Il
lettore ricorderà, forse, lo spettacolare sbarco notturno degli
americani sulle coste della Somalia nel dicembre del 1992. I marines
portavano occhiali a raggi infrarossi per poter vedere nel buio. Una
cosa comica e grottesca perché agivano sotto i riflettori da 10.000 watt
delle televisioni di mezzo mondo che erano state puntualmente avvertite
dagli stessi comandi statunitensi. Quell’intervento aveva un duplice
scopo. Il primo propagandistico: mostrare alla comunità internazionale
che, dopo il collasso dell’Unione Sovietica, gli americani si
proponevano come gli unici, veri, ‘gendarmi del mondo’, autorizzati a
dividere, a nome di tutti, il Bene dal Male. Il secondo era, una volta
tanto, puramente umanitario. Dopo la caduta del dittatore Siad Barre si
era infatti scatenato nel Paese un conflitto sanguinoso fra i cosiddetti
‘signori della guerra’ somali per la conquista del potere. Una
situazione assai simile a quella afgana dopo il ritiro delle truppe
sovietiche. Si instaurava però un precedente pericoloso perché per la
prima volta, almeno all’Ovest, si violava il principio di diritto
internazionale della “non ingerenza militare straniera negli affari
interni di uno Stato sovrano” che aveva fin lì garantito, bene o male,
una certa pace nel mondo. Precedente che avrà in seguito una serie di
applicazioni conseguenti, in Serbia nel 1999, in Afghanistan nel 2001,
in Iraq nel 2003, in Libia nel 2011.
Gli
americani non cavarono un ragno dal buco e dovettero andarsene con le
pive nel sacco. I ‘signori della guerra’ furono sconfitti dagli Shabaab
somali che riportarono il Paese alla sua unità e imposero l’ordine e la
legge, sia pure una dura legge la Sharia, contro l’arbitrio. Ma questa
situazione non poteva piacere agli occidentali e agli americani in
particolare che nel 2006/2007 fecero intervenire la democratica Etiopia e
imposero in Somalia il consueto governo fantoccio. Così nacque un
secondo conflitto, ben più sanguinoso, fra gli Shabaab, una specie di
‘talebani africani’ come vengono infatti chiamati, e gli occupanti
stranieri e i loro collaborazionisti. L’altro ieri c’è stato un
attentato degli Shabaab all’albergo Sahafi di Mogadiscio frequentato da
ufficiali del cosiddetto esercito regolare, che ha provocato 15 vittime e
numerosi feriti. Ma non è che l’ultimo episodio di una guerra di
guerriglia che va avanti da circa otto anni.
Gli
occidentali e gli americani in particolare avrebbero dovuto imparare in
questi lunghi anni che non è bene violentare l’ecologia della guerra e
andare a mettere il dito nelle guerre altrui perché si creano danni
peggiori di quelli che si volevano evitare. Così è avvenuto in
Afghanistan, così è avvenuto in Iraq, così è avvenuto in Libia e così
stava avvenendo in Siria finché non ci si è resi conto che Bashar Assad
era un pericolo molto minore dell’Isis che noi stessi avevamo creato
prima con la guerra all’Iraq e poi, appunto, con l’appoggio agli insorti
siriani. E adesso gli Shabaab, africani, non sono più una questione
interna alla Somalia ma si sono uniti all’Isis che combatte in Medio
Oriente e si sta estendendo un po’ ovunque (Egitto, Libia, Pakistan,
lembi dell’Afghanistan, Thailandia).
Nel
bel libro di Antonio Pennacchi ‘Canale Mussolini’ un membro adulto
della famiglia Peruzzi, trasportata di forza dal Veneto nell’Agro
Pontino per le bonifiche, spiega, condividendola in pieno, la logica
fascista dell’Imperium per cui L’Italia aveva non solo il diritto
ma il dovere di portare la civiltà agli abissini, usando,
all’occorrenza, anche le armi chimiche (in quel caso l’iprite). Finché
non salta su un marmocchio che dice: “Ma zio, ma non erano esseri umani
anche loro? E non eravate voi, a casa sua di loro?”. Ecco, se avessimo
abbandonato la logica puramente imperiale, e oserei dire fascista,
dell’andare ad ogni momento “a casa sua di loro” e fossimo restati ‘a
casa nostra, di noi’, a grattarci le nostre rogne, probabilmente non
avremmo alimentato un incendio che oggi può travolgere tutti. Noi e
‘loro’.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2015)
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