mercoledì 23 marzo 2016

I "coach aziendali" e Al Baghdadi

Parecchi anni fa un caro amico, un collega cui, quando eravamo all’Europeo avevo fatto, per così dire, un po’ di ‘educazione sentimentale’, perché ha sette anni meno di me e quando si è giovani certe differenze di età hanno il loro peso, mi invitò a una festa a casa sua. Lui, dopo l’Europeo, era diventato un giornalista importante e dirigeva un grande settimanale. Gli invitati erano quindi di un certo livello sociale. Gli uomini yuppie (siamo verso la fine degli anni Ottanta), le donne impellicciate e, spogliatesi di quell’ingombrante indumento non ancora messo definitivamente all’indice dagli animalisti, ingioiellate, griffate e insomma pistolate. Sapendo che avevo una collezione di vecchi ’45 giri’ il mio amico mi aveva chiesto di portarli per animare un po’ la festa. Facevo insomma il disc jockey inanellando sul bussolotto una decina di dischi (di più non ne conteneva, la tecnologia digitale era di là da venire) e poi li sostituivo con altri dieci, fra l’indifferenza generale. Siccome mi annoiavo a morte e non vedevo in giro nessuna ragazza interessante ad un certo punto tirai fuori di tasca un ‘centomila’ e dissi ad alta voce: “Questo è il premio per chi indovina il titolo della prossima canzone e chi la canta”. Il brusio cessò immediatamente. Gli uomini drizzarono le orecchie, che divennero appuntite come quelle delle volpi, e qualcuno si avvicinò cercando di sbirciare. Ma i ‘45’ girano veloci e nessuno indovinò. Era Forty days di Ronnie Hawkins, il rock più scatenato che mi sia mai stato dato di sentire, da far invidia al Little Richard di Lucille, a Jerry Lee Lewis per non parlare dell’imbrillantinato Elvis Presley che aveva un piede nei ’60, ma l’altro gli era rimasto nei ’50, nel melodico (Fame and fortune per esempio. Eppoi ‘Elvis the pelvis’? Ma ‘a mossa’ non era un’antica usanza delle donne e dei ragazzi napoletani?).
Recentemente ho conosciuto una donna che si occupa di ‘coaching aziendale’. Cosa sia il ‘coaching aziendale’ è difficile da spiegare a una persona che sia rimasta sana di mente. Sostanzialmente si tratta di questo: insegnare ai manager, già inseriti ad alto livello nella graduatoria aziendale e persino al mitico AD, come si fa il manager. I poveretti vengono aviotrasportati, in gruppo, in qualche posto esotico ma non pericoloso, poniamo Abu Dhabi o Dubai, e qui sodomizzati con i soliti ‘giochi di ruolo’, il domino, le biglie, le palline colorate e altre cose del genere. Ma la cosa più curiosa è un’altra. Si mette il manager davanti a un cavallo (non in groppa, davanti) e dalle reazioni che ha di fronte all’animale si valutano le sue capacità decisionali e di comando. Non credo che Al Baghdadi per conquistare la leadership abbia avuto bisogno di stare davanti a un cavallo, tutt’al più l’avrà montato o, più probabilmente, avrà estratto il kalashnikov al momento opportuno. “Kalashnikov! Kalashnikov!” è l’inno dedicato a quest’arma, l’arma di tutte le guerriglie moderne, dal serbo Goran Bregovic, l’autore delle colonne musicali di molti film di Kusturica a cominciare dallo splendido Papà è in viaggio d’affari ambientato nella Jugoslavia di Tito che fece il miracolo di tenere insieme tre comunità, serbi, croati, musulmani bosniaci, che si sono sempre detestate. Ah, la nostalgia della violenza, per noi costretti a vivere in democrazia e a sorbettarci oltre alle elezioni politiche, quelle amministrative, comunali, provinciali, regionali e adesso, per non farci mancar nulla, anche le ‘primarie’, angosciati dall’amletico dilemma se scegliere fra Giacchetti e Morassut, fra Bertolaso e il nulla, fra la Meloni e la Meloni, mentre dobbiamo assistere a grottesche polemiche sull’idoneità della donna a fare politica, mentre altrove, in culture diverse, quelle si fanno saltare per aria –anche questa è politica, sia pur non democratica- coraggiose quanto gli uomini, anzi forse di più perché la donna antropologicamente è colei che dà la vita e quindi la ama, mentre il maschio, fuco transeunte e malinconico, è animato da un oscuro istinto di morte.
Poche sere fa sono stato a cena da una mia amica. Bella casa borghese, con tutte le sue cosine a posto, i centrini, i comodini, i divanini, i quadrettini. Aiuto cuoco in cucina. Mancava solo la domestica in grembiule bianco, crestina e guanti bianchi. I commensali sembravano di una certa levatura culturale. Per un’ora e mezza hanno parlato solo di cibo. Ora, io non sono un asceta, pure a me piace mangiare, anche se preferisco bere, ma dopo un’ora e mezza di questa solfa sul cibo mi è venuto il voltastomaco. Anche pensando –ma sì, facciamo pure un po’ di retorica- a quanti, intorno a noi, cibo non hanno. Mi sono alzato, ho detto “vi lascio alla vostra ‘grande bouffe’ “ e me ne sono andato. Ma era troppo presto. Ho girovagato per qualche ora in una Milano spettrale, quella che ruota intorno alla piazza Gae Aulenti, ammiratissima per i suoi ‘boschi verticali’. Io sarò del pleistocene ma a me sembra che nei boschi ci si vada per passeggiare, non per guardare alberi impiccati a pareti di vetrocemento. Poi mi sono fatto portare alle Capannelle, l’unico ristorante che a Milano tiene aperto fino alle sette del mattino. Pare che sia una ‘grida’ del comune, forse di Pisapia, il sindaco che voleva impedire di sbocconcellare i coni gelato in strada, che impone ai ristoranti di chiudere entro le due (a Bari, oltre quell’ora, ci sono almeno quattro pizzerie aperte). Ma Le Capannelle, che non a caso sta vicino a San Vittore, ha delle regole tutte sue, fuorilegge. L’ora ideale per andarci è fra le tre e le quattro di notte. Vi si trova quel che resta della vecchia, cara, onesta ‘mala’ milanese, quella cantata dalla Vanoni, il cui ultimo epigono è stato Renato Vallanzasca, e la fauna inesausta degli inquieti, degli insonni, dei nottambuli, degli irregolari, dei senzadio. I gestori, come sempre accade in questi posti, come nei pochi baracchini ancora rimasti, hanno molto garbo e tratto. Perché bisogna essere abili per gestire una clientela non sempre raccomandabile.
Ma questo mondo popolano è ormai di nicchia. La maggioranza degli italiani fa parte, come ho cercato di raccontare, di un ceto che non saprei se definire piccolo o medio borghese, indifferente a tutto ciò che gli sta intorno tranne il denaro, eternamente basculante fra bulimia e diete nutrizioniste, fra ‘coaching aziendali’ e ‘personal trainer’, fra un orientalismo ridicolo e una totale mancanza di valori, molle, imbelle, svirilizzato. E mi è venuto da pensare che sia una fortuna che fra la Libia e noi ci sia di mezzo il mare (“quant’è profondo il mare”) quel mare che oggi tanto ci inquieta perché traghetta i migranti. Se Libia e Italia fossero unite dalla terraferma i guerrieri di Al Baghdadi ci metterebbero tre settimane per arrivare a Roma (il che, almeno per un po’ tempo, offrirebbe qualche vantaggio: spazzar via il Vaticano e Papa Francesco che non perde occasione per entrare coi piedi a martello negli affari interni dello Stato italiano -se si ha da essere una teocrazia, almeno lo si sia ufficialmente). Certo poi la risalita dell’Italia sarebbe più lenta, come lo fu per gli Alleati nel ‘44/45, ma sfondata la linea gotica e poi quella del Po gli uomini del Califfo si prenderebbero tutto il Nord e verrebbero fermati solo ai confini del Canton Ticino. Perché gli svizzeri saranno anche noiosi, ma le palle (Il formidabile esercito svizzero, John McPhee, Adelphi) almeno quelle, le hanno conservate.



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