venerdì 8 gennaio 2016

J’étais Charlie



Mentre il governo francese ricorda i caduti della strage di Charlie Hebdo sbagliando il nome del vignettista Georges Wolinski (scritto con la y finale) e il settimanale satirico esce con un numero speciale sull’anniversario della mattanza islamista che si portò via giornalisti e disegnatori, possiamo tranquillamente dire che tutto è tornato come prima, a dispetto dei tromboni del “nulla sarà come prima”. “Ora siamo davvero soli”, dicono i sopravvissuti in redazione. Lo slogan “Je suis Charlie”, appena 365 giorni dopo, va già coniugato all’imperfetto, “J’étais Charlie”.
Tutta colpa, anzi merito della copertina disegnata da Laurent Sourisseau in arte Riss, che ritrae un vecchietto barbuto in sandali e tunica bianca insanguinata che fugge con tanto di triangolo occhiuto sul capo e mitra a tracolla: “Un anno dopo, l’assassino è ancora in fuga”. Il vegliardo è inequivocabilmente il dio di tutte le religioni, in nome (ma all’insaputa) del quale i suoi sedicenti fedeli hanno seminato per millenni, da quando esiste il mondo, guerre e stragi senza fine. Ma grande è la confusione sotto il cielo, e quasi nessuno ha capito la battuta. La Conferenza episcopale francese, così come il presidente del Consiglio francese del culto musulmano, l’hanno criticata a una sola voce come bestemmia. La stampa italiana ha registrato il doppio anatema come se fosse normale prendersela con una vignetta: ignorando la polemica, registrandola con indifferenza o addirittura schierandosi con i censori.
Libero ha riassunto bene la nuova tendenza con un titolo e un commento di rara stupidità: “Se sbagliano Dio noi non siamo più Charlie Hebdo”. Insomma, Riss “se la prende col Dio sbagliato”, ergo “ormai Charlie non è più Charlie” perchè in redazione se la fanno sotto e “optano per l’autocensura”: anziché sbertucciare Allah e Maometto, se la prendono col “Dio ebraico- cristiano”. Ora, a parte il fatto che nessuno sa che faccia abbia il Dio ebraico-cristiano (sempre ammesso che ne abbia una), a questi finissimi teologi sfugge che si tratta dello stesso Dio degli islamici: quello delle tre religioni monoteiste. Ma soprattutto sfugge il senso della battuta. I redattori di Charlie sono notoriamente atei e nessun ateo serio insulterebbe chi ritiene non esistere. Infatti non ce l’hanno con Dio ma con chi, nella loro visione, se l’è inventato per scopi più prosaici e inconfessabili: non pregare e osservare comandamenti, ma acquisire potere, reclutare adepti, fare soldi, scatenare guerre, perpetrare massacri.
I credenti – ebrei, cristiani o musulmani che siano – non condividono ovviamente l’idea che Dio sia un’invenzione. Ma non possono non condividere il fatto che, nella storia, ogni volta che la religione invase il campo della politica e si fece potere temporale, provocò guasti irreparabili in una catena di vendette e rappresaglie e revanscismi che non s’è ancora interrotta. E non parliamo solo delle guerre ebraiche immortalate dall’Antico Testamento, delle crociate cristiane del Medioevo e delle varie declinazioni del Jihad (guerra santa) nei tempi moderni e odierni. Fu un estremista ebraico, nel 1995, a uccidere il premier israeliano Rabin in nome (e all’insaputa) di Dio. E sono spesso fanatici cristiani a sparacchiare qua e là negli Stati Uniti e non solo lì.
Naturalmente non tutte le stragi della storia sono di matrice religiosa: pure la Rivoluzione francese, atea e illuminista, fece correre sangue a fiumi e Voltaire – campione della tolleranza – commerciava in schiavi, per non parlare dei crimini delle ideologie pagane del nazismo e del comunismo. Senza contare le miriadi di dittatori tutt’altro che religiosi che usano la religione come instrumentum regni. La via d’uscita, almeno per chi capisce le battute, è proprio quella indicata col linguaggio fulminante e urticante della satira dalla copertina di Charlie Hebdo: lasciare in pace Dio nelle faccende del mondo, cioè della politica. Che poi è il secondo comandamento del Decalogo, riconosciuto dalle tre religioni monoteiste: “Non nominare il nome di Dio invano”. Ed è anche la lezione di Gesù nel Vangelo di Marco, quando i farisei tentano di coglierlo in fallo e incastrarlo come eversore: “Maestro, è lecito pagare il tributo a Cesare?”. E lui: “Mostratemi un denaro: di chi è l’immagine e l’iscrizione?”. “Di Cesare”. “Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”.
Quella lezione si chiama laicità ed è valida tanto per gli atei quanto per i credenti di ogni religione: ciascuno è libero di credere in ciò che vuole, ma nessuno può imporre la sua religione (o il suo ateismo) agli altri. Ogni religione ha il sacrosanto diritto di predicare i propri princìpi, ma nessun governante è obbligato a seguirli nelle proprie scelte politiche, che devono perseguire l’interesse generale, cioè garantire a tutti eguali diritti e imporre a tutti eguali doveri. Oggi, numericamente, è la comunità musulmana la più allergica alla laicità, ma non è la sola: di bigotti, confessionali, nostalgici del potere temporale, è pieno anche il mondo occidentale che se ne ritiene immune. Basti pensare alle crociate di tanti cattolici (alcuni veri, altri presunti, altri finti) contro la fecondazione eterologa e addirittura contro l’idea di una legge che garantisca i diritti elementari alle coppie omosessuali. Non nel Medioevo: oggi, qui, in Italia. Spesso sono gli stessi che s’indignano con le teocrazie islamiche senz’accorgersi di sognarne una in casa nostra. Quelli che “Je suis Charlie” con la religione degli altri e ora non lo sono più per non mettersi in discussione.



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