martedì 5 gennaio 2016

Non una conclusione (perché è solo l’inizio)


Qui i veri ricchi sono i morti; poveri sono i vivi che li ricordano.
Strani pensieri mi assalgono mentre passeggio sotto un sole tropicale dentro il cimitero monumentale dell’Avana. Sterminato, imponente, maestoso come i cimiteri delle grandi capitali imperiali: viene in mente il Père Lachaise di Parigi.
Questo dell’Avana è deserto, vista la controra e la canicola implacabile.
A un certo punto, dall’ingresso principale alla chetichella sfilano alcune auto, ruderi scassati degli anni Cinquanta, un corteo funebre d’altri tempi. Visto il luogo, quelle carcasse di Cadillac di sessant’anni fa sembrano fantasmi venuti a ricongiungersi con i parenti. Mi sento in un romanzo di Gabriel García Márquez. Lo spettacolo sembra alludere a qualcosa che ci riguarda, come se da questa isola dei Caraibi emanasse un presagio del nostro destino.
Cuba vive abbarbicata come l’edera sugli splendori del passato. Fu la seconda isola dei Caraibi dove sbarcò Cristoforo Colombo nel 1492, e ne fu sedotto.
Nel suo diario di bordo, tenuto in spagnolo, scrisse: «Es la isla mas hermosa que ojos humanos hayan visto». Da quel momento in poi il destino di Cuba fu segnato. I colonizzatori spagnoli ne fecero uno degli scali più importanti per i galeoni che trasportavano oro e argento dalle Americhe. Di quella ricchezza restano le vestigia nel centro storico dell’Avana, dove i palazzi spagnoli sono di una raffinatezza rara. La fortuna dell’Avana, o la sua sciagura, proseguì quando, sul finire dell’Ottocento, all’impero spagnolo subentrò il neocolonialismo degli Stati Uniti.
All’epoca del proibizionismo, quando negli Usa la vendita di alcol era fuorilegge, l’Avana offriva ogni sorta di piaceri proibiti per i suoi nuovi padroni. I grandi latifondisti della canna da zucchero si mescolarono ai boss di Cosa Nostra come Sam Giancana, Lucky Luciano, Al Capone. Ernest Hemingway vi prese casa per vent’anni e scrisse qui Il vecchio e il mare. Ai fasti del barocco spagnolo si aggiunsero gli edifici stile Liberty decorati con mobili e vetrate Tiffany.
Di tutto quello splendore restano le vestigia macilente, in putrefazione, che aggiungono il fascino della decadenza. Pochi angoli del centro storico sono restaurati. La maggior parte dei palazzi antichi sono dei ruderi, spesso puntellati con precarie impalcature di legno, sovraffollati da abitanti poveri. Un popolo sull’orlo della miseria abita nei saloni diroccati della nobiltà.
Anche il cimitero è così. È un susseguirsi di lussuosi mausolei, tombe delle famiglie abbienti di una volta: si va dallo stile spagnolesco all’Art Nouveau.
Da fuori rimane un’apparenza di ricchezza antica, ma appena ti affacci a guardare l’interno dei mausolei, lo spettacolo è diverso: pavimenti sfondati, pareti scrostate, piastrelle sconnesse, intonaci crollati. Tutto è decrepito. Fa eccezione la tomba recente del grande musicista Ibrahim Ferrer, del Buena Vista Social Club: l’amore dei fan garantisce una manutenzione frequente e accurata.
Mi guida tra i morti un guardiano del cimitero, racconta le glorie passate, le ricchezze sfrenate, i lussi di un tempo che fu. Senza rimpianti, senza nostalgie, talmente quella storia gli sembra lontana. Eppure non lo è.
Quando passo davanti alle ultime tombe maestose costruite negli anni Cinquanta, alla vigilia della rivoluzione castrista, il calcolo è presto fatto: due generazioni soltanto separano questo regno dei morti ricchi dai cubani di oggi. Alcuni discendenti dei privilegiati del primo Novecento sono emigrati in Florida; ma vivono ancora qui altri nipoti o bisnipoti dei latifondisti, dei padroni del rum e dei bordelli, dei signori del narcotraffico di una volta. E se vengono al cimitero, rendono omaggio ai parenti che vissero in un mondo sfarzoso, opulento, che non tornerà. (Neanche, presumo, con la levata dell’embargo Usa.)
Ho il presentimento che questo cimitero mi voglia dire qualcosa. Quel rapporto rovesciato tra le ricchezze dei nonni e la povertà dei nipoti allude forse a quel che sta accadendo tra noi e i nostri figli.
La storia non va in un’unica direzione. Intere civiltà hanno conosciuto un apice e poi il declino, seguito da secoli di arretramento e di impoverimento: è accaduto all’impero romano e a quello spagnolo, ai maya e agli inca e a molti altri.
I cimiteri hanno tante storie da raccontarci, bisogna avere la pazienza di ascoltare, anche quando il sole picchia duro e nella luce accecante non vola una mosca.

Federico Rampini (Tratto da “L’Età del Caos” – 2015 – Mondadori Libri SpA)


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