senso di una simile idea.

Prima di tutto, le motivazioni: è indispensabile – dice Viroli – trovare una sintesi virtuosa tra un altruismo sganciato dalle aspirazioni personali e un egoismo schiacciato sul tornaconto individuale. Poi il “cosa” insegnare: con la comprensione dei tempi della tattica e della strategia e quella, altrettanto cruciale, dell’animo umano.

Mi piacerebbe che su questioni del genere ci si confrontasse di più. In discussione c’è non solo un giudizio etico su quanto avviene in Italia, ma la qualità stessa della nostra democrazia. C’è una rappresentanza figlia delle liste bloccate, per le quali pesano più le logiche di fedeltà al capo che la competenza o la competizione tra proposte. C’è una classe politica sovente morbida rispetto a un modello alla House of Cards, fatto di intrighi e macchinazioni, disprezzo della parola e scarsa trasparenza. C’è una mutazione genetica del sistema dei partiti, che in Italia, anche nel campo del centrosinistra, si sovrappone all’eredità tossica del ventennio berlusconiano e si traduce nella personalizzazione esasperata delle leadership, nell’egotismo, nell’ossessione per il consenso immediato, nell’umiliazione dei corpi intermedi ridotti a ruoli al massimo ancillari.

Mi capita di discuterne spesso negli ultimi tempi. E ogni volta il retropensiero corre alla vicenda di cui sono stato protagonista. Legittimo, ma riduttivo. Perché, al di là delle implicazioni personali, ciò che a me sembra sfuggire al dibattito è la non convenienza di questo modello per la collettività. Ci si rifugia dietro una malintesa e relativista realpolitik, quasi fosse una condanna. Si omette, però, di dire che assai di rado l’Italia ha dimostrato al mondo di essere nazione e comunità. Il nostro senso dell’interesse nazionale è opzionale, sbiadito. In più, assistiamo a una rincorsa all’approssimazione e alla mancanza di rispetto reciproco che rischia di travolgere tutti, anche gli alfieri di questo stesso modello, perché, se i freni saltano, ci sarà sempre qualcuno di più furbo, di più spregiudicato, di più incline alla demagogia a guadagnare la testa della corsa.

In queste ore Emma Bonino e Pascal Lamy stanno vagliando le centinaia di video e candidature alla Scuola. Di interesse generale e competenze i ragazzi parlano con insistenza. È l’aspetto che mi colpisce di più, insieme al numero delle richieste. Li accompagneremo in un percorso dentro le istituzioni, per capire come si costruiscono le politiche, come funzionano un Consiglio Ue o un tavolo di crisi e ciò anche alla luce di riferimenti autocritici che la mia esperienza politica e di governo mi suggerisce. Voglio insistere su quanto competenza e rigore nei comportamenti siano determinanti per una classe dirigente che non sfiguri nel contesto internazionale e sappia interagire con credibilità e solidità argomentativa con quella europea. Che sappia “essere” realmente europea.

Alla base dell’idea c’è la correlazione tra politiche e politica che Nino Andreatta – uno che, a proposito di schiena dritta, fu fatto fuori dai vertici del suo stesso partito per essersi opposto all’insabbiamento della verità nella vicenda Ior – Banco Ambrosiano – amava richiamare. Niente a che vedere con un supposto primato della tecnica. Piuttosto, è un’aspirazione all’autorevolezza intesa come unico requisito per uscire dalla gabbia tra populismo e tecnocrazia che sempre di più sembra mortificare la democrazia europea.

Formare i giovani ed educarli alla gestione della complessità è una sfida enorme che coinvolge ciascuno di noi. E ha ragione Viroli: l’ultima cosa che dobbiamo somministrare ai ragazzi è l’indottrinamento unito al professionismo politico. La formazione di partito, che pure ha avuto un senso in passato, non funziona più. Oggi a fare la differenza è semmai uno sguardo ricco, “pieno”, realmente critico su ciò che ci succede attorno. Uno sguardo soprattutto “libero”, autonomo, ben piantato nella società. La nostra sarà per questo un Scuola non di partito, ma aperta a tutti: a chi vota e crede nel Pd e quanti si riconoscono nei valori costituzionali e nella dedizione all’interesse generale. Non aspira a formare funzionari, ma civil servant. E ciò in ogni ambito: nelle istituzioni, nei media, nell’impresa, nella Pa, in azienda.

Perché sì, la politica resta la più nobile delle attività umane. Lo si comprende ancora meglio quando si sceglie di viverla come un impegno per la comunità e non come un mestiere. Quando non si dipende da essa, né materialmente, né emotivamente. Ed è questo, forse, il più importante “insegnamento alla vita” che con certezza mi sento oggi di poter trasmettere ai tanti ragazzi che vogliono credere ancora nella cosa pubblica.




Tutte le morti del Mullah Omar

La notizia della morte del Mullah Omar è stata data almeno una mezza dozzina di volte da quando nel 2001 il leader dei Talebani riuscì a buggerare gli americani che gli davano la caccia con quella rocambolesca fuga in moto. L’ultima l’aveva data l’Isis a gennaio che, informando della morte di Omar, aveva nominato un nuovo Emiro dell’Afghanistan, Khadim. Ma il Mullah era talmente morto che un mese dopo il sedicente Emiro Khadim e 45 dei suoi seguaci erano stati disarmati e catturati dagli uomini di Omar.
Questa volta però la notizia è più attendibile. Non tanto perché è stata data da un funzionario anonimo del governo di Kabul. Ma perché Omar si trovava in una situazione difficilissima, stretto fra il tentativo dell’Isis di penetrare in Afghanistan e l’esercito ‘regolare di Kabul’. I rapporti fra Omar e Al Baghdadi erano tesissimi. Il Califfo aveva definito Omar “demente e ignorante”. Come risposta Omar aveva mandato una lettera aperta, firmata dal suo numero due Akhtar Mohammad Mansour, in cui diceva sostanzialmente due cose: 1° Che l’Isis non aveva niente a che fare col movimento indipendentista afgano. 2° Accusava Al Baghdadi di star frammentando il mondo islamico dividendolo in varie fazioni (lettera del 16 giugno 2015). In precedenza, in concomitanza col 19° anniversario della nomina del Mullah Omar a guida suprema dell’Emirato islamico d’Afghanistan, il movimento talebano aveva diffuso un lungo documento in cui ripercorreva la lunga biografia del Mullah, esaltandone le doti e ribadendo la sua assoluta leadership sul movimento indipendentista afgano (documento del 20 marzo 2015, firmato dal portavoce storico di Omar, Oari Muhammad Yousuf). Ma questo era un segno di debolezza. Non si ha bisogno di affermare la propria leadership se la si ha in pugno. Il fatto è che molti giovani talebani sono attratti dall’Isis che con la sua ferocia ha conquistato vasti territori in Siria e Iraq, mentre il movimento di Omar, usando metodi meno bestiali, ci ha messo 14 anni a riconquistare solo la pur notevole parte rurale dell’Afghanistan (attacchi solo a obbiettivi militari e politici; nessun sequestro a fini di estorsione, ad eccezione di quello del giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, che comunque fu poi liberato, trattamento civile dei prigionieri che, una volta liberati, hanno tutti dichiarato di essere stati trattati con rispetto – il 19 dicembre dopo l’attacco dei talebani pakistani alla scuola di Peshawar dove studiano i figli dei militari pakistani il movimento talebano afgano aveva condannato senza se e senza ma quell’eccidio: “L’Emirato islamico è scioccato da quanto avvenuto e condivide il dolore della famiglie dei bambini uccisi nell’attacco”). Inoltre all’interno del movimento c’è una divisione fra chi vuole continuare ad oltranza la guerra d’indipendenza contro l’occupazione straniera e chi vuole arrivare ad una sorta di ‘pacificazione nazionale’ attraverso il dialogo e i contatti tenuti recentemente a Oslo fra il governo di Kabul e alcuni rappresentanti degli insorti.
Se la notizia della morte del Mullah Omar è vera le domande sono due. Uno. Chi ha ucciso il Mullah Omar? L’Isis? Mi pare improbabile. L’Isis per ora ha intaccato solo marginalmente il territorio afgano ed è difficile che i suoi uomini siano riusciti là dove per 14 anni ci hanno provato inutilmente i servizi americani cercandolo per ogni dove con i loro occhiutissimi satelliti, senza trovarlo. E’ più ragionevole pensare che le ragioni di questa sua morte vadano cercate negli accordi in corso a Oslo. Se Omar era d’accordo con la pacificazione diventava impresentabile, non era accettabile per gli americani che Omar, sul quale pende tuttora una taglia di 25 milioni di dollari, rientrasse a Kabul se non da vincitore da semivincitore. Se non era d’accordo, come io penso, bisognava eliminarlo per indebolire i ‘duri e puri’ del movimento talebano. Quindi, per la prima volta dopo 14 anni il Mullah Omar è stato tradito da qualcuno dei suoi.
La seconda domanda è: che cosa succederà ora? La morte del Mullah Omar segna la fine dei sogni di indipendenza dell’Afghanistan. Diventerà ufficialmente un protettorato americano. Ma la notizia non è positiva per l’Occidente, perché spalanca le porte alle mire espansioniste dell’Isis che non si accontenta di prendersi, eventualmente, l’Afghanistan ma vuole allargare la sua presenza ad altre aree dell’Asia Centrale, tanto che l’Isis nell’area ha preso il nome di Khorasan, una regione storica che comprende, fra gli altri, anche Turkmenistan.
Quanto a me, io rendo onore al Mullah Omar, combattente giovanissimo contro gli invasori sovietici, dove perse un occhio in battaglia, combattente e vincitore dei criminali ‘signori della guerra’ (Massud, Ismail Khan, Heckmatyar, Dostum) che nel conflitto scoppiato fra costoro per impadronirsi del potere lasciato vacante dai sovietici, agivano nel più pieno arbitrio, assassinando, stuprando, taglieggiando, sbattendo fuori dalle case i legittimi proprietari per metterci i loro adepti. Omar, che nei suoi 6 anni di governo (1996-2001) riportò nel Paese l’ordine e la legge, sia pur una dura legge, la Sharia, ma senza mai abbandonarsi agli eccessi feroci dell’Isis. Infine per 14 anni è stato guida della rivolta contro gli ancora più arroganti e devastanti occupanti occidentali. Preso il potere il Mullah non ne approfittò mai e continuò a fare la vita spartana che aveva sempre fatto, non favorì la sua famiglia e neanche il piccolo villaggio, Singesar, che non ebbe nessun vantaggio dal fatto che uno dei suoi ‘enfant du pays’ fosse diventato il capo del Paese. Un uomo di una morale e di una coerenza assolute. E, forse, è proprio questo che, alla fine, lo ha perduto. Che Allah ti abbia sempre in gloria, Omar.



mercoledì 29 luglio 2015

Azzollini salvo, ovvero come il Potere piscia in bocca agli elettori



Antonio Azzollini è salvo. Più della metà dei senatori del Pd, dopo il via libera del capogruppo Luigi Zanda, ha votato secondo coscienza. Molti di loro però una coscienza non l’hanno mai avuta. Altri invece se la sono venduta nel frattempo. Così dal Senato della Repubblica arriva un messaggio chiaro: Azzollini è un perseguitato da tutta la magistratura. Non solo dai Pm o dal gip di Trani. Ce l’hanno con lui pure i giudici del tribunale del riesame di Bari che il 2 luglio hanno confermato l’ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti.

Ovviamente la verità è un’altra. Il fumus persecutionis non c’è. Ma Azzollini è un potente esponente del Ncd, partito indispensabile alla sopravvivenza della maggioranza. E sopratutto ha presieduto per dodici anni la commissione Bilancio del Senato, un organismo che filtra le leggi spesa e che da sempre è il luogo in cui avvengono scambi di ogni tipo. Se i parlamentari vogliono finanziare una strada, un’opera pubblica, un ente del proprio collegio elettorale o in in qualche modo utile ai propri accoliti, devono passare da lì.

Questa è l’origine del suo potere. E in questo modo si spiega pure la sua arroganza. Emersa nell’inchiesta sul porto di Molfetta (uno maxitruffa da 170 milioni di euro, per cui il Senato ha già negato l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche) durante la quale più testimoni hanno parlato di presunte pressioni e minacce rivolte da Azzollini a funzionari pubblici per spingerli a non collaborare con gli investigatori. E diventata di dominio pubblico quando, nell’indagine sul crac da 500 milioni di euro della Casa di Cura Divina Provvidenza di Bisceglie, altri due testi, hanno detto di averlo sentito pronunciare con una suora una frase destinata a entrare nella storia  del malaffare politico italiano: “Da oggi in poi qui comando io, sennò vi piscio in bocca”.

Come molti ricorderanno, la religiosa, arrestata assieme ad altre 10 persone, davanti al gip si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Poi ha inviato un memoriale in cui nega di averlo sentito pronunciare la minaccia.

Non sta a noi (né al Parlamento) stabilire chi abbia ragione. Lo faranno i giudici. Sappiamo però che i testimoni hanno l’obbligo di dire la verità. Gli indagati no.

Sappiamo anche che con il voto pro Azzollini il Senato ha pisciato in bocca ai cittadini. A tutti quegli italiani che a bocca aperta speravano nella rottamazione di Matteo Renzi e che ora devono constatare come il suo Pd stia invece rottamando il proprio elettorato e quel poco di buono che ancora rimaneva della sua storia.

La truffa politica è evidente. L’11 giugno il presidente del partito, Matteo Orfini, dichiara: “Credo che di fronte a una richiesta del genere si debbano valutare le carte, ma mi pare che sia inevitabile votare a favore dell’arresto”. Mancano tre giorni ai ballottaggi  delle comunali, apparire morbidi non conviene. La giunta per le immunità dà così il via a una lunga istruttoria. Legge le carte, convoca Azzolini, e il Pd vota per le manette. Si arriva al Senato dove i documenti processuali non li ha visti quasi nessuno. Il capogruppo Zanda, però manda una lettera ai propri senatori con cui lascia a tutti la libertà di coscienza.

I vertici del partito non dicono una parola. Sanno che il voto è segreto. Che il risultato è scontato. Ma stanno zitti. Poi, a salvataggio compiuto, interviene il vice-segretario Dem, Debora Serracchiani, che dice: “Sono arrabbiata. Credo che abbiamo commesso un errore. Se fossi stato senatore avrei votato sì”.


Dalla pisciata in bocca, si passa a quella in testa. Se non fosse luglio ci direbbero che piove.


venerdì 24 luglio 2015

Della Valle: “Renzi bulimico di potere, Mattarella lo mandi a casa”

La prima cosa che Diego Della Valle dice è questa: “Da parte della maggioranza della classe dirigente c’è un silenzio preoccupante per la democrazia”. Lui lo rompe così: “Molte di queste persone sono costrette ad allinearsi al diktat del premier, ‘o con me o contro di me’. Tanti, immagino, faticano a esporsi. C’è una gran voglia, da parte di chi guida il Paese, di prendere in mano tutto il potere per governare come meglio gli pare. Chi tace di fronte a una situazione così grave diventa complice di questi sistemi”.

Vista a posteriori certamente sì. È stata utilizzata la buona fede dei cittadini che chiedevano un vero cambiamento, salvo poi fare il contrario di ciò che era stato promesso. Alla fine abbiamo visto un po’ di regolamenti di conti tra politici e il cambio di uomini che guidavano le aziende dello Stato con nuovi manager, amici del governo. Mi ha fatto saltare dalla sedia vedere come un vice ministro degli Esteri si sia dimesso per andare a fare il vice presidente dell’Eni, come se l’Eni appartenesse a Renzi. Nessuno ha spiegato perché e quale fosse il curriculum di questa persona. È solo un esempio, la lista sarebbe lunghissima. 

Cosa la preoccupa di più? 
La qualità e l’esperienza di questo governo mediamente scarsa, ad eccezione di alcuni ministri e di qualche altro che avrebbe potuto, con più tempo, essere all’altezza. Mi preoccupa l’approssimazione con cui un presidente del Consiglio, che non ha l’esperienza necessaria, guida un Paese con problemi molto più grandi di lui. Non dimentichiamo cosa faceva fino a un anno fa. Senza nulla togliere al mestiere di chi amministra il territorio, tra decidere i sensi unici di una città e la politica economica di un Paese, ce ne passa. Dico tutto questo senza nulla di personale contro Renzi, che conosco bene e che con me ha sempre avuto un comportamento rispettoso. Avrebbe fatto meglio a seguire il mio consiglio: prendersi qualche anno e prepararsi al ruolo. 

Nessun problema tra di voi, quindi? 
Mi spiace dover dire queste cose, ma qui non contano i rapporti tra noi. Conta fare un punto vero su cosa questo governo sta facendo: i risultati purtroppo sono molto pochi, le promesse sono state troppe. Ci siamo trovati dentro una specie di Truman show, spettatori della vita, principalmente mediatica, di un premier che racconta che le cose vanno bene e andranno ancora meglio. La realtà è ben diversa, piena di problemi, spesso anche di sofferenze, soprattutto per le persone più semplici: nessuno se ne occupa. Per guidare il nostro Paese c’è bisogno di qualcuno che abbia esperienza, autorevolezza e soprattutto che sia sostenuto dai cittadini. 

Loro obiettano che hanno avuto il 40 per cento dei voti alle Europee. 
Il 40 per cento, considerando il tasso d’astensione, si ridimensiona enormemente. Ricordiamo invece che gli italiani sono stati richiamati alle urne circa un mese fa e hanno detto con chiarezza che questo governo gli piace molto poco. Non gli hanno creduto, nonostante ministri e premier abbiano riempito telegiornali e talk-show. Segnale che dovrebbe essere colto dal mondo della politica: dall’esecutivo e dal Pd per fare autocritica, dagli alleati di governo per capire che non c’è un condottiero imbattibile alla guida, ma qualcuno che ha bisogno dei loro voti altrimenti non può andare avanti. Si ricordino come venivano trattati prima delle ultime elezioni, quando Renzi pensava di avere un consenso forte… 

Cosa significa? 
Oggi con un loro segnale – votando secondo coscienza e non secondo direttive politiche – potrebbero mandare a casa il governo. Per questo, rispettosamente, mi rivolgo al presidente Mattarella invitandolo a formare un nuovo esecutivo composto da persone che sanno le cose – perché le hanno anche vissute – e che accompagnino il Paese alle elezioni del 2018. 

Il Jobs Act l’hanno fatto. 
C’è qualcosa di buono, ma il punto è che il Jobs Act serve più a regolamentare il lavoro che a crearlo. Sul lavoro l’elenco delle cose che si potrebbero fare è lunghissimo. Per il resto – su sanità e sicurezza per esempio – basta entrare negli ospedali, basta girare per le periferie e nelle province per capire com’è a rischio la sicurezza, come sia gestito, senza strategia, il problema immigrazione. 

Da imprenditore cosa pensa del piano tasse? 
Nulla allo stato attuale, sono slogan da campagna elettorale. Quando presenterà un piano con proposte vere – con le relative coperture e la certezza di attuarle – allora le commenterò. 

I giornali scrivono che lei sta per entrare in politica. È vero? 
Un cittadino che si lamenta di ciò che secondo lui non va, deve per forza voler entrare in politica? Spesso questi argomenti vengono usati da alcuni politici furbetti per delegittimare chi non è d’accordo. Faccio l’imprenditore a tempo pieno e, considerando anche il mio ruolo pubblico, ritengo doveroso, quando ce n’è motivo, prendere posizione, anche se è scomodo perché ci si fanno molti nemici. Ritengo un dovere esporsi di fronte a questioni che mettono a repentaglio gli interessi della collettività. Bisogna chiarire che un governo non eletto dai cittadini sta tentando di prendere in mano il potere a tutti i livelli. Non possiamo permetterlo: metterebbe in discussione la qualità della nostra democrazia. 

Il mantra è che non c’è alternativa. 
In un sistema sano l’alternativa esiste sempre. Dobbiamo fare in modo che ci sia davvero, fermando chi abusa e incentivando tutte le persone che hanno voglia di occuparsi seriamente dell’Italia. Anche qui è determinante che il presidente della Repubblica – non me ne voglia se lo chiamo in causa – vigili con grande attenzione. 

Così però sembra un’auto-candidatura. 
Assolutamente no, ma non è nemmeno un modo per defilarmi: sono pronto a mettere a disposizione una parte del mio tempo, la conoscenza che ho di certe cose e, nei limiti delle regole, anche il supporto finanziario necessario per sostenere chiunque voglia occuparsi seriamente del futuro del Paese. Con l’idea di preparare una classe dirigente e politica che voglia veramente bene all’Italia. Sia a destra che a sinistra, nell’attuale scenario, ci sono molti esempi di persone che hanno queste caratteristiche. Ma che spesso sono tenute nell’ombra perché non appartengono a nessun giro o perché non accettano di baciare nessuna pantofola. Io non ho nulla da chiedere in cambio. 

E “Noi italiani”? 
Non c’entra nulla: “Noi italiani” è un contenitore legato al mondo della solidarietà. Un accentratore e un acceleratore di aiuti alle persone in difficoltà. Lavoriamo da due anni a questo progetto, lo presenteremo in autunno. 

I cittadini contano sempre meno? 
Lo dimostrano la riforma del Senato e l’Italicum, che ancora non ci farà scegliere buona parte dei nostri rappresentanti. E poi la Rai, la vera battaglia del premier: proverà a chiuderla in fretta. Il tentativo è quello di far passare la tv di Stato non più sotto il controllo del mondo politico allargato, ma sotto il suo controllo. Il governo Renzi è straordinariamente debole: non ha il consenso della gente, non può imporsi agli alleati perché ne ha bisogno. L’idea di prendere in mano definitivamente anche la Rai è fondamentale. Ma non basterà comunque. Renzi dovrebbe prendere atto che deve studiare seriamente per qualche anno, farsi una squadra all’altezza. Allora potrà presentarsi al giudizio del popolo. Se verrà votato da molti avrà anche la legittimità per governare. 

Berlusconi adesso parla bene di lei. 
Berlusconi e io ci siamo sempre detti le cose con chiarezza, spesso anche con forte determinazione. In questo caso mi ha fatto un complimento. Lo prendo come tale.





domenica 19 luglio 2015

Paolo Borsellino, strage di Stato senza Stato






In attesa di sapere se davvero il dottor Tutino ha detto che l’assessore Lucia Borsellino “va fatta fuori come suo padre” e il governatore Crocetta non ha fatto una piega, buttiamo lì una domanda forse lievemente più cruciale: interessa a qualcuno sapere chi ha fatto fuori Paolo Borsellino, e perché? Leviamoci dalla testa che i processi sin qui celebrati l’abbiano accertato. Sappiamo, grazie a pentiti come Spatuzza, che la logistica dell’attentato fu curata dai boss di Brancaccio, Giuseppe e Filippo Graviano, e che l’esecutore materiale fu il loro killer di fiducia, Gaspare Spatuzza appunto. Sappiamo pure che per 15 anni, prima del suo pentimento, la polizia di Palermo al comando di Arnaldo La Barbera (ora defunto) aveva assicurato alla giustizia dei falsi colpevoli costruiti in laboratorio (Scarantino, Candura e Andriotta) per depistare le indagini su quelli veri mescolando fatti autentici (il ruolo, sia pur non centrale, dei Graviano e il coinvolgimento della famiglia Scotto) ad autentiche bufale (poi smontate con tante scuse nel processo di revisione). Purtroppo non sappiamo chi ordinò quel depistaggio di Stato, che non poteva essere un’iniziativa personale di alcuni poliziotti. Sappiamo però che, se lo Stato si attiva per deviare il corso delle indagini sul delitto mafioso più eclatante della storia insieme a quello di 55 giorni prima a Capaci, è perché si tratta di una strage di Stato. Non lo dicono i soliti dietrologi visionari, ma svariate risultanze processuali, purtroppo ancora tutte da approfondire a 23 anni dall’eccidio.

1) Il 4 marzo 1992 il neofascista Elio Ciolini, già coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna, legato ai servizi e detenuto a Bologna, scrisse una lettera a un giudice dal titolo “Nuova strategia della tensione in Italia – Periodo marzo-luglio 1992”. E lì anticipò che tra marzo e luglio sarebbero avvenuti “fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come esplosioni dinamitarde, sequestro ed eventuale omicidio di esponente politico Dc ed eventuale omicidio del futuro presidente della Repubblica” (il favorito era Andreotti). Otto giorno dopo, fu assassinato l’andreottiano Salvo Lima. Il 18 marzo Ciolini rivelò che il piano eversivo era opera di massoni, politici e mafiosi: “Intimidire quei soggetti e Istituzioni Stato (forze di polizia ecc.) affinché non abbiano la volontà di farlo e distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore di quello della mafia”. Una profezia dettagliatissima su tempi e bersagli della stagione stragista, prima in Sicilia e poi nel Centro Nord. Come faceva un detenuto a conoscere tutti quei particolari?

2) Il 19 marzo 1992 l’agenzia di stampa romana Repubblica, legata agli andreottiani e ai servizi, rivelò che il delitto Lima era solo l’inizio di una strategia della tensione con obiettivi e ispiratori politici: altra prova di un piano a più teste e a più mani. Il 21 e 22 maggio la stessa agenzia preannunciò “un bel botto esterno” per influenzare l’elezione del nuovo capo dello Stato. Infatti il 23 fu ucciso Falcone a Capaci e la candidatura di Andreotti (nel mirino di Cosa Nostra per aver tradito gli impegni sull’annullamento in Cassazione del maxiprocesso) sfumò a vantaggio di Scalfaro. Chi aveva suggerito a Riina & C. le modalità e la tempistica di Capaci? E chi gli mise fretta per eliminare subito dopo Borsellino, costringendo il Parlamento a convertire in legge il durissimo decreto Scotti-Martelli sul 41-bis, che dopo Capaci i partiti avevano insabbiato?

3) Spatuzza ha messo a verbale che c’era anche un soggetto esterno a Cosa Nostra, silenzioso osservatore, nel garage in cui lui e altri uomini dei Graviano imbottivano di esplosivo l’auto rubata per la strage di via D’Amelio. Chi era costui?

4) Appena il mafioso Di Matteo decise di collaborare con la giustizia, Cosa Nostra gli sequestrò il figlioletto Santino per costringerlo al silenzio (e poi strangolare il bimbo e scioglierlo nell’acido). Il 14 dicembre 1993, quando ancora sperava che il piccolo le fosse restituito vivo, la moglie del pentito fu intercettata mentre scongiurava il marito di non parlare degli “infiltrati” dello Stato nella strage di via D’Amelio. Chi erano?

5) Tra il 27 e il 28 luglio, mentre al ministero della Giustizia “depurato” degli ultimi fautori della linea dura Claudio Martelli e Niccolò Amato si preparava l’alleggerimento del 41-bis, Cosa Nostra – che già a fine maggio aveva abbattuto la torre dei Pulci a Firenze – tornò a colpire nel continente: polverizzò in simultanea il Padiglione di Arte Contemporanea di Milano e le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma. Chi suggerì quegli obiettivi, senz’altro sconosciuti agli incolti mafiosi, senza contare che le due chiese vaticane richiamavano i nomi dei presidenti delle Camere, Giovanni Spadolini e Giorgio Napolitano (che ha recentemente rivelato ai pm di Palermo di aver saputo fin da allora di un attentato mafioso contro di lui)? E perché l’allora premier Carlo Azeglio Ciampi, dopo il blackout che quella notte isolò i centralini di Palazzo Chigi, disse di aver pensato a un colpo di Stato?

Anche senza entrare nella trattativa Stato-mafia, ce n’è abbastanza per parlare di stragi di Stato. Che però sembrano interessare soltanto un pugno di vedove, di orfani e di pm, debitamente isolati anche da chi, ogni 23 maggio e 19 luglio, scende a Palermo per lacrimare a favore di telecamera. La trattativa dello Stato con la mafia è certa. Le stragi di Stato sono certissime. Lo Stato invece è ancora presunto.