Mentre il governo francese ricorda i caduti della strage di Charlie Hebdo sbagliando
il nome del vignettista Georges Wolinski (scritto con la y finale) e
il settimanale satirico esce con un numero speciale sull’anniversario della mattanza
islamista che si portò via giornalisti e disegnatori, possiamo tranquillamente
dire che tutto è tornato come prima, a dispetto dei tromboni del “nulla sarà
come prima”. “Ora siamo davvero soli”, dicono i sopravvissuti in redazione. Lo
slogan “Je suis Charlie”, appena 365 giorni dopo, va già coniugato all’imperfetto,
“J’étais Charlie”.
Tutta colpa, anzi merito della copertina disegnata da Laurent
Sourisseau in arte Riss, che ritrae un vecchietto barbuto in sandali e tunica bianca insanguinata che
fugge con tanto di triangolo occhiuto sul capo e mitra a tracolla:
“Un anno dopo, l’assassino è ancora in fuga”. Il vegliardo è inequivocabilmente
il dio di tutte le religioni, in nome (ma all’insaputa) del quale i suoi
sedicenti fedeli hanno seminato per millenni, da quando esiste il mondo, guerre
e stragi senza fine. Ma grande è la confusione sotto il cielo, e quasi nessuno
ha capito la battuta. La Conferenza episcopale francese, così come il
presidente del Consiglio francese del culto musulmano, l’hanno criticata a una
sola voce come bestemmia. La stampa italiana ha registrato il doppio anatema
come se fosse normale prendersela con una vignetta: ignorando la polemica,
registrandola con indifferenza o addirittura schierandosi con i censori.
Libero ha riassunto bene la nuova tendenza con un
titolo e un commento di rara stupidità: “Se sbagliano Dio noi non siamo più Charlie
Hebdo”. Insomma, Riss “se la prende col Dio sbagliato”, ergo “ormai Charlie non
è più Charlie” perchè in redazione se la fanno sotto e “optano per
l’autocensura”: anziché sbertucciare Allah e Maometto, se la prendono col “Dio
ebraico- cristiano”. Ora, a parte il fatto che nessuno sa che faccia abbia il
Dio ebraico-cristiano (sempre ammesso che ne abbia una), a questi finissimi
teologi sfugge che si tratta dello stesso Dio degli islamici: quello delle tre
religioni monoteiste. Ma soprattutto sfugge il senso della battuta. I redattori
di Charlie sono notoriamente atei e nessun ateo serio insulterebbe chi ritiene
non esistere. Infatti non ce l’hanno con Dio ma con chi, nella loro visione, se
l’è inventato per scopi più prosaici e inconfessabili: non pregare e osservare
comandamenti, ma acquisire potere, reclutare adepti, fare soldi, scatenare
guerre, perpetrare massacri.
I credenti – ebrei, cristiani o musulmani che siano –
non condividono ovviamente l’idea che Dio sia un’invenzione. Ma non possono non
condividere il fatto che, nella storia, ogni volta che la religione invase il
campo della politica e si fece potere temporale, provocò guasti irreparabili in
una catena di vendette e rappresaglie e revanscismi che non s’è ancora
interrotta. E non parliamo solo delle guerre ebraiche immortalate dall’Antico
Testamento, delle crociate cristiane del Medioevo e delle varie declinazioni
del Jihad (guerra santa) nei tempi moderni e odierni. Fu un estremista ebraico,
nel 1995, a uccidere il premier israeliano Rabin in nome (e all’insaputa) di
Dio. E sono spesso fanatici cristiani a sparacchiare qua e là negli Stati Uniti
e non solo lì.
Naturalmente non tutte le stragi della storia sono di
matrice religiosa: pure la Rivoluzione francese, atea e illuminista, fece
correre sangue a fiumi e Voltaire – campione della tolleranza – commerciava in
schiavi, per non parlare dei crimini delle ideologie pagane del nazismo e del comunismo.
Senza contare le miriadi di dittatori tutt’altro che religiosi che usano la
religione come instrumentum regni. La via d’uscita, almeno per chi capisce le
battute, è proprio quella indicata col linguaggio fulminante e urticante della
satira dalla copertina di Charlie Hebdo: lasciare in pace Dio nelle faccende
del mondo, cioè della politica. Che poi è il secondo comandamento del Decalogo,
riconosciuto dalle tre religioni monoteiste: “Non nominare il nome di Dio
invano”. Ed è anche la lezione di Gesù nel Vangelo di Marco, quando i farisei
tentano di coglierlo in fallo e incastrarlo come eversore: “Maestro, è lecito
pagare il tributo a Cesare?”. E lui: “Mostratemi un denaro: di chi è l’immagine
e l’iscrizione?”. “Di Cesare”. “Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a
Dio ciò che è di Dio”.
Quella lezione si chiama laicità ed è valida tanto per gli atei quanto per i credenti di
ogni religione: ciascuno è libero di credere in ciò che vuole, ma nessuno può
imporre la sua religione (o il suo ateismo) agli altri. Ogni religione ha il
sacrosanto diritto di predicare i propri princìpi, ma nessun governante è
obbligato a seguirli nelle proprie scelte politiche, che devono perseguire
l’interesse generale, cioè garantire a tutti eguali diritti e imporre a tutti
eguali doveri. Oggi, numericamente, è la comunità musulmana la più allergica
alla laicità, ma non è la sola: di bigotti,
confessionali, nostalgici del
potere temporale, è pieno anche il mondo occidentale che se ne ritiene immune.
Basti pensare alle crociate di tanti cattolici (alcuni veri, altri presunti,
altri finti) contro la fecondazione
eterologa e addirittura contro l’idea di una legge che garantisca i diritti elementari alle coppie omosessuali.
Non nel Medioevo: oggi, qui, in Italia. Spesso sono gli stessi che s’indignano
con le teocrazie islamiche senz’accorgersi di sognarne una in casa nostra.
Quelli che “Je suis Charlie” con la religione degli altri e ora non lo sono più
per non mettersi in discussione.
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