martedì 3 novembre 2015

Somalia 1992-2015, come esportare la guerra perpetua

Il lettore ricorderà, forse, lo spettacolare sbarco notturno degli americani sulle coste della Somalia nel dicembre del 1992. I marines portavano occhiali a raggi infrarossi per poter vedere nel buio. Una cosa comica e grottesca perché agivano sotto i riflettori da 10.000 watt delle televisioni di mezzo mondo che erano state puntualmente avvertite dagli stessi comandi statunitensi. Quell’intervento aveva un duplice scopo. Il primo propagandistico: mostrare alla comunità internazionale che, dopo il collasso dell’Unione Sovietica, gli americani si proponevano come gli unici, veri, ‘gendarmi del mondo’, autorizzati a dividere, a nome di tutti, il Bene dal Male. Il secondo era, una volta tanto, puramente umanitario. Dopo la caduta del dittatore Siad Barre si era infatti scatenato nel Paese un conflitto sanguinoso fra i cosiddetti ‘signori della guerra’ somali per la conquista del potere. Una situazione assai simile a quella afgana dopo il ritiro delle truppe sovietiche. Si instaurava però un precedente pericoloso perché per la prima volta, almeno all’Ovest, si violava il principio di diritto internazionale della “non ingerenza militare straniera negli affari interni di uno Stato sovrano” che aveva fin lì garantito, bene o male, una certa pace nel mondo. Precedente che avrà in seguito una serie di applicazioni conseguenti, in Serbia nel 1999, in Afghanistan nel 2001, in Iraq nel 2003, in Libia nel 2011.
Gli americani non cavarono un ragno dal buco e dovettero andarsene con le pive nel sacco. I ‘signori della guerra’ furono sconfitti dagli Shabaab somali che riportarono il Paese alla sua unità e imposero l’ordine e la legge, sia pure una dura legge la Sharia, contro l’arbitrio. Ma questa situazione non poteva piacere agli occidentali e agli americani in particolare che nel 2006/2007 fecero intervenire la democratica Etiopia e imposero in Somalia il consueto governo fantoccio. Così nacque un secondo conflitto, ben più sanguinoso, fra gli Shabaab, una specie di ‘talebani africani’ come vengono infatti chiamati, e gli occupanti stranieri e i loro collaborazionisti. L’altro ieri c’è stato un attentato degli Shabaab all’albergo Sahafi di Mogadiscio frequentato da ufficiali del cosiddetto esercito regolare, che ha provocato 15 vittime e numerosi feriti. Ma non è che l’ultimo episodio di una guerra di guerriglia che va avanti da circa otto anni. 
Gli occidentali e gli americani in particolare avrebbero dovuto imparare in questi lunghi anni che non è bene violentare l’ecologia della guerra e andare a mettere il dito nelle guerre altrui perché si creano danni peggiori di quelli che si volevano evitare. Così è avvenuto in Afghanistan, così è avvenuto in Iraq, così è avvenuto in Libia e così stava avvenendo in Siria finché non ci si è resi conto che Bashar Assad era un pericolo molto minore dell’Isis che noi stessi avevamo creato prima con la guerra all’Iraq e poi, appunto, con l’appoggio agli insorti siriani. E adesso gli Shabaab, africani, non sono più una questione interna alla Somalia ma si sono uniti all’Isis che combatte in Medio Oriente e si sta estendendo un po’ ovunque (Egitto, Libia, Pakistan, lembi dell’Afghanistan, Thailandia).
Nel bel libro di Antonio Pennacchi ‘Canale Mussolini’ un membro adulto della famiglia Peruzzi, trasportata di forza dal Veneto nell’Agro Pontino per le bonifiche, spiega, condividendola in pieno, la logica fascista dell’Imperium per cui L’Italia aveva non solo il diritto ma il dovere di portare la civiltà agli abissini, usando, all’occorrenza, anche le armi chimiche (in quel caso l’iprite). Finché non salta su un marmocchio che dice: “Ma zio, ma non erano esseri umani anche loro? E non eravate voi, a casa sua di loro?”. Ecco, se avessimo abbandonato la logica puramente imperiale, e oserei dire fascista, dell’andare ad ogni momento “a casa sua di loro” e fossimo restati ‘a casa nostra, di noi’, a grattarci le nostre rogne, probabilmente non avremmo alimentato un incendio che oggi può travolgere tutti. Noi e ‘loro’.



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