Se Roma è lo
"stress test" che misura la capacità di governo del Movimento 5
Stelle, i segnali che arrivano dalla Capitale non sono confortanti per il
Paese. Diciamo la verità, nessuno poteva pretendere che la giunta guidata da
Virginia Raggi, in poco più di un mese, potesse ripulire la città eterna di
tutti i suoi atavici mali: mafia e monnezza, buche e pantegane. Ma allo stesso
modo nessuno poteva immaginare che il Campidoglio pentastellato, dopo appena
settanta giorni, facesse saltare cinque poltrone in un colpo solo. E non
poltrone qualsiasi. Un capo di gabinetto, i tre manager che guidano Atac e Ama
(le due municipalizzate più disastrate d'Italia) e soprattutto un
super-assessore al Bilancio che era il vero (e forse unico) fiore all'occhiello
di questa giunta: quel Marcello Minenna, trasferito a forza dalla Consob, che
aveva in mano il portafoglio e il patrimonio di Roma, gravato da un debito
monstre di quasi 13 miliardi. Un fatto grave. Anche al di là delle ovvie
invettive del Pd, che farebbe bene a non maramaldeggiare troppo sulla Capitale,
visto che ha allegramente e colpevolmente contribuito a ridurla com'è.
Ma se persino
Paola Taverna parla di "perdita gigante", vuol dire che qualche
ingranaggio più "strutturale", nella macchina del potere
pentastellato, si è rotto davvero. E se non piangessimo i morti di un terremoto
vero, che ha distrutto vite e destini, dovremmo parlare di un sisma politico,
che squassa il movimento e apre una faglia profonda proprio nel luogo simbolo
in cui Grillo tenta di dimostrare quello che, finora, rimane indimostrabile e
indimostrato: e cioè che il Movimento, elaborato il lutto di Gianroberto Casaleggio,
è ormai entrato nell'età adulta, ed è ormai pronto a guidare l'Italia.
Purtroppo, per un Paese ormai "tripolare" che avrebbe un urgente
bisogno di alternative politiche tutte ugualmente credibili e spendibili, le
cose non stanno affatto così. L'alternativa non esiste più a destra, perché tra
le macerie del berlusconismo si vedono avanzare solo fantasmi. Ma non esiste
ancora nei 5 Stelle, perché tra le "anime" del grillismo si vedono
crescere solo miasmi. Cosa è successo, infatti, a Roma? E perché queste cinque
dimissioni in un solo giorno sono inquietanti? Per due ragioni di fondo.
La prima
ragione è di merito. Questa "rottura" multipla, che indebolisce
drammaticamente una squadra già di per sé non eccelsa (almeno rispetto alle
attese), non avviene su temi concreti, che riguardano la vita di tutti i giorni
di quattro milioni di cittadini. Raineri o Minenna non se ne vanno perché non
c'è accordo con la Raggi o con gli altri assessori su come risolvere il
problema dei rifiuti, o su come rendere più efficiente il trasporto urbano, o
sui lavori che sarebbero necessari se si accettasse la candidatura alle
Olimpiadi. Dal poco che trapela dalle "segrete stanze" del Movimento
(e già questa formula obbligata ne tradisce la vocazione originaria), i due
dimissionari pagano una "crisi di rigetto" che, fin dalla vittoria
elettorale alle amministrative di giugno, sta avvelenando l'organismo
pentastellato. È in corso, dicono, un regolamento di conti: da una parte c'è la
sindaca e i suoi fedelissimi, sempre più chiusi dentro al "raggio
magico", dall'altra ci sono gli "esterni" e i
"tecnici", sempre più esclusi e scontenti. Perché litigano? I
cittadini romani, e noi tutti, vorremmo saperlo.
E invece non
lo sappiamo. Perché nessuno spiega niente. E quello che vediamo e abbiamo visto
finora non è un dibattito serrato e concreto su come si abbatte il debito, su
come si riduce l'addizionale Irpef, su come si migliora il decoro urbano, ma
l'ennesima, estenuante querelle sulle nomine e sugli stipendi degli
amministratori. Come avrebbero fatto i dorotei o i craxiani di una volta. E
com'era già successo agli stessi parlamentari grillini dopo il successo
elettorale del 2013, quando sprecarono il primo anno a Montecitorio non a
illustrare agli italiani come si finanzia davvero il reddito di cittadinanza,
ma a sbranarsi tra loro sugli scontrini e le ricevute del ristorante.
E qui emerge
la seconda ragione, che invece è di metodo. I Cinquestelle hanno avuto un
merito oggettivo: hanno cambiato i modi e i tempi della comunicazione politica,
anche attraverso l'uso "orizzontale" della Rete. Ora, quello che è
appena accaduto nella Capitale ha una portata politica evidente. E dunque
dovrebbe essere raccontato con assoluta chiarezza all'opinione pubblica. Non
può bastare un post sulla pagina Facebook della sindaca, pubblicato alle
quattro del mattino, in cui la Raggi si limita a dare una lettura banalmente
burocratica delle dimissioni del suo capo di gabinetto, senza dire nulla di
quelle del super assessore al Bilancio. Salvo poi parlare del dovere della
"trasparenza".
Gestito
così, il Campidoglio non è una casa di vetro. Diventa una corte di Bisanzio. Un
concentrato di veleni e di arcana imperii di cui nessuno sa e capisce nulla.
Una guerriglia sotterranea tra un maxi e un mini direttorio, un conflitto
permanente tra correnti palesi e occulte, che in qualche caso fanno rimpiangere
i partiti vecchi e rissosi della Prima Repubblica.
Dov'è finita
la "diversità" pentastellata? Dove sono finite
l'"innocenza" e la "purezza" del Movimento, il "non
partito" con il "non statuto", che nasce e cresce dal basso e
che in virtù dei sacri principi fondativi ("uno vale uno", "i
leader non esistono") rivoluziona la politica e rifonda la democrazia? Per
adesso, il "grillismo reale" precipita in un vortice di
impreparazione e di presunzione. Si avvita in una spirale di velleitarismi e di
personalismi. Ribellarsi alle élite è giusto.
E il
Movimento, con i suoi quasi 9 milioni di elettori alle politiche del 2013, ha
dato corpo esattamente a questa legittima istanza di "ribellione
democratica". Ma governare è un'altra cosa. Luigi Di Maio e Alessandro Di
Battista lo sanno bene. Quando in gioco c'è non solo il Campidoglio, ma in
prospettiva addirittura Palazzo Chigi, il motto "meglio inesperti che
disonesti", per quanto rassicurante, non può più bastare.
Massimo
Giannini (La Repubblica, 2 settembre 2016)
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