venerdì 31 luglio 2015

Enrico Letta, lettera al Fatto: “Meritiamo di più della politica alla House Of Cards”



Insegnare la politica significa, anche, insegnare a vivere. A vivere con la schiena dritta, direi. È l’impegnativa conclusione cui approda la bellissima analisi di Maurizio Viroli pubblicata sul Fatto qualche giorno fa. L’articolo trae spunto dalla mia Scuola di Politiche e poi si sofferma sul senso di una simile idea.

Prima di tutto, le motivazioni: è indispensabile – dice Viroli – trovare una sintesi virtuosa tra un altruismo sganciato dalle aspirazioni personali e un egoismo schiacciato sul tornaconto individuale. Poi il “cosa” insegnare: con la comprensione dei tempi della tattica e della strategia e quella, altrettanto cruciale, dell’animo umano.

Mi piacerebbe che su questioni del genere ci si confrontasse di più. In discussione c’è non solo un giudizio etico su quanto avviene in Italia, ma la qualità stessa della nostra democrazia. C’è una rappresentanza figlia delle liste bloccate, per le quali pesano più le logiche di fedeltà al capo che la competenza o la competizione tra proposte. C’è una classe politica sovente morbida rispetto a un modello alla House of Cards, fatto di intrighi e macchinazioni, disprezzo della parola e scarsa trasparenza. C’è una mutazione genetica del sistema dei partiti, che in Italia, anche nel campo del centrosinistra, si sovrappone all’eredità tossica del ventennio berlusconiano e si traduce nella personalizzazione esasperata delle leadership, nell’egotismo, nell’ossessione per il consenso immediato, nell’umiliazione dei corpi intermedi ridotti a ruoli al massimo ancillari.

Mi capita di discuterne spesso negli ultimi tempi. E ogni volta il retropensiero corre alla vicenda di cui sono stato protagonista. Legittimo, ma riduttivo. Perché, al di là delle implicazioni personali, ciò che a me sembra sfuggire al dibattito è la non convenienza di questo modello per la collettività. Ci si rifugia dietro una malintesa e relativista realpolitik, quasi fosse una condanna. Si omette, però, di dire che assai di rado l’Italia ha dimostrato al mondo di essere nazione e comunità. Il nostro senso dell’interesse nazionale è opzionale, sbiadito. In più, assistiamo a una rincorsa all’approssimazione e alla mancanza di rispetto reciproco che rischia di travolgere tutti, anche gli alfieri di questo stesso modello, perché, se i freni saltano, ci sarà sempre qualcuno di più furbo, di più spregiudicato, di più incline alla demagogia a guadagnare la testa della corsa.

In queste ore Emma Bonino e Pascal Lamy stanno vagliando le centinaia di video e candidature alla Scuola. Di interesse generale e competenze i ragazzi parlano con insistenza. È l’aspetto che mi colpisce di più, insieme al numero delle richieste. Li accompagneremo in un percorso dentro le istituzioni, per capire come si costruiscono le politiche, come funzionano un Consiglio Ue o un tavolo di crisi e ciò anche alla luce di riferimenti autocritici che la mia esperienza politica e di governo mi suggerisce. Voglio insistere su quanto competenza e rigore nei comportamenti siano determinanti per una classe dirigente che non sfiguri nel contesto internazionale e sappia interagire con credibilità e solidità argomentativa con quella europea. Che sappia “essere” realmente europea.

Alla base dell’idea c’è la correlazione tra politiche e politica che Nino Andreatta – uno che, a proposito di schiena dritta, fu fatto fuori dai vertici del suo stesso partito per essersi opposto all’insabbiamento della verità nella vicenda Ior – Banco Ambrosiano – amava richiamare. Niente a che vedere con un supposto primato della tecnica. Piuttosto, è un’aspirazione all’autorevolezza intesa come unico requisito per uscire dalla gabbia tra populismo e tecnocrazia che sempre di più sembra mortificare la democrazia europea.

Formare i giovani ed educarli alla gestione della complessità è una sfida enorme che coinvolge ciascuno di noi. E ha ragione Viroli: l’ultima cosa che dobbiamo somministrare ai ragazzi è l’indottrinamento unito al professionismo politico. La formazione di partito, che pure ha avuto un senso in passato, non funziona più. Oggi a fare la differenza è semmai uno sguardo ricco, “pieno”, realmente critico su ciò che ci succede attorno. Uno sguardo soprattutto “libero”, autonomo, ben piantato nella società. La nostra sarà per questo un Scuola non di partito, ma aperta a tutti: a chi vota e crede nel Pd e quanti si riconoscono nei valori costituzionali e nella dedizione all’interesse generale. Non aspira a formare funzionari, ma civil servant. E ciò in ogni ambito: nelle istituzioni, nei media, nell’impresa, nella Pa, in azienda.

Perché sì, la politica resta la più nobile delle attività umane. Lo si comprende ancora meglio quando si sceglie di viverla come un impegno per la comunità e non come un mestiere. Quando non si dipende da essa, né materialmente, né emotivamente. Ed è questo, forse, il più importante “insegnamento alla vita” che con certezza mi sento oggi di poter trasmettere ai tanti ragazzi che vogliono credere ancora nella cosa pubblica.




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