“Chi ha dato ai vincitori il diritto di giudicare i vinti?” Questa
domanda, formulata dal neoministro dell’Educazione giapponese, Masayuki
Fujio, ha scatenato furibonde e scandalizzate polemiche che dal Giappone
e dall’Asia sono rimbalzate negli Stati Uniti, in Urss, in Europa, in
Italia. La questione si riferisce infatti ai processi di Tokio e di
Norimberga che, quarant’anni fa, suggellarono la fine della seconda
guerra mondiale e con i quali, per la prima volta nella storia, i
vincitori giudicarono i vinti.
Che
una domanda in fondo così ovvia, quasi lapalissiana, susciti ancor oggi
tanto scandalo e aggressività dice forse qualcosa sulla cattiva
coscienza accumulata in questi quarant’anni dalle nazioni uscite
vincitrici dall’ultima guerra e da coloro che ne han fatto propri gli
interessi e le ideologie. Questa domanda infatti non è nuova, non nasce
oggi e non dovrebbe stupire. Dubbi sulla legittimità, giuridica e
morale, dei processi furono sollevati, e proprio da parte democratica,
fin dall’inizio, quando quei processi erano ancora in corso.
Scriveva,
per esempio, l’americano Rustem Vambery, docente di diritto penale, sul
settimanale “The Nation” del 1° dicembre 1945: “Che i capi nazisti e
fascisti debbano essere impiccati e fucilati dal potere politico e
militare, non c’è bisogno di dirlo; ma questo non ha niente a che vedere
con la legge… Giudici guidati da “sano sentimento popolare”,
introduzione del principio di retroattività, presunzione di reato
futuro, responsabilità collettiva di gruppi politici e razziali, rifiuto
di proteggere l’individuo dall’arbitrio dello Stato, ripristino della
vendetta tribale, tutti questi erano i punti salienti di quella che la
Germania di Hitler considerava legge. Chiunque conosca la storia del
diritto penale sa quanti secoli, quanti millenni, ci sono voluti perché
esattamente il contrario di questa storia e di questa prassi nazista
fosse universalmente riconosciuto come parte integrante del diritto e
della giustizia…Sfortunatamente i capi d’accusa formulati dal Tribunale
militare internazionale contro i principali criminali di guerra
ricordano, per certe caratteristiche, il diritto hitleriano…”.
E
Benedetto Croce, in un discorso tenuto all’Assemblea Costituente il 24
luglio 1947, affermava: “Segno inquietante di turbamento spirituale sono
ai giorni nostri (bisogna pure avere il coraggio di confessarlo) i
tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituito
per giudicare, condannare e impiccare, sotto nome di criminali di
guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la
diversa pratica, esente da ipocrisia, onde un tempo non si dava
quartiere ai vinti o ad alcuni di loro e se ne richiedeva la consegna
per metterli a morte, proseguendo e concludendo con ciò la guerra”.
Come
si vede non si contesta, allora come oggi, la potestà dei vincitori di
punire i vinti, come s’è sempre fatto da che mondo è mondo, ma di farlo
nelle forme del processo, della legge, del diritto. C’era in questa
pretesa inaudita (nel senso letterale: di cosa mai udita prima) tutta la
strisciante ipocrisia d’una cultura come quella americana e non per
nulla lo storico britannico A.J.P. Taylor ricordava le forti perplessità
degli inglesi (Churchill, nelle sue memorie, arriverà a dire a
proposito dell’uccisione di Mussolini: “Per lo meno, ci ha risparmiato
una Norimberga italiana…”) e come “gli americani, sulla questione dei
crimini di guerra della Germania, si dimostrarono molto più inflessibili
ed estremisti dei sovietici: il processo di Norimberga fu dunque una
creatura largamente americana”.
Ma,
come tutte le ipocrisie, non era innocente né priva di gravi
conseguenze. Sul piano del diritto infatti il processo ai vinti della
seconda guerra mondiale scardinava alcuni princìpi fondamentali di
civiltà giuridica, primo fra tutti quello della irretroattività della
legge penale per cui nessuno può essere punito per fatti che all’epoca
in cui furono commessi non erano considerati reati (tedeschi e
giapponesi furono giudicati per “cospirazione contro la pace”,
“attentati contro la pace e atti di aggressione”, “crimini di guerra”,
“crimini contro l’umanità”, tutti capi di imputazione che non
preesistevano al processo ma che furono creati con esso). In più, in tal
modo, si finiva per far coincidere il diritto con la forza, la forza
del vincitore. Che, come notava Vambery, era esattamente, anche se, si
presume, involontariamente, la stessa concezione del diritto che aveva
avuto il nazismo.
Ma
questioni giuridiche a parte, l’effetto a nostro parere più inquietante
e gravido di conseguenze storiche dei processi di Norimberga e di Tokio
fu quello di ingenerare un pericoloso equivoco: che i vincitori fossero
davvero migliori dei vinti nel momento in cui si chiudeva la guerra. Fa
una certa specie, per esempio, pensare che sullo scranno dei giurati, a
Norimberga, sedevano, per giudicare di “atti di aggressione”, i
rappresentanti di un paese, l’Urss, che aveva assalito e squartato, con
un attacco vilissimo e proditorio, concertato proprio con Hitler, la
Polonia e che era responsabile delle fosse di Katyn. Fa specie sapere
che, a quel processo su “crimini contro l’umanità”, fece la sua
apparizione, fra coloro che giudicavano, il sovietico Visinskij, il
pubblico ministero delle “purghe” di Mosca del 1936-37. Fa specie
ricordare che sui banchi dei giudici del processo di Tokio sedevano
rappresentanti del presidente americano Harry Truman che gettò la bomba
atomica su Hiroshima e Nagasaki, a guerra ormai finita, col Giappone in
ginocchio. E, come scriveva “The Guardian” il 1° ottobre del 1946, “non è
possibile che al mondo esterno –i neutrali e i futuri storici
spassionati- sentir parlare di nazismo imputato di “distruzioni
indiscriminate” senza ricordare Amburgo e Dresda”.
Tutto
ciò non toglie nulla, naturalmente, alla criminalità dei nazisti, di
Hitler, dei suoi seguaci, ma pone molti dubbi sul fatto che i vincitori
fossero, già allora, migliori dei vinti e sul loro diritto morale a
giudicarli. Ma il peggio è successo dopo ed è stato in qualche modo
legittimato proprio dai processi di Norimberga e di Tokio. Non si era
ancora spenta l’eco di quei processi, che secondo le intenzioni
avrebbero dovuto “escludere la guerra dalla vita della società”, che già
le truppe francesi soffocavano con l’atroce brutalità di sempre un
disperato tentativo del Madagascar di liberarsi delle manette coloniali.
Ciò, naturalmente, è nulla rispetto a quello che han fatto poi Usa e
Urss, le due vere, e sole, potenze uscite vincitrici dalla seconda
guerra mondiale.
In
quarant’anni Usa e Urss hanno messo a ferro e fuoco il Sud-Est
asiatico, usato il napalm e armi chimiche in Vietnam, combattuto guerre
in Medio Oriente per interposta persona e sulla pelle altrui,
“suicidato” Masaryk e Allende, schiacciato nel sangue la rivolta
ungherese, invaso la Cecoslovacchia e l’Afghanistan, umiliato la libertà
della Polonia, insidiato con le armi e i servizi segreti la sovranità
del Nicaragua e del Salvador, difeso e sostenuto i più feroci,
sanguinari e criminali dittatori salvo poi dismetterli, quando non più
presentabili, a suon di “golpe”, organizzato decine di colpi di Stato,
fomentato e guidato, attraverso il Kgb e la Cia, una buona fetta di
terrorismo internazionale e, infine, messo il loro tallone e accampato
le loro pretese egemoniche su ogni angolo, anche il più recondito, del
mondo.
Hitler
avrebbe saputo fare di più e di meglio? Può darsi, ma è solo
un’ipotesi. E con questa differenza: che per molti anni, e in una certa
misura ancora adesso, l’opinione pubblica mondiale ha potuto credere, in
buona fede, che Stati Uniti e Unione Sovietica fossero i paladini della
libertà o dell’uguaglianza, i difensori di altissimi valori, invece che
gli imperialismi spietati, totalitari e scientifici che sono, proprio
perché i processi di Norimberga e di Tokio avevano conferito loro quella
patente di superiorità morale che han dimostrato di non avere. Ecco
perché oggi, ancor più di ieri, i vincitori, e i loro intellettuali
reggicoda, si inalberano violentemente contro chiunque metta in dubbio
la validità dei processi di Norimberga e di Tokio: perché temono che sia
stracciato anche l’ultimo velo della loro legittimazione. Scriveva
ancora “The Guardian”, nel 1946: “Il processo di Norimberga apparirà
giusto o sbagliato nella storia a seconda del futuro comportamento delle
nazioni che ne sono responsabili”. Oggi, a quarant’anni di distanza, si
può dire che quei processi erano ingiusti, illegittimi, pericolosi e
alla domanda di Masayuki Fujio, “I vincitori hanno il diritto di
giudicare i vinti?”, si può rispondere, con molta amarezza ma con
tranquilla coscienza: no.