Nei giorni della lunga agonia di Marco Pannella mi è tornato in mente il pamphlet di Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, ripubblicato in Italia nel 2012 non a caso in forma semiclandestina dall’editore Castelvecchi. In questo libro si possono leggere affermazioni come queste: “l’idea di partito non rientrava nella concezione politica francese del 1789, se non come quella di un male da evitare”, “quando in un Paese esistono i partiti, ne risulta prima o poi uno stato delle cose tale che diventa impossibile intervenire efficacemente negli affari pubblici senza entrare a far parte di un partito e stare al gioco”, “lo spirito di partito è arrivato a contaminare ogni cosa”, “la soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro”. La Weil riteneva che il solo e il vero fine di un partito è l’autopotenziamento proprio e dei suoi adepti. Nella prefazione del libro della Weil André Breton riferisce come Albert Camus (riferendosi ovviamente alla democrazia francese del dopoguerra) “vedesse nella non-appartenenza a un qualunque genere di partito la prima garanzia che dovrebbe essere fornita da tutti coloro che, attraverso un largo e appassionato scambio di idee e punti di vista, ritengono sia ancora possibile aspettarsi un rimedio al male odierno”.
La
battaglia contro la partitocrazia ha avuto in Italia anche altri
protagonisti come il giurista Giuseppe Maranini e addirittura, nel 1960
l’allora Presidente del Senato Cesare Merzagora che in un durissimo
discorso in Parlamento tuonò contro la crescente invadenza dei partiti
in ogni settore della vita pubblica e anche privata, ma solo Marco
Pannella, a mio modo di vedere, è stato l’interprete, sia pur a modo
suo, del pensiero radicale di Simon Weil. Cercò di affermare le idee
superando i partiti (e infatti fu sempre ostile alla trasformazione dei
Radicali in partito e quando il movimento da lui fondato raggiunse il
consenso record dell’8 per cento sembrò dolersene più che gioirne) ma
servendosi di essi di volta in volta, con molta disinvoltura perché le
idee e non i partiti avessero il sopravvento.
La
Weil, Albert Camus, André Breton possono essere ascritti all’area di
pensiero della sinistra radicale, ma la questione dei partiti come
elemento degenerativo della democrazia e anzi come la sua stessa
negazione (in sintesi: i partiti non sono l’essenza della democrazia ma
la sua fine) fu affrontata, in modo ben più sistematico, già ai primi
del Novecento dalla cosiddetta scuola elitista italiana, vale a dire
Vilfredo Pareto, Roberto Michels, Gaetano Mosca, ritenuta di destra.
Scrive Mosca ne La classe politica:
“Cento che agiscano sempre di concerto e di intesa gli uni con gli
altri trionferanno sempre su mille presi uno a uno che non avranno alcun
accordo fra loro”. Il voto del cittadino singolo, libero, non
intruppato in gruppi, si diversifica e si disperde, proprio perché
libero, laddove gli apparati dei partiti, facendo blocco, o addirittura
il loro leader, sono quelli che effettivamente decidono chi deve essere
eletto. Il voto di opinione, cioè il voto veramente libero, non ha alcun
peso rispetto al voto organizzato. Così l’uomo libero, che per
convinzione o temperamento non vuole assoggettarsi a umilianti
infeudamenti ai partiti, e che sarebbe il cittadino ideale di una
democrazia altrettanto ideale, ne diventa invece la vittima designata
contradicendo i principi della Rivoluzione francese come ricordava Simon
Weil nel suo pamphlet.
Ma
non c’è stato niente da fare. Nel corso degli ultimi due secoli i
partiti hanno preso il sopravvento e il pensiero liberale che voleva
valorizzare capacità, meriti, potenzialità del singolo è stato tradito a
favore delle lobbies di cui i partiti sono la principale incarnazione.
Questo processo è avvenuto in tutte le democrazie occidentali ma è
particolarmente evidente e scandaloso in Italia dove i partiti si sono
impadroniti di tutte le Istituzioni (Presidenza della Repubblica,
governo, parlamento, consiglieri regionali, provinciali, comunali,
sindaci) delle aziende di Stato e del parastato finendo per lottizzare
tutto, dai vigili urbani ai netturbini.
Poco importa che oggi il Pd sia magna pars
di questa spartizione, la questione è di sistema. Prendiamo la Rai che è
l’esempio più emblematico ma anche quello forse più comprensibile al
lettore. La Rai è un ente pubblico che, in quanto tale, dovrebbe
appartenere a tutti i cittadini. Invece non c’è direttore di rete,
direttore di telegiornale, giornalista e nemmeno usciere che non sia al
posto che occupa in virtù del legame con un partito (non è necessario
avere una tessera, questo lo fanno solo gli sprovveduti, perché tutto
avviene con accordi sottobanco). In Rai c’è una Commissione di Vigilanza
che dovrebbe, appunto, vigilare sulla equa distribuzione delle libere
opinioni. Ma da chi è composta la Commissione di Vigilanza? Da
rappresentanti dei partiti. Cioè i controllati sono anche i controllori.
Ma
Rai a parte tutto o quasi il settore dell’informazione, anche quella
privata, vitale in una democrazia, vive sotto il tallone, a volte di
ferro, a volte in modo più soft, dei partiti. Il grottesco e anche
patetico caso della sostituzione alla direzione di Libero
di Maurizio Belpietro con Vittorio Feltri è dovuto all’interesse dei
proprietari, gli Angelucci, a legarsi a Denis Verdini a sua volta legato
al Presidente del Consiglio, Matteo Renzi. La stessa sorda lotta per
assicurarsi la proprietà del Corriere della Sera
non è una lotta per impadronirsi di quote di mercato e trarne profitto,
ma per compiacere i politici in questo momento dominanti.
In
questa situazione torna l’eterna e cernysevskijana e leniniana domanda:
che fare? Con il proprio voto ai partiti i cittadini non riusciranno
mai a liberarsi della loro invadenza perché i partiti non rinunceranno
mai a ridurre il loro potere, dato che, come dice ancora la Weil, il
loro fine primo se non anche ultimo è quello di costantemente
autopotenziarsi. Ci vorrebbe una rivolta sociale. Ma gli italiani sono
troppo deboli, fiacchi o rassegnati per una soluzione del genere. E così
continueremo in questa agonia in saecula saeculorum.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 22 maggio 2016)
Questa mi mancava..
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