Oggi si celebra la Festa del lavoro. E dei
lavoratori. Ma i lavoratori - e, in generale, gli italiani - non sembrano
trovare grandi motivi per festeggiare. O meglio, vorrebbero. Secondo il
sondaggio condotto dall'Osservatorio di Demos-Coop negli ultimi giorni, quasi 7
persone su 10 (nel campione intervistato) ritengono che abbia senso celebrare
questa giornata. Ma, in effetti, questo sentimento sembra suggerito da
nostalgia più che da speranza.
Contrariamente alle
indicazioni fornite dalle statistiche dell'Istat e rilanciate dal premier
Renzi, una larga maggioranza della popolazione (intervistata) non crede alla
ripresa. Oltre 7 persone su 10 pensano che non sia vero. Che l'occupazione non
sia ripartita. Solo l'8%, invece, ritiene che il Jobs Act abbia funzionato.
Mentre, secondo la maggioranza (40%), è ancora presto per vederne i risultati.
Ma oltre 3 persone su 10 sono convinte che abbia perfino "peggiorato la
situazione". Le uniche "forme" di impiego effettivamente
aumentate sarebbero, infatti, quelle "informali". Il lavoro nero e
quello precario. Così, infatti, la pensa circa il 70% degli italiani
(intervistati da Demos-Coop). I quali non vedono grandi cambiamenti nel futuro.
Poco più di 2 persone su 10 (per la precisione: il 23%), infatti, contano che
la loro situazione lavorativa possa migliorare, nei prossimi anni. Solo cinque
anni fa questa sorta di "speranza di vita" - lavorativa - era
coltivata da una componente molto più estesa: il 36%.
LE TABELLE
È un segno evidente
dell'incertezza che agita la nostra società, il nostro tempo. Non solo nel
lavoro. Due italiani su tre, infatti, ritengono inutile, oggi, affrontare
progetti impegnativi, perché il futuro è troppo incerto e rischioso. Così,
meglio concentrarsi sul presente. Cercando stabilità. Radicamento. Per questo,
il lavoro preferito è il "posto pubblico". Celebrato, con ironia e
realismo, da Checco Zalone, nel suo ultimo film (di grande successo) intitolato
"Quo vado?". "Posto pubblico", infatti, nel linguaggio e
nel discorso corrente, coincide con "posto fisso". Solo alcuni anni
fa, invece, l'occupazione preferita era il lavoro autonomo, da libero
professionista. Oggi non più. O meglio, non si vede "un" lavoro
preferito. Impiego pubblico, lavoro autonomo e da libero professionista, nel
sondaggio di Demos-Coop sono guardati con interesse, ciascuno, da circa il 20%
degli intervistati. Con una preferenza per l'attività professionale fra i
giovanissimi (15-24 anni) e per l'impiego pubblico fra le persone adulte, ma
anche fra i "giovani adulti" (25-34 anni).
C'è, dunque, un'evidente tensione
fra domanda di stabilità e di autorealizzazione professionale. La domanda di
stabilità appare chiara nel riferimento alla famiglia, come principale istituto
di tutela. La famiglia. Assai più del sindacato e delle associazioni di
categoria. Ma anche dello Stato e degli enti locali. La famiglia. È vista come
difesa e sostegno: per chi ha un lavoro, stabile oppure atipico. Ma anche come
un faro, per chi naviga nel mercato del lavoro, senza aver trovato una
direzione definita e definitiva. In particolare, per i giovani e i
giovanissimi. Le componenti maggiormente interessate - e penalizzate -
dall'occupazione precaria. E, soprattutto, dalla disoccupazione. I giovani e i
giovanissimi, infatti, sembrano destinati, a una posizione sociale peggiore
rispetto ai loro genitori. Così la pensano, almeno, i due terzi degli italiani
(intervistati da Demos-Coop). E il 73% della popolazione ritiene che i giovani,
per fare carriera se ne debbano andare all'estero. Un'opinione diffusa da
tempo, ma mai come oggi, se cinque anni fa, nel 2011, era condivisa dal 56%.
Dunque, la maggioranza degli italiani, Eppure: 17 punti meno di oggi. I giovani
e i giovanissimi: una "generazione altrove". Segno (e minaccia) di
una società - la nostra - senza futuro. Che non ha pensato e organizzato un
futuro. Per i propri giovani e, dunque, per se stessa. D'altronde, circa l'85%
degli italiani, cioè quasi tutti, condividono l'avvertimento - o meglio: la
minaccia - dell'INPS. La generazione del 1980 andrà in pensione a 75 anni. Se
non più tardi.
Così i dati di questo sondaggio
trovano un senso, comunque, una convergenza. Intorno all'incertezza generata
dall'eclissi, se non dalla scomparsa, del futuro. Un futuro senza sicurezza
(sociale), senza pensione, peraltro, rende più im- portante, anzi, necessaria,
la famiglia. Polo di solidarietà intergenerazionale. Che tiene uniti genitori,
figli. E nonni. Offre ai giovani, soprattutto, un sostegno nel percorso
precario fra studio e lavoro. Che si sviluppa senza più confini. L'idea che i
giovani, per realizzarsi a livello professionale, e prima ancora negli studi,
debbano trasferirsi all'estero, si è, infatti, tradotta, da tempo, in
un'esperienza di massa. E viene guardata con preoccupazione dagli adulti e
ancor più dagli anziani. Dai genitori e dai nonni. Non certo dai figli e dai
nipoti. Dai giovani e dai giovanissimi. I quali sono biograficamente una
generazione "nomade". Migranti, anch'essi. Non per fuggire dalle
guerre e dalla povertà. Non per costrizione e per necessità. Ma, ormai, per
"vocazione".
E ciò spiega perché i giovani
mostrino minore preoccupazione verso i flussi migratori. (Come ha dimostrato il
recente Sondaggio 2015 di Demos-Fondazione Unipolis per l'Osservatorio sulla
Sicurezza in Europa.) Sono globalizzati, di fatto. Mentre i genitori e la
famiglia, garantiscono loro un riferimento sicuro. Un posto dove tornare. Per
poi partire di nuovo. Anche per questo, i giovani hanno meno paura della
disoccupazione e della precarietà, rispetto alle generazioni più anziane. Anche
se ne sono particolarmente colpiti. E appaiono meno preoccupati dei tempi
dell'età pensionabile, che si allungano.
I giovani. Non hanno
"nostalgia" del futuro. Perché il futuro è davanti a loro. Mentre gli
adulti e gli anziani il futuro ce l'hanno alle spalle.
Ilvo Diamanti (La Repubblica - 1 maggio 2016)
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