venerdì 4 settembre 2015

LA RIFLESSIONE Palazzo Steri: la lunga notte dell’Inquisizione a Palermo

Barbara Mazzola. Dal suono può sembrare un nome padano, ma in realtà è una ragazza, tutto pepe, di Palermo. Per incontrarla occorre andare a visitare palazzo Steri, antica residenza dei Chiaramonte (tra le famiglie più influenti della Palermo del ‘300). Qui lavora come guida turistica e racconta che il palazzo fortificato (da cui il nome Steri, da Hosterium) è stato successivamente, dal XV secolo, residenza dei Viceré spagnoli e dal 1600 al 1782 sede del tribunale dell’inquisizione.
 
Lo scorso aprile Barbara, insieme con Carmela Catalano, Francesca Sommatino e Ornella Ferro, nei panni di alcune streghe hanno in pratica portato in scena la centesima replica di uno spettacolo per ricordare le sofferenze, le urla disperate, le pene e le torture, subite da chi è stato recluso nel carcere siciliano dell’inquisizione. Una sorta di singolarissima e intensa visita guidata serale, in quelle che furono per quasi due secoli le buie celle di una tremenda prigione che non lasciava scampo.
 
Vi finirono dentro anche preti e vescovi stando alle testimonianze rinvenute, sotto strati d’intonaco, su quei muri a seguito dei lavori di restauro che hanno consentito di riportare alla luce e, fortunatamente, conservare graffiti, versi, frasi e disegni: le testimonianze di un oceano di sofferenze patite in quella lunga notte della storia.
 
Fra coloro che vi furono rinchiusi, l’intensa rappresentazione dà risalto al caso di Diego La Matina, frate agostiniano giudicato eretico e finito al rogo. Della vicenda si occupò anche Leonardo Sciascia nel suo libro “Morte dell’inquisitore” (scritto nel 1964 e pubblicato da Adelphi). Una vicenda ancora oggi in buona parte avvolta in un mistero nel quale storia e racconti popolari continuano a fare a pugni. Tanto che lo stesso Sciascia ha scritto: “È un libro non finito, che non finirò mai”.
 
Di fra Diego La Matina si sa che nella prigionia a palazzo Steri, non la prima, durante un interrogatorio (o tortura) aggredì l’inquisitore, Juan Lopez de Cisneros, con i ceppi di ferro ai polsi, o forse con un arnese di metallo (il che accrediterebbe la tesi della presenza di strumenti di tortura). Lo uccise fracassandogli il cranio e così quello fu il drammatico epilogo di un ennesimo colloquio per ottenere la confessione della colpa di eresia. Pare che dagli archivi di Madrid sia emersa una nota con la quale la sede per antonomasia del temutissimo tribunale, la Spagna, si lamentasse per i metodi eccessivamente brutali usati a Palermo. Addirittura più realisti del re, a quanto pare.
 
In una delle sale è esposto un disegno a china di Renato Guttuso, nel quale un segno nero come il buio pesto di quelle celle racconta la fatale reazione. Un segno nervoso, scappato dalla mano, quasi a voler dare forma a una rabbia sociale che non fatichiamo a credere intatta verso un “problema” che tuttora stringe la Sicilia in una morsa soffocante. E, ovviamente, non si tratta del traffico, come, provocatoriamente, si dice nel film “Johnny Stecchino” di Roberto Benigni. Le pareti di palazzo Steri a Palermo continuano a raccontare una storia nella quale, nel nome dell’alleanza trono-altare, a lungo si sono tenute soggiogate menti e genti.

Un tempo nel quale il versante religioso di quel grumo di potere ci ha messo del suo per neutralizzare e disinnescare la carica inquietante e destabilizzante del messaggio evangelico. Per rendersene conto, basta sostare ancora oggi davanti all’affresco settecentesco “Fuga in Egitto” del fiammingo Guglielmo Borremans, in una delle sale del museo diocesano nel palazzo arcivescovile di Palermo. La fuga di Maria e Giuseppe per trarre in salvo il redentore dalla furia omicida di Erode (non proprio un antesignano del pensiero pedagogico), è iconograficamente ridotta a poco più di una scampagnata, con un tratto barocco perfettamente al servizio dell’ortodossia, qui celebrata anche esteticamente come una festa gioiosa di grazia bucolica.
 
Fra i pochi che potevano permettersi qualche libertà fuori dagli schemi, forse c’era lo scultore Giacomo Serpotta, magnifico solista della scultura a cavallo fra sei e settecento e non conosciuto fuori dall’isola come invece meriterebbe al pari di altri grandi nomi della storia dell’arte. Nella fastosa, ubriacante e straordinaria ridondanza di forme e volumi immersi nel candore estetico dello stucco, poteva permettersi di dire, come nell’oratorio del Rosario di Santa Cita, che a Lepanto non ha vinto in realtà nessuno – né cristiani né musulmani quindi – perché la guerra produce ovunque e sempre solamente miseria.

Dunque, elementi di riflessione, e non pochi, se si visita Palermo. Una città dalle mille, imperdibili, sorprese e contraddizioni. Nella quale il bello convive col brutto, il bene con il male, il giusto con l’ingiusto, in una contraddizione stridente e quotidiana, al tempo stesso, e nella quale il senso di contrasto è talmente inestricabile da sembrare metabolizzato coma la normalità. Forse specchio di un paese intero, che ha fatto della ricerca dissoluta del contraddittorio, del conflitto, dell’irrisolvibile contrasto e del provvisorio, la cifra sistemica di una normalità perennemente in bilico. Quasi un’inspiegabile e paradossale sfida alla stessa legge di gravità dell’umano.


 

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