martedì 31 maggio 2016

Referendum Costituzionale, Zagrebelsky: i 15 motivi per dire NO alla 'riforma' Renzi



In vista della consultazione popolare fissata a ottobre sulle modifiche alla Carta, il presidente emerito della Consulta elenca le ragioni per votare contro la deforma Renzi-Boschi e risponde alle obiezioni confezionate in questi mesi da chi è a favore.

di Gustavo Zagrebelsky, da il Fatto quotidiano  8 marzo 2016

"Nella campagna per il referendum costituzionale i fautori del Sì useranno alcuni slogan. Noi, i fautori del NO, risponderemo con argomenti. Loro diranno, ma noi diciamo. 

1. Diranno che “gli italiani” aspettano queste riforme da vent’anni (o trenta, o anche settanta, secondo l’estro)

Noi diciamo che da quando è stata approvata la Costituzione – democrazia e lavoro – c’è chi non l’ha mai accettata e, non avendola accettata, ha cercato in ogni modo, lecito e illecito, di cambiarla per imporre una qualche forma di regime autoritario. Chi ha un poco di memoria, ricorda i nomi Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, Giovanni Di Lorenzo, Junio Valerio Borghese, Licio Gelli, per non parlare di quella corrente antidemocratica nascosta che di tanto in tanto fa sentire la sua presenza nella politica italiana. A costoro devono affiancarsi, senza confonderli, coloro che negli anni hanno cercato di modificare la Costituzione spostandone il baricentro a favore del governo o del leader: commissioni bicamerali varie, “saggi” di Lorenzago, “saggi” del presidente, eccetera. È vero: vi sono tanti che da tanti anni aspettano e pensano che questa sia finalmente “la volta buona”. Ma questi non sono certo “gli italiani”, i quali del resto, nella maggioranza che si è espressa nel referendum di dieci anni fa, hanno respinto col referendum un analogo tentativo, il tentativo che, più di tutti gli altri sembrava vicino al raggiungimento dello scopo. A coloro che vogliono parlare “per gli italiani”, diciamo: parlate per voi. 

2. Diranno che “ce lo chiede l’Europa” (…)

Diteci che cosa rappresenta l’Europa di oggi se non principalmente il tentativo di garantire equilibri economico-finanziari del Continente per venire incontro alla “fiducia degli investitori” e a proteggerli dalle scosse che vengono dal mercato mondiale. A questo fine, l’Europa ha bisogno d’istituzioni statali che eseguano con disciplina i Diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5 agosto 2011 al “caro primo ministro”, contenente un vero e proprio programma di governo ultra-liberista, in materia economico-sociale, associato all’invito di darsi istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità.
Dite: “Ce lo chiede l’Europa” e tacete della famosa lettera Draghi-Trichet, parallela ad analoghi documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica, esecutivi forti e parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese. (…) A chi dice: ce lo chiede l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è l’Europa alla quale volete dare risposte?

3. Diranno che le riforme servono alla “governabilità” (..)

“Governabile” è chi si lascia docilmente governare e chiediamo: chi si deve lasciar governare e da chi? Noi pensiamo che occorra “governo”, non governabilità, e che governo, in democrazia, presupponga idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno. In assenza, la democrazia degenera in linguaggio demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia della rassegnazione, e dell’abulia: materia passiva, irresponsabile e facile alla manipolazione. Questa è la governabilità. A chi dice “governabilità” noi rispondiamo: partecipazione e governo democratico. 

4. Diranno: ma la riforma è pur stata approvata dal Parlamento, l’organo della democrazia

Ma noi diciamo: quale Parlamento? Il Parlamento illegittimo, eletto con una legge elettorale obbrobriosa, dichiarata incostituzionale, per l’appunto, per essere antidemocratica (deputati e senatori nominati e non eletti; premio di maggioranza abnorme che ha scollato gli eletti dagli elettori). La Corte costituzionale ha bollato quell’elezione come una specie di golpe elettorale, per avere “rotto il rapporto di rappresentanza” (testuale). È vero che la Corte aggiunse che, per l’esigenza di continuità costituzionale, le Camere così elette non sarebbero decadute immediatamente.
Ma è chiaro a tutti coloro che hanno ancora un’idea seppur minima di democrazia che da quella sentenza si sarebbe dovuto procedere tempestivamente, per mezzo d’una nuova legge elettorale conforme alla Costituzione, a nuove elezioni, per ristabilire il rapporto di rappresentanza. (…) È vero che, scandalosamente, anche da parte delle più alte autorità della Repubblica, dell’informazione e da parte di non poca “dottrina” costituzionalistica, si fa finta che non esista una questione di legittimità che getta un’ombra su tutta questa vicenda, tanto più in quanto, se non vi fosse stato l’incostituzionale premio di maggioranza, sarebbero mancati i numeri necessari per portarla a compimento. (…) 

5. Parleranno di atto d’orgoglio politico dei parlamentari, finalmente capaci di “autoriformarsi” senza guardare al proprio interesse

Queste riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di quello che, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione (minacce di scioglimento, di epurazione, sostituzione dei dissenzienti, bollati come dissidenti), di forzature (strozzamento delle discussioni parlamentari, caducazione di emendamenti), di trasformismo parlamentare (passaggi dall’opposizione alla maggioranza in cambio di favori e posti) fino ai voti di fiducia, come se la Costituzione e le istituzioni fossero materia appartenente al governo, fino a raggiungere il colmo: la questione di fiducia posta addirittura agli elettori, sull’approvazione referendaria della riforma (o me o la riforma, sempre che voglia prendere sul serio un simile proclama da parte di uno che non eccede in coerenza ed eccede invece in spregiudicatezza). Questo non è il primato della politica, ma delle minacce e degli allettamenti. Se volete parlare di politica, noi diciamo: sì, ma sapendo che è mala politica. 

6. S’inorgogliranno chiamandosi “governo costituente”

Noi diciamo che il “governo costituente”, in democrazia, è un’espressione ambigua. Sono i governi dei caudillos e dei colonnelli sud-americani, quelli che, preso il potere, si danno la propria costituzione: costituzione non come patto sociale e garanzia di convivenza ma come strumento, armatura del proprio potere. Il popolo e la sua rappresentanza, in democrazia, possono essere “costituenti”. I governi, poiché sono espressione non di tutta la politica, ma solo d’una parte, devono stare sotto la Costituzione, non sopra come credono invece di stare d’essere i nostri riformatori che si fanno forti dello slogan “abbiamo i numeri”, come se avere i numeri, comunque racimolati, equivalga all’autorizzazione a fare quel che si vuole. (…) 

7. Diranno che l’iniziativa del governo nelle faccende costituzionali non ha nulla d’anormale e, quelli che sanno, porteranno l’esempio della Francia, del generale De Gaulle e della sua riforma costituzionale del 1962.

Noi ci limitiamo a porre queste domande: credete davvero d’essere dei nuovi De Gaulle, il capo della Resistenza repubblicana che sbarca in Normandia al momento della liberazione? E di poter paragonare l’Italia di oggi alla Francia d’allora? La riforma francese aveva alla sua base le idee costituzionali enunciate “disinteressatamente” nel 1946 a Bayeux, guardando lontano e radicandosi nel passato della storia della Repubblica francese. Noi abbiamo invece testi raffazzonati all’ultima ora, la cui approvazione si è resa possibile per equivoci compromessi concettuali e lessicali, proprio sul punto centrale della riforma del Senato. (…) 

8. Diranno che, anche ad ammettere che la riforma abbia avuto una genesi non democratica e un iter parlamentare telecomandato nei tempi e nei contenuti, alla fine la democrazia trionferà nel referendum confermativo.

Noi diciamo che la riforma forse sottoposta al giudizio degli elettori porta il segno della sua origine tecnocratica unilaterale e che il referendum richiesto dallo stesso governo che l’ha voluta lo trasformerà in un plebiscito. Non si tratterà di un giudizio su una Costituzione destinata a valere negli anni, ma di un voto su un governo temporaneamente in carica. (…) Avremo una campagna referendaria in cui il governo avrà una presenza battente, come se si trattasse d’una qualunque campagna elettorale a favore di una parte politica, e farà valere il “plusvalore” che assiste sempre coloro che dispongono del potere, complice anche un’informazione ormai quasi completamente allineata.

9. Diranno che non c’è da fare tante storie, perché, in fondo si tratta d’una riforma essenzialmente tecnica, rivolta a razionalizzare i percorsi decisionali e a renderli più spediti ed efficienti
 
Noi diciamo: altro che tecnica! È la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide democratica. Le decisioni politiche, da tempo, si elaborano dall’alto, in sedi riservate e poco trasparenti, e vengono imposte per linee discendenti sui cittadini e sul Parlamento, considerato un intralcio e perciò umiliato in tutte le occasioni che contano. La democrazia partecipativa è stata sostituita da un sistema opposto di oligarchia riservata. (…) Le “riforme” costituzionali sono in realtà adeguamenti della Costituzione a questa realtà oligarchica. Poiché siamo per la democrazia, e non per l’oligarchia, siamo contrari a questo adeguamento spacciato come riforma. 

10. Diranno che i partiti di sinistra, già al tempo della Costituente, avevano criticato il bicameralismo (cuore della riforma) e che perfino Pietro Ingrao, ancora negli anni 80, si espresse per l’abolizione del Senato

Noi diciamo: andate a leggere i resoconti di quei dibatti e vi renderete conto che si trattava, allora, di semplificare le istituzioni parlamentari per dare più forza alla rappresentanza democratica e fare del Parlamento il centro della vita politica (si parlava di “centralità del Parlamento”). La visione era quella della democrazia partecipativa o, nel linguaggio di Ingrao, della “democrazia di massa”. Oggi è tutto il contrario: si tratta di consolidare il primato dell’esecutivo emarginando la rappresentanza, in quanto portatrice di autonome istanze democratiche. (…) 

11. Diranno che siamo come i ciechi conservatori che hanno paura del nuovo, anzi del “futuro-che-è-oggi”, e sono paralizzati dal timore dell’ “uomo forte”

Noi diciamo che a noi non interessano “riforme” che riforme non sono, ma sono “consolidazioni” dell’esistente: un esistente che non ci piace affatto perché portatore di disgregazione costituzionale e di latenti istinti autoritari. Questi istinti non si manifestano necessariamente attraverso l’uso esplicito della forza da parte di un “uomo forte”. Questo accadeva in altri, più primitivi tempi. Oggi, si tratta piuttosto dell’occupazione dei posti strategici dell’economia, della politica e della cultura che forma l’ideologia egemonica del momento. Questo è ciò che sta accadendo manifestamente e solo chi chiude gli occhi e vuole non vedere, può vivere tranquillo. Si tratta, per portare a compimento questo disegno, di eliminare o abbassare gli ostacoli (pluralismo istituzionale, organi di controllo e di garanzia) che frenano il libero dispiegarsi del potere che si coagula negli organi esecutivi. Non occorre eliminarli, ma normalizzarli, ugualizzarli, standardizzarli, il che significa l’opposto del far opera costituente.

12. Diranno che siamo per l’immobilismo, cioè che difendiamo l’indifendibile: una condizione della politica che non ha mai toccato un punto così basso in tutta la storia repubblicana, mentre loro vogliono rianimarla e rinnovarla

Noi opponiamo una classica domanda alla quale i riformatori costantemente sfuggono: sono più importanti le istituzioni o coloro che operano nelle istituzioni? La risposta, che sta non solo in venerandi scritti sulla politica e sulla democrazia – che i nostri riformatori, con tranquilla e beata innocenza mostrano d’ignorare completamente – ma anche nelle lezioni della storia, è la seguente: istituzioni imperfette possono funzionare soddisfacentemente se sono in mano a una classe politica degna e consapevole del compito di governo che è loro affidato, mentre la più perfetta delle costituzioni è destinata a funzionare malissimo in mano a una classe politica incapace, corrotta, inadeguata. Per questo noi diciamo: non accollate a una Costituzione le colpe che sono vostre. (…)

13. Diranno: non ve ne va bene una; la vostra è una opposizione preconcetta. Non siete d’accordo nemmeno sull’abolizione del Cnel e la riduzione dei “costi della politica”?

Noi diciamo: qualcosa c’è di ovvio, su cui voteremmo pure sì, ma è mescolato, come argomento-specchietto, per far passare il resto presso un’opinione pubblica orientata anti-politicamente. A parte il Cnel, che in effetti s’è dimostrato in questi anni una scatola quasi vuota, la riduzione dei costi della politica avrebbe potuto essere perseguito in diversi altri modi: riduzione drastica del numero dei deputati, perfino abolizione pura e semplice del Senato in un contesto di garanzie ed equilibri costituzionali efficaci. Non è stato così.
Si è voluto poter disporre d’un argomento demagogico che trova alimento nella lunga tradizione antiparlamentare che ha sempre alimentato il qualunquismo nostrano.
Avere unificato in un unico voto referendario tanti argomenti tanto diversi (forma di governo e autonomie regionali) è un abile trucco costituzionalmente scorretto, che impedisce di votare sì su quelle parti della riforma che, prese per sé e in sé, risultassero eventualmente condivisibili. Voi dite di voler combattere l’antipolitica, ma proprio voi ne esprimete l’essenza. (…)

14. Diranno: come è possibile disconoscere il serio lavoro fatto da numerosi esperti, a incominciare dai “saggi” del presidente della Repubblica, passando per la Commissione governativa, per le tante audizioni parlamentari di distinti costituzionalisti, fino ad approdare al Parlamento e al ministro competente per le riforme costituzionali. Tutto ciò non è per voi garanzia sufficiente d’un lavoro tecnicamente ben fatto? (…)

Le questioni costituzionali non sono mai solo tecniche. A ogni modifica della collocazione delle competenze e delle procedure corrisponde una diversa allocazione del potere. Nella specie, ciò che si sta realizzando, per l’effetto congiunto della legge elettorale e della riforma costituzionale, è l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’esecutivo; l’esecutivo, un organo che, non essendo “eletto”, potrà derivare dall’iniziativa del presidente della Repubblica che, dall’alto, potrà manovrare – come è avvenuto – per ottenere la fiducia della Camera.
Quanto poi alla bontà del testo di riforma dal punto di vista tecnico, ci limitiamo a questo esempio, la definizione delle competenze legislative da esercitare insieme dalla Camera e dal Senato (sì, il Senato rimane, il bicameralismo anche e, se la seconda Camera non si arenerà su un binario morto, i suoi rapporti con la prima Camera daranno luogo a numerosi conflitti): “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per (sic!) le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’art. 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella (?) che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore e di cui all’art. 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116 terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”.
Se questo pasticcio è il prodotto dei “tecnici”, noi diciamo che hanno trattato la Costituzione come una legge finanziaria o, meglio, come un Decreto milleproroghe qualunque: sono infatti formulati così. Quanto ai contenuti, come possono i “tecnici” non aver colto le contraddizioni dell’art. 5, noto perché su di esso si è prodotta una differenziazione nella maggioranza, poi rientrata. Riguarda la composizione del Senato e non si capisce se i senatori rappresenteranno le Regioni in quanto enti, i gruppi consiliari oppure le popolazioni; non si capisce poi se saranno effettivamente scelti dagli elettori o dai Consigli regionali. Saranno eletti – si scrive – dai Consigli regionali “In conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”. Ma, se queste scelte saranno vincolanti, non ci sarà elezione ma, al più ratifica; se non saranno vincolanti, come si può parlare di “conformità”.
Un pasticcio dell’ultima ora che darà filo da torcere a che dovrà darne attuazione: parallele convergenti, quadratura del cerchio… Agli autorevoli fautori di norme come queste, citate qui a modo d’esempio chiediamo sommessamente: dite con parole vostre e con parole chiare che cosa avete voluto. (…) Questi tecnici non hanno dato il meglio di sé, forse perché hanno dovuto nascondere nell’oscurità l’assenza di chiarezza che ha regnato nella testa di coloro che hanno dato loro il mandato di scrivere queste norme. Loro non lo diranno, ma lo diciamo noi. Nella confusione, una cosa è chiara: l’accentramento a favore dello Stato a danno delle Regioni e, nello Stato, a favore dell’esecutivo a danno dei cittadini e della loro rappresentanza parlamentare. Orbene, noi della Costituzione abbiamo un’idea diversa: patto solenne che unisce un popolo sovrano che così sceglie come stare insieme in società. “Unisce”? Questa riforma non unisce ma divide. Non è una costituzione, ma una s-costituzione. “Popolo sovrano”?
Dov’è oggi svanita la sovranità, quella sovranità che l’art. 1 della Costituzione pone nel popolo e che l’art. 11 autorizza bensì a “limitare”, ma precisando le condizioni (la pace e la giustizia tra le Nazioni) e vietando che sia dismessa e trasferita presso poteri opachi e irresponsabili? È superfluo ripetere quello che da tutte le parti si riconosce: per molte ragioni, il popolo sovrano è stato spodestato. Se manca la sovranità, cioè la libertà di decidere da noi della nostra libertà, quella che chiamiamo costituzione non più è tale.
Sarà, al più, uno strumento di governo di cui chi è al potere si serve finché è utile e che si mette da parte quando non serve più. La prassi è lì a dimostrare che proprio questo è stato l’atteggiamento sfacciatamente strumentale degli ultimi anni: la Costituzione non è stata sopra, ma sotto la politica e perciò è stata forzata e disattesa innumerevoli volte nel silenzio compiacente della politica, della stampa, della scienza costituzionale. Ora, la riforma non è altro che la codificazione di questa perdita di sovranità. Apparentemente, la vicenda che stiamo vivendo è una nostra vicenda. In realtà, chi la conduce lo fa in nome nostro ma, invero, per conto d’altri che già hanno fatto il bello e il cattivo tempo nei Paesi economicamente, politicamente e socialmente più deboli e s’apprestano a continuare. Per questo, chiedono governi che non abbiano da dipendere dai parlamenti e, ove sia il caso, dispongano di strumenti per mettere i parlamenti, rappresentativi dei cittadini, nelle condizioni di non nuocere.
Seguiamo questa concatenazione: la Costituzione è espressione della sovranità; se manca la sovranità, non c’è costituzione. La Costituzione e il Diritto costituzionale, con la sedicente riforma costituzionale, s’avviano a mantenere il nome, ma a perdere la cosa. L’impegno per il No al referendum ha, nel profondo, questo significato: opporsi alla perdita della nostra sovranità, difendere la nostra libertà. Post scriptum: C’è poi ancora un altro argomento che, per la sua stupidità, abbiamo esitato a inserire nella lista di quelli meritevoli d’essere presi in considerazione. È già stato usato ed è destinato a essere ripetuto in misura proporzionale alla sua insensatezza. Per questo, non lo ignoriamo semplicemente, come forse meriterebbe, ma lo collochiamo alla fine, a parte.

15. Diranno: sarà divertente vedere dalla stessa parte un Brunetta e uno Zagrebelsky

Noi diciamo: non fate torto alla vostra intelligenza. Come non capire che si può essere in disaccordo, anche in disaccordo profondo, sulle politiche d’ogni giorno, ma concordare sulle regole costituzionali che devono garantire il corretto confronto tra le posizioni, cioè sulla democrazia? In verità, chi pensa di vedere in questa concordanza un motivo di divertimento, e non una seria ragione per dubitare circa il valore dei cambiamenti costituzionali in atto, non fa che confessare candidamente un suo retro-pensiero. Questo: che tra una Costituzione e una legge qualunque non c’è nessuna differenza essenziale; che, quindi, se sei in disaccordo politico con qualcuno, non puoi essere in accordo costituzionale con lui, perché tutto è politica e nulla è costituzione. A noi, questo, non sembra un modo di pensare rassicurante."

(8 marzo 2016)

Amministrative, M5S unica alternativa al renzismo



Tra una settimana si vota. Per coloro che hanno un animo propenso alla servitù volontaria, come già mezzo millennio fa la definiva Etienne de la Boetie, la scelta è semplice: mettere la x sui candidati sindaci di Renzi.
Chi alla servitù volontaria è invece refrattario, e incapace di restare indifferente alla resistibile ascesa dell'ex sindaco di Firenze (che fece di Publiacqua, ora sotto accusa per i lungarno che sprofondano, uno dei suoi feudi, dove ebbe inizio tra l'altro la carriera pubblica della Boschi), filiazione e sintesi di Bettino Craxi e Silvio Berlusconi, con cui una Nuova Cricca (e più giovani lustrini) sta sostituendo la vecchia dell'inciucio per finire di spolpare a forza di privatizzazioni e infeudamenti politici un ex Paese chiamato Italia, ha di fronte a sè una scelta obbligata: votare per i candidati del M5S, quali che siano gli innumerevoli difetti di ciascuno di loro e le colpe del movimento in quanto tale e dei suoi vertici, che MicroMega ha sempre segnalato senza sconti e minimizzazioni.
Perchè a Roma e a Torino si gioca la prima partita decisiva (la seconda sarà al referendum di ottobre) tra la colonizzazione schiacciasassi delle istituzioni da parte della Nuova Cricca o la possibilità che si riaprano gli spazi di un rinnovamento civile che consenta all'Italia di congedarsi dal ventennio che non passa, nella cui morta gora Renzi vuole radicare e affondare il paese. 
Gli ingenui che vorranno ascoltare le sfiatate sirene di promesse elettorali accattivanti dei cloni renziani nelle città, si accomodino pure, evitino però di raccontare favole belle  alle ermioni delle rispettive coscienze: i programmi dei partiti di establishment sono scritti sull'acqua peggio dei sospiri d'amore di Lesbia per Catullo, mentre la forza che Renzi trarrà da ogni singolo voto dato ai suoi cloni e altri Giachetti propizierà il progetto con cui la lugubre progressione Craxi>Berlusconi> di azzeramento della balance of power e dell'autonomia di magistratura, giornalismo, cultura e associazioni della società civile (il tessuto di reciproche limitazioni che resta l'humus irrinunciabile della democrazia) arriverà a compimento.
Roma e Torino sono gli scontri più importanti: per il significato ovvio del risultato nella capitale, e perchè a Torino verrebbe sconfitto il renziano che sembra imbattibile, che ancora qualche mese fa era certo di essere confermato al primo turno, e che rappresenta nel modo più tronfio e arrogante la continuità con la quintessenza dell'inciucismo che Renzi vuole solo declinare in modo nuovo: gli apparati del professionismo politico in simbioso con l'affarismo dei poteri finanziari. Ma ovviamente è auspicabile che a Napoli al ballottaggio vadano il candidato M5S e De Magistris, e che l'alternativa democratica al renzismo prevalga ovunque sia presente.
Milano sarà un tristissimo caso anomalo: tutti i sondaggi indicano che al ballottaggio andranno due candidati identici e di una identica destra, Parisi e Sala. Un democratico, dopo aver votato al primo turno per il M5S o per Basilio Rizzo, non avrà cosa scegliere. Anche se tra padella e brace gli stessi sondaggi indicano un ovvio spostamento a vantaggio dell'originale Parisi a scapito della fotocopia Sala.

Paolo Flores d'Arcais (Micromega - 8 maggio 2016)

venerdì 27 maggio 2016

Bravo Pannella, che diffidò sempre dei partiti


Nei giorni della lunga agonia di Marco Pannella mi è tornato in mente il pamphlet di Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, ripubblicato in Italia nel 2012 non a caso in forma semiclandestina dall’editore Castelvecchi. In questo libro si possono leggere affermazioni come queste: “l’idea di partito non rientrava nella concezione politica francese del 1789, se non come quella di un male da evitare”, “quando in un Paese esistono i partiti, ne risulta prima o poi uno stato delle cose tale che diventa impossibile intervenire efficacemente negli affari pubblici senza entrare a far parte di un partito e stare al gioco”, “lo spirito di partito è arrivato a contaminare ogni cosa”, “la soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro”. La Weil riteneva che il solo e il vero fine di un partito è l’autopotenziamento proprio e dei suoi adepti. Nella prefazione del libro della Weil André Breton riferisce come Albert Camus (riferendosi ovviamente alla democrazia francese del dopoguerra) “vedesse nella non-appartenenza a un qualunque genere di partito la prima garanzia che dovrebbe essere fornita da tutti coloro che, attraverso un largo e appassionato scambio di idee e punti di vista, ritengono sia ancora possibile aspettarsi un rimedio al male odierno”.
La battaglia contro la partitocrazia ha avuto in Italia anche altri protagonisti come il giurista Giuseppe Maranini e addirittura, nel 1960 l’allora Presidente del Senato Cesare Merzagora che in un durissimo discorso in Parlamento tuonò contro la crescente invadenza dei partiti in ogni settore della vita pubblica e anche privata, ma solo Marco Pannella, a mio modo di vedere, è stato l’interprete, sia pur a modo suo, del pensiero radicale di Simon Weil. Cercò di affermare le idee superando i partiti (e infatti fu sempre ostile alla trasformazione dei Radicali in partito e quando il movimento da lui fondato raggiunse il consenso record dell’8 per cento sembrò dolersene più che gioirne) ma servendosi di essi di volta in volta, con molta disinvoltura perché le idee e non i partiti avessero il sopravvento.
La Weil, Albert Camus, André Breton possono essere ascritti all’area di pensiero della sinistra radicale, ma la questione dei partiti come elemento degenerativo della democrazia e anzi come la sua stessa negazione (in sintesi: i partiti non sono l’essenza della democrazia ma la sua fine) fu affrontata, in modo ben più sistematico, già ai primi del Novecento dalla cosiddetta scuola elitista italiana, vale a dire Vilfredo Pareto, Roberto Michels, Gaetano Mosca, ritenuta di destra. Scrive Mosca ne La classe politica: “Cento che agiscano sempre di concerto e di intesa gli uni con gli altri trionferanno sempre su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo fra loro”. Il voto del cittadino singolo, libero, non intruppato in gruppi, si diversifica e si disperde, proprio perché libero, laddove gli apparati dei partiti, facendo blocco, o addirittura il loro leader, sono quelli che effettivamente decidono chi deve essere eletto. Il voto di opinione, cioè il voto veramente libero, non ha alcun peso rispetto al voto organizzato. Così l’uomo libero, che per convinzione o temperamento non vuole assoggettarsi a umilianti infeudamenti ai partiti, e che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia altrettanto ideale, ne diventa invece la vittima designata contradicendo i principi della Rivoluzione francese come ricordava Simon Weil nel suo pamphlet.
Ma non c’è stato niente da fare. Nel corso degli ultimi due secoli i partiti hanno preso il sopravvento e il pensiero liberale che voleva valorizzare capacità, meriti, potenzialità del singolo è stato tradito a favore delle lobbies di cui i partiti sono la principale incarnazione. Questo processo è avvenuto in tutte le democrazie occidentali ma è particolarmente evidente e scandaloso in Italia dove i partiti si sono impadroniti di tutte le Istituzioni (Presidenza della Repubblica, governo, parlamento, consiglieri regionali, provinciali, comunali, sindaci) delle aziende di Stato e del parastato finendo per lottizzare tutto, dai vigili urbani ai netturbini.
Poco importa che oggi il Pd sia magna pars di questa spartizione, la questione è di sistema. Prendiamo la Rai che è l’esempio più emblematico ma anche quello forse più comprensibile al lettore. La Rai è un ente pubblico che, in quanto tale, dovrebbe appartenere a tutti i cittadini. Invece non c’è direttore di rete, direttore di telegiornale, giornalista e nemmeno usciere che non sia al posto che occupa in virtù del legame con un partito (non è necessario avere una tessera, questo lo fanno solo gli sprovveduti, perché tutto avviene con accordi sottobanco). In Rai c’è una Commissione di Vigilanza che dovrebbe, appunto, vigilare sulla equa distribuzione delle libere opinioni. Ma da chi è composta la Commissione di Vigilanza? Da rappresentanti dei partiti. Cioè i controllati sono anche i controllori.
Ma Rai a parte tutto o quasi il settore dell’informazione, anche quella privata, vitale in una democrazia, vive sotto il tallone, a volte di ferro, a volte in modo più soft, dei partiti. Il grottesco e anche patetico caso della sostituzione alla direzione di Libero di Maurizio Belpietro con Vittorio Feltri è dovuto all’interesse dei proprietari, gli Angelucci, a legarsi a Denis Verdini a sua volta legato al Presidente del Consiglio, Matteo Renzi. La stessa sorda lotta per assicurarsi la proprietà del Corriere della Sera non è una lotta per impadronirsi di quote di mercato e trarne profitto, ma per compiacere i politici in questo momento dominanti.
In questa situazione torna l’eterna e cernysevskijana e leniniana domanda: che fare? Con il proprio voto ai partiti i cittadini non riusciranno mai a liberarsi della loro invadenza perché i partiti non rinunceranno mai a ridurre il loro potere, dato che, come dice ancora la Weil, il loro fine primo se non anche ultimo è quello di costantemente autopotenziarsi. Ci vorrebbe una rivolta sociale. Ma gli italiani sono troppo deboli, fiacchi o rassegnati per una soluzione del genere. E così continueremo in questa agonia in saecula saeculorum.