Insegnare la politica
significa, anche, insegnare a vivere.
A vivere con la schiena dritta, direi. È l’impegnativa conclusione cui approda
la bellissima analisi di Maurizio
Viroli pubblicata sul Fatto qualche giorno fa. L’articolo trae
spunto dalla mia Scuola di Politiche e poi si sofferma sul senso di una simile
idea.
Prima di tutto, le motivazioni: è indispensabile –
dice Viroli – trovare una sintesi virtuosa tra un altruismo sganciato dalle aspirazioni
personali e un egoismo schiacciato sul tornaconto individuale. Poi il “cosa”
insegnare: con la comprensione dei tempi della tattica e della strategia e
quella, altrettanto cruciale, dell’animo umano.
Mi piacerebbe che su questioni del genere ci si
confrontasse di più. In discussione c’è non solo un giudizio etico su quanto avviene in Italia, ma la qualità stessa
della nostra democrazia. C’è una rappresentanza figlia delle liste bloccate, per le quali pesano
più le logiche di fedeltà al capo che la competenza o la competizione tra
proposte. C’è una classe politica sovente morbida rispetto a un modello alla House of Cards, fatto di intrighi e
macchinazioni, disprezzo della parola e scarsa trasparenza. C’è una mutazione
genetica del sistema dei partiti, che in Italia, anche nel campo del
centrosinistra, si sovrappone all’eredità tossica del ventennio berlusconiano e
si traduce nella personalizzazione esasperata delle leadership, nell’egotismo,
nell’ossessione per il consenso immediato, nell’umiliazione dei corpi intermedi
ridotti a ruoli al massimo ancillari.
Mi capita di discuterne spesso negli ultimi tempi. E
ogni volta il retropensiero corre alla vicenda di cui sono stato protagonista.
Legittimo, ma riduttivo. Perché, al di là delle implicazioni personali, ciò che
a me sembra sfuggire al dibattito è la non convenienza di questo modello per la
collettività. Ci si rifugia dietro una malintesa e relativista realpolitik, quasi fosse una condanna.
Si omette, però, di dire che assai di rado l’Italia ha dimostrato al mondo di essere nazione e comunità. Il
nostro senso dell’interesse nazionale è opzionale, sbiadito. In più, assistiamo
a una rincorsa all’approssimazione e alla mancanza di rispetto reciproco che
rischia di travolgere tutti, anche gli alfieri di questo stesso modello,
perché, se i freni saltano, ci sarà sempre qualcuno di più furbo, di più
spregiudicato, di più incline alla demagogia a guadagnare la testa della corsa.
In queste ore Emma
Bonino e Pascal Lamy
stanno vagliando le centinaia di video e candidature alla Scuola. Di interesse
generale e competenze i ragazzi parlano con insistenza. È l’aspetto che mi
colpisce di più, insieme al numero delle richieste. Li accompagneremo in un
percorso dentro le istituzioni, per capire come si costruiscono le politiche,
come funzionano un Consiglio Ue
o un tavolo di crisi e ciò anche alla luce di riferimenti autocritici che la
mia esperienza politica e di governo mi suggerisce. Voglio insistere su quanto
competenza e rigore nei comportamenti siano determinanti per una classe
dirigente che non sfiguri nel contesto internazionale e sappia interagire con
credibilità e solidità argomentativa con quella europea. Che sappia “essere”
realmente europea.
Alla base dell’idea c’è la correlazione tra politiche
e politica che Nino Andreatta –
uno che, a proposito di schiena dritta, fu fatto fuori dai vertici del suo
stesso partito per essersi opposto all’insabbiamento della verità nella vicenda
Ior – Banco Ambrosiano – amava
richiamare. Niente a che vedere con un supposto primato della tecnica.
Piuttosto, è un’aspirazione all’autorevolezza intesa come unico requisito per
uscire dalla gabbia tra populismo e tecnocrazia che sempre di più sembra
mortificare la democrazia europea.
Formare i giovani ed educarli alla gestione della
complessità è una sfida enorme che coinvolge ciascuno di noi. E ha ragione Viroli: l’ultima cosa che dobbiamo
somministrare ai ragazzi è l’indottrinamento unito al professionismo politico.
La formazione di partito, che pure ha avuto un senso in passato, non funziona
più. Oggi a fare la differenza è semmai uno sguardo ricco, “pieno”, realmente
critico su ciò che ci succede attorno. Uno sguardo soprattutto “libero”,
autonomo, ben piantato nella società. La nostra sarà per questo un Scuola non di
partito, ma aperta a tutti: a chi vota e crede nel Pd e quanti si riconoscono
nei valori costituzionali e nella dedizione all’interesse generale. Non aspira
a formare funzionari, ma civil servant. E ciò in ogni ambito: nelle
istituzioni, nei media, nell’impresa, nella Pa, in azienda.
Perché sì, la politica resta la più nobile delle
attività umane. Lo si comprende ancora meglio quando si sceglie di viverla come
un impegno per la comunità e non come un mestiere. Quando non si dipende da
essa, né materialmente, né emotivamente. Ed è questo, forse, il più importante
“insegnamento alla vita” che con certezza mi sento oggi di poter trasmettere ai
tanti ragazzi che vogliono credere ancora nella cosa pubblica.
Enrico Letta (il Fatto Quotidiano del 30 luglio2015)
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