Sui media inglesi alcune madri di soldati uccisi in Afghanistan hanno
protestato ponendo la semplice e lineare domanda: “Per che cosa sono
morti i nostri figli?”. Gli inglesi, proporzionalmente al proprio
contingente, sono quelli che hanno avuto le maggiori perdite, circa 500
uomini, anche se il dato è approssimativo perché il governo britannico
come quello americano tende a nascondere le proprie perdite per non
alienarsi l’opinione pubblica e seppellisce i suoi soldati in tutta
fretta e senza tante cerimonie. Gli inglesi hanno avuto più morti (oltre
che qualche migliaio di feriti) perché sono gli unici ad aver
combattuto con un po’ di lealtà, soprattutto in Helmand dove i Talebani
sono padroni (in quella provincia è nato il Mullah Omar) non utilizzando
solo l’aviazione ma battendosi anche sul campo arginando così, almeno
in parte, il fenomeno per cui moltissimi afgani, che talebani non erano
affatto o addirittura gli erano stati acerrimi nemici, si sono uniti
alla resistenza. Perché per gli afgani, talebani o meno, guerrieri da
sempre, il nemico che non si presenta sul campo e non combatte a viso
aperto è oggetto del più profondo disprezzo (lo stesso ex presidente
Karzai, che pur era, come l’attuale, Ashraf Ghani, alle dirette
dipendenze del Dipartimento di Stato, rendendosi conto di quanto stava
succedendo, fu costretto a dire agli americani: “Ma combattete almeno un
po’ all’afgana!”). Che è poi una delle ragioni, e non la minore, per
cui gli americani pur così superiormente armati stanno perdendo la
guerra in Afghanistan, anche se si rifiutano di ammetterlo per ‘salvare
la faccia’ (“la guerra che non si può vincere”).
Noi italiani in Afghanistan abbiamo perso solo 54 uomini (uno dei
quali morto per conto suo, di malore) pochi per una guerra che dura da
14 anni, la più lunga in era moderna. Degli americani siamo alleati
fedeli, ma sleali, come spesso ci è capitato nella nostra storia. In
Afghanistan, nelle regioni più pericolose, ci siamo accordati con i
Talebani: loro ci lasciavano in pace, noi facevamo solo finta di
controllare il territorio lasciandoli agire indisturbati. Questa, al di
là delle scontate smentite ufficiali, è la pura verità. Lo dirà con
brutale franchezza il colonnello dei marines Tim Grattan: “Ora tocca
agli italiani fare la loro parte. Stringere patti con i comandanti
talebani è perdente. I nemici si combattono e basta”. Inoltre il grosso
delle nostre forze è schierato a Herat, feudo dell’antico ‘signore della
guerra’ Ismail Khan, che è stato a lungo nel governo di Karzai, che i
Talebani avevano cacciato dal Paese, insieme a Massud, Heckmatyar e
Dostum, e godono quindi della sua protezione.
Ciò non toglie che la domanda posta dalle madri inglesi rimanga
valida anche per noi, insieme, anche se in subordine, a quella che
riguarda i costi che, in una congiuntura economica sfavorevole,
affrontiamo per rimanere inutilmente in quel Paese. La missione Resolute
Support è quella che ci costa di più fra tutte quelle in cui siamo
impegnati e recentemente è stata rifinanziata per 78 milioni che coprono
solo gli ultimi tre mesi di quest’anno. Poi ci sarà da fare i conti del
2016 anche se la missione doveva terminare nel 2015, ma gli americani
ci hanno chiesto, o piuttosto ordinato, di rimanere per almeno altri due
anni. Il governo italiano, quatto quatto, ha deciso a metà ottobre
l’ulteriore finanziamento delle nostre missioni militari all’estero (fra
cui ce ne sono di altrettanto assurde, anche se minori, come in Mali)
compresa naturalmente quella in Afghanistan. Siccome quella in
Afghanistan non può essere gabellata in alcun modo come un’operazione di
‘peacekeeping’ (come, per esempio, è quella in Libano dove i
contingenti internazionali si interpongono fra due comunità che
altrimenti si massacrerebbero) ma è una guerra nel senso letterale del
termine ci sarebbe voluto almeno un voto del Parlamento visto che
l’articolo 11 della Costituzione dichiara solennemente: “L’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri
popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Invece tutto è passato come se nulla fosse. Alessandro Di Battista mi
dice che i 5Stelle hanno fatto opposizione. Nessuno se n’è accorto.
Eppure quella all’Afghanistan è una guerra di offesa, e non di difesa,
poiché l’Afghanistan non costituisce un pericolo né per noi né per i
nostri alleati. L’Afghanistan, talebano o no, non è mai uscito,
storicamente, dai propri confini e nessun attentato terrorista, in
Europa, negli Stati Uniti, in tutto l’Occidente può essere attribuito a
soggetti afgani, talebani o no.
Già l’invasione e l’occupazione dell’Afghanistan nel 2001 nasce da un
equivoco, più o meno voluto. Gli Stati Uniti colpiti dall’attentato
dell’11 settembre, rimessisi in piedi come un cowboy stordito da tanta
audacia, cercavano un capo espiatorio purchessia. E lo trovarono
facilmente nell’Afghanistan governato dai Talebani perché vi stazionava
Bin Laden. Ma i Talebani l’ambiguo Califfo saudita se lo erano trovati
in casa. Ce lo aveva portato il nobile Massud, dal Sudan, dove Bin Laden
aveva le sue basi, perché lo aiutasse a combattere un altro ‘signore
della guerra’, Heckmatyar. Di Bin Laden, che chiamava “un piccolo uomo”,
il Mullah Omar si sarebbe volentieri sbarazzato, tant’è che quando Bill
Clinton nel novembre/dicembre del 1998 gli propose di toglierlo di
mezzo Omar mandò a Washington il suo ministro degli Esteri, Wakil
Muttawakil, perché desse il suo assenso, sia pur a certe condizioni. Ma
Clinton, all’ultimo momento, si tirò indietro (Documenti del
Dipartimento di Stato). E dopo l’11 settembre mentre le folle arabe
scendevano in piazza per manifestare la loro gioia, l’Emirato islamico
d’Afghanistan mandò un messaggio di cordoglio al governo degli Stati
Uniti. Ma nel momento in cui il governo afgano-talebano era comunque
sotto il mirino degli americani, Bin Laden non faceva che sculare in
tutti i filmati possibili e immaginabili attribuendosi, sia pur sempre
indirettamente, la paternità di quell’attentato. Bell’amico, davvero.
In ogni caso se nel 2001 l’invasione dell’Afghanistan poteva avere
una parvenza di senso, oggi dopo 14 anni di occupazione non l’ha più. E
infatti gli olandesi se ne sono già andati nel 2011, ricevendo il
ringraziamento ufficiale dell’Emirato islamico d’Afghanistan l’unico
governo legittimo di un Paese dove la leadership si conquista non
attraverso la farsa delle urne ma avendo l’appoggio della maggioranza
della popolazione. Seguiti poi dai canadesi, dagli spagnoli e da altri.
In Afghanistan sono rimasti gli americani, gli inglesi, i tedeschi, gli
italiani e qualche frattaglia come l’Albania noto paese democratico. A
fare che?
Ma c’è di più. L’ultimo atto ufficiale del Mullah Omar è stata una
lettera aperta diretta ad Al Baghadi dove gli intimava di non
intromettersi nelle vicende afgane perché, diceva, la nostra è una
guerra di indipendenza nazionale che non ha nulla a che vedere con le
tue mire espansionistiche. Il Mullah Omar si ergeva quindi con i suoi
Talebani che pur sono in maggioranza sunniti (anche se nei sei anni del
governo di Omar la consistente minoranza sciita non è stata mai
discriminata) come bastione contro le mire dell’Isis che guarda, al di
là dell’Afghanistan, al Turkmenistan, all’Uzbekistan e anche al Pakistan
(Progetto Khorasan). Se l’Isis, come ora dicono tutti, ma come io
anticipai quando si chiamava ancora ‘Stato islamico dell’Iraq e del
Levante’, è il più grave pericolo per l’Occidente, i Talebani dovrebbero
essere considerati oggettivamente, anche se indirettamente, dei
preziosi alleati. Tanto è vero che i questi mesi, in questi giorni, in
queste ore ci sono furiosi combattimenti sul lungo confine
afgano-pachistano fra i Talebani e i guerriglieri di Al Baghdadi. Ma la
morte del Mullah Omar, che col suo prestigio, conquistato in un quarto
di secolo di lotta per l’indipendenza afgana, riusciva a tenere unito il
variegato mondo talebano, ha indebolito il movimento indipendentista.
Molti giovani afgani si sentono attratti dall’Isis che in un paio di
anni con i suoi metodi feroci ha conquistato un territorio vasto, mentre
Omar, utilizzando solo i mezzi della guerriglia classica (nessun
rapimento a scopo di estorsione, nessun video con prigionieri umiliati e
sgozzati ma al contrario trattati con rispetto) è riuscito in 14 anni
solo a riconquistare la pur vasta area rurale dell’Afghanistan. E i
guerriglieri di Al Baghdadi, meglio armati, meglio foraggiati, con
disponibilità di denaro quasi illimitate (nessuno, dico nessuno, ha mai
aiutato i Talebani) hanno già conquistato tre distretti dell’Afghanistan
e rischiano di dilagare.
E allora la domanda personale delle madri inglesi diventa politica:
che ci facciamo noi in Afghanistan, contro ogni legittimità contro ogni
morale e contro i nostri stessi interessi?
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2016)
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