sabato 6 febbraio 2016

La profezia di Vladimir Putin

Mille anni fa, in quella stessa nuvola d'incenso che da allora galleggia davanti agli altari della Santa Russia, entrò Vladimir il Sole. Per lui che aveva sul capo la corona del principe guerriero avevano preparato la spada e il fuoco, come sempre. Ma per la prima volta chiese anche la croce. La portarono, e Vladimir il Bello chinò la testa per sottomettersi al Dio dei cristiani, lui che a Kiev aveva 800 donne, dieci figli e tutti gli idoli delle tribù riuniti sul colle davanti alle finestre del suo palazzo.

Quegli idoli, Volos e Stribog, Chors e Dazborg, che prima della cerimonia furono gettati su ordine del principe nelle acque del Dniepr, per ultimo Mokos, il dio dell'amore. Così il vescovo di Kherson potè alzare la mano per benedire la conversione e Vladimir divenne il Santo, battezzandosi con tutta la Rus' nel nome di Cristo, 6 mila 496 anni dopo la creazione del mondo. Solo la statua di Perùn terribile, dio del fulmine e del tuono, non voleva affondare nel fiume sacro e mentre la colpivano coi bastoni riaffiorava minacciosa con la sua testa d'argento e i baffi d'oro, profezia infallibile degli anni tremendi che il nuovo Dio avrebbe vissuto nelle Russie.

Tutto è cominciato così. Cercando non la fede più vera, ma la più bella del mondo, Vladimir aveva inviato in vari Paesi i suoi messaggeri che riferirono a lui, ai boiardi e agli anziani riuniti: i bulgari stavano nel tempio senza cintura, seduti, i tedeschi non avevano nulla di grandioso da mostrare nei loro templi mentre a Costantinopoli e in Grecia lo spettacolo delle chiese era incomparabile, e nelle funzioni il cielo sembrava aprirsi per scendere in terra. Così le tribù slave lungo il corso del Dnepr, in quella Rus' delle origini, si convertirono entrando nel fiume, alcuni fino al petto, altri fino al collo, e prese il via quella "sinfonia" tra verità e bellezza, ma soprattutto tra temporale e spirituale che segna tutta la storia dell'ortodossia russa.

Mille anni dopo, esattamente il 20 aprile del 1988, la Russia che era diventata Unione Sovietica celebrò solennemente il Millennio, e per la prima volta il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie entrò al Cremlino insieme con i cinque metropoliti del Santo Sinodo, per essere ricevuto dal Segretario Generale del Pcus. Mikhail Gorbaciov riconosceva così che i credenti erano cittadini a pieno titolo, col diritto di professare la loro fede per cui erano stati perseguitati nei decenni del comunismo di Stato. Pimen il Patriarca ringraziò, ricordando che la Chiesa russa "aveva sempre lavorato per l'unità della nostra patria" e chiedendo la benedizione di Dio "per voi e per lo sforzo della perestrojka".

Non era certo la prima volta che la Chiesa russa invocava il suo Dio a sostegno del potere sovietico, fin da quando il Patriarca Alessio chiamò alla preghiera tutti i credenti in favore di Stalin ammalato, e dopo la morte organizzò una veglia religiosa in sua memoria. Ma la capacità di subordinarsi ai riti sovietici, col clero appesantito dalle medaglie all'Ordine della Bandiera Rossa, le invocazioni liturgiche di fiancheggiamento alle politiche dell'Urss mascherate dalle invocazioni per la "pace" e il "disarmo", non bastarono ad evitare la furia delle campagne antireligiose, anche negli anni dell'apparente disgelo, come quelli di Kruscev.

La vecchia Chiesa nata a Kiev con Vladimir, piegata già al potere dello Stato fin da Pietro il Grande, nell'Ottobre del 1917 contava 80 mila parrocchie con chiese e cappelle. Nel 1964 scendono a 10 mila, per arrivare due anni dopo a 7.500. In parallelo, crolla il numero dei preti, 30 mila nel 1959, appena 15 mila nel 1962. È l'anno in cui Kruscev profetizza lo sradicamento definitivo della religione entro due decenni, e fornisce anche la prova materiale del cielo vuoto di ogni divinità: "Avevamo sempre sentito i preti parlare del paradiso. Decidemmo dunque di rendercene conto noi stessi, mandando Gagarin e Titov nello spazio. Ebbene, non c'era niente lassù in alto".

Sulla terra, c'era l'anima russa insopprimibile, e di questa aveva confusamente paura il potere del Cremlino. Una religiosità per i lunghi decenni del sovietismo conservata nella cultura popolare, quella che spinge le donne anziane ad aspettare il pope in fondo alla chiesa per baciargli la mano, a mettersi in fila per lasciare al banco delle grazie il foglietto con la domanda d'intercessione, a tirar fuori dalle borse i mandarini sovietici e le uova per adornare i kulici, i dolci pasquali da benedire, ad accendere nel monastero Danilovski quei ceri rossi che costavano cinquanta copechi e che come ricorda Bulgakov non devono illuminare, ma solo ardere. Un popolo che porta nel cuore Dio e dunque basta salvaguardare il suo cuore, educandolo anche in silenzio, come garantiva Dostoevskij.

E nel silenzio materiale, fisico, pezzi di chiesa sono vissuti fino alla fine dell'impero, accettando quel taglio di radici sociali che porta la Chiesa a nutrirsi della sua sola tradizione, trasformandosi nell'icona di se stessa. L'ortodossia sperimentava nello splendore dei suoi riti l'equilibrio misterioso tra tradizione e la sottomissione, tra i fedeli e i sudditi, tra il Supremo e il Segretario Generale. Subiva le persecuzioni, vedeva circolare i 336 fascicoli di propaganda ateistica in 6 milioni di copie, contava 600 mila conferenze antireligiose in un solo anno, ma conservava la presenza della croce, come disse La Pira dopo aver visto i popi nelle chiese del 1959 a Mosca: "Se loro non tengono la candelina accesa adesso, quando una nuova generazione si accosterà dove andrà ad accendere il fuoco?".

Ma il Dio delle Russie non è arrivato soltanto dal Sud del mondo con l'ortodossia. C'è il Dio della Prima Roma, che ha vissuto di stenti nella Terza Roma, cioè Mosca. Bastava cercare la chiesa di San Luigi, parrocchia della capitale russa, ancora negli anni Ottanta per scoprire la sua vita irreale e fantasmatica: il sacrestano Ghenrich che come un uomo di catacomba accende il suo fiammifero ogni mattina alle 5,30 per chinarsi sul lucchetto e aprire il cancello della chiesa, il vecchio parroco Stanislao Mazhenka che scende dal filobus dieci minuti dopo e arriva a piedi portando in una cartella da scuola una tonaca antica come i suoi ottant'anni, le vecchie che sbucano ad una ad una dai loro sentieri misteriosi di fede. Poi alle 9,30 il lucchetto chiudeva di nuovo il cancello, fino al giorno dopo, perché la parrocchia di Mosca viveva quattro ore al giorno tra l'alba e il mattino e quando nevicava e tutti i segni sparivano nel cortile e sui gradini, sembrava che dentro la chiesa (in una città di dieci milioni di anime sovietiche) non fosse entrato nessuno da decenni.

Il punto più critico dei rapporti tra la Chiesa di Russia e la Chiesa di Roma era naturalmente quello degli uniati, i cattolici orientali che riconoscono l'autorità papale conservando il rito bizantino in Galizia, dove l'impero sovietico iniziava, o forse finiva. Quando Gorbaciov nel 1998 ha restituito agli uniati la cattedrale confiscata da Stalin, il vescovo di Leopoli, Andrei Sterniuk, non aveva nemmeno un semplice abito da prete per celebrare la funzione. Dal 1946, quando duemila sacerdoti furono arrestati di notte, settecento diventarono popi ortodossi e tutte le parrocchie dell'Unia furono decapitate, senza guida, non aveva più detto messa in una chiesa: il prete che era in lui - redemptorista - aveva dovuto mimetizzarsi in bibliotecario, boscaiolo, guardia forestale, ragioniere, autista di ambulanza, infermiere, assistente medico, dicendo messa di notte sulle pietre dei boschi. Il Kgb lo scoprì e lo mandò nel lager di Arkangheslshkoe, tra le foreste, perché prete di una chiesa che non doveva più esistere: in prigione diceva messa con un acino d'uva messo a fermentare tra la calce di una fessura nel muro, con una crosta di pane. Quando deve finalmente riprendere possesso della cattedrale, un monsignore canadese si sfila l'abito e glielo impresta, accorciandolo con gli spilli. Così a 83 anni padre Sterniuk si è vestito per la prima volta da prete e da vescovo insieme, per potersi inginocchiare finalmente alla luce del giorno davanti ad un altare vero della sua chiesa.

È stato un cristianesimo vero e insieme irreale, una sorta di prigionia babilonese, per una Chiesa stremata e insieme paradossalmente quasi appagata dal miracolo incomprensibile della sua sopravvivenza. Negli ultimi anni sovietici, gli anni del disfacimento, i fedeli sono aumentati, ma è aumentata anche la superstizione, il culto televisivo dei maghi, dei taumaturghi e dei prodigi, mentre le madonne sono comparse sui muri delle chiese chiuse d'Ucraina, circondate sempre da una forte chiarore, come nelle icone senza ombra. Era il segno della fine. Mosca oggi è una città libera per ogni fede ma convertita soltanto al consumo, dove resta immutabile, perfetto, il patto d'alleanza tra la chiesa ortodossa e il potere, tra le cupole dei monasteri e le torri del Cremlino, chiunque lo abiti.

Per Putin, l'insidia non viene più dalla fede del popolo che faceva tremare il Politbjuro, e nemmeno dalla Chiesa di Roma. Viene dalla profezia nascosta in quella lettera dell'ayatollah Khomeini all'ultimo Segretario Generale del Pcus: Eccellenza, è chiaro come il cristallo che l'Islam erediterà le Russie
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Ezio Mauro (La Repubblica -  6 febbraio 2015)


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