Era tutto
sbagliato. E, di conseguenza, tutto da rifare. I contenuti, la comunicazione,
l’agenda delle priorità. La lista degli amici, alcuni di loro diventati una
zavorra, e quella dei nemici. E un po’, perfino, l’unica cosa che nella vita
davvero non si può modificare: il carattere.
Cambiare
tutto. Una metamorfosi lungamente preparata. Non è una decisione che Matteo
Renzi ha preso il 24 agosto, quando il suo elicottero è atterrato ad Amatrice
poche ore dopo il disastroso terremoto. E neppure nei giorni successivi, nel
mezzo della palestra di Ascoli o sotto il tendone di Amatrice, tra uomini in
lacrime, volontari, preti, suore, bambini, bare.
Il segno più
evidente di quei giorni è che il premier ha smesso di fare battute, in pubblico
e in privato, può sembrare una cosa scontata soltanto a chi non lo conosce.
Anche il vertice italo-tedesco di Maranello con Angela Merkel è stato meno
roboante del previsto. Ma la svolta non è maturata nelle ore del dolore. Il
terremoto è una crepa simbolica tra una fase del suo governo e un’altra. Perché
l’unica new town in vista nei piani del premier non sarà costruita nei prossimi
mesi tra Amatrice e Arquata, ma nel cuore della Roma politica. Al vecchio
Renzi, crollato nell’immagine e nel consenso, in crisi di risultati, stretto
tra il “rischio zero” degli eventi sismici, che ovviamente non si può
pretendere, e la “crescita zero” del Prodotto interno lordo, che rappresenta un
risveglio rispetto alle previsioni ben più speranzose del documento di economia
e finanza del governo, va sostituito un nuovo Renzi. Il Rottamatore deve
lasciare il posto al Ricostruttore. Delle aree terremotate, certo: la prova più
severa, l’emergenza più dura su cui promesse e impegni saranno rapidamente
giudicati. Ma anche delle faglie che negli ultimi mesi hanno spezzato l’azione
di Renzi: la spaccatura del Pd tra maggioranza e minoranza, la divisione nel
cuore del tradizionale elettorato di sinistra, la distanza del premier
dall’opinione pubblica più periferica, più arrabbiata e che si è sentita
esclusa dalla ottimistica narrazione renziana, l’incomunicabilità con sindacati
e intellettuali. E il venir meno, insieme al patto del Nazareno, del gioco di
sponda con Silvio Berlusconi. E se ricostruire diventa il nuovo imperativo
nelle zone del sisma bisogna attendersi, nelle prossime settimane, azioni altamente
simboliche. E clamorose.
IN ASCOLTO
DEL QUIRINALE - Renzi
aveva deciso di mutare pelle già prima dell’estate, addirittura prima del voto
amministrativo di giugno, nel mese di maggio, quando ha capito di aver legato
la sua carriera politica a una scommessa che non sarebbe riuscito a vincere: il
trionfo dei sì al referendum sulla riforma costituzionale di autunno. È stato
quando sul suo tavolo i sondaggi hanno cominciato ad affermare con preoccupante
puntualità che gli italiani ad avere fiducia in lui sono appena il 26 per
cento, contro il 35 che ne ha poca e il 39 che dichiara di averne nessuna. Gli
stessi sondaggi collocano da mesi tra i ministri meno apprezzati la madrina
della riforma costituzionale, Maria Elena Boschi, agli ultimi posti nelle classifiche
di gradimento insieme a Marianna Madia e a Stefania Giannini. Il consenso è
cominciato a calare vistosamente alla fine del 2015, in coincidenza con la
rivolta degli obbligazionisti di Banca Etruria. E non è più risalito.
Non basta
qualche sondaggio, però, a far cambiare idea a Renzi. C’è qualche persuasore
più convincente dei tanti addetti alla comunicazione che si affollano nelle
stanze della presidenza del Consiglio. Tra loro l’emerito Giorgio Napolitano: è
stato lui a spiegare a Renzi che personalizzare il voto referendario, con la
minaccia di ritirarsi dalla politica in caso di sconfitta, era una posizione
infantile, e in ogni caso perdente. In privato, l’ex capo dello Stato si mostra
preoccupato e irritato con il premier. Una strategia sbagliata rischia non solo
di far vincere i no al referendum, ma di interrompere il processo di riforma
costituzionale cui Napolitano ha dedicato il suo doppio mandato presidenziale.
Se i sì perdono non fallisce solo Renzi, ma anche lui.
L’interlocutore
più autorevole e ascoltato dal premier in questo momento, però, è l’attuale
inquilino del Quirinale. Il prestigio personale di Sergio Mattarella è
aumentato nelle ultime settimane, lo si è visto anche dall’accoglienza delle
popolazioni terremotate durante i funerali delle vittime, nell’incontro
ravvicinato tra il vertice delle istituzioni e chi ha perso tutto. Ma il peso e
l’influenza del presidente sono in crescita anche nei palazzi della politica.
Non è più stagione né di moral suasion, né di moniti. Dietro Mattarella e gli
uomini dello staff presidenziale c’è una cultura politica, una scuola, più
cattolico-democratica che democristiana: rispetto delle istituzioni, ascolto
della società in tutte le sue pieghe. In una parola: inclusività. Non escludere
nessuno dalle decisioni, parlare con tutti. Era un termine dimenticato a
Palazzo Chigi, finora. Ma un ex giovane dc come Renzi non ci mette nulla a
ripassare la lezione.
CAMBIARE
AGENDA - Nelle
prossime settimane il nuovo Renzi parlerà più di economia e meno di
bicameralismo, un tema che non ha scaldato i cuori come ci si aspettava. Con
l’abolizione del Cnel non si mangia, soprattutto in tempi così grigi.
L’operazione fiducia per ora non ha funzionato. L’inflazione resta a zero, il
vento non spira nelle vele dell’economia e la gente riempie i depositi bancari
(nonostante la sfiducia negli istituti di credito). «Matteo non lo ammetterà
mai, ma il taglio delle tasse sulla casa di un anno fa è stato un errore»,
raccontano. Ora serve una legge di stabilità ordinata, sobria, senza fuochi di
artificio: non espansiva ma neppure recessiva. Dall’Europa e dalla Germania
arriverà il via libera alla flessibilità, non ci saranno procedure di
infrazione e l’Italia potrà far salire la soglia del rapporto deficit/pil al
2,3-2,4. Fanno undici miliardi di euro per scongiurare l’aumento dell’Iva e per
risorse da impiegare su pensioni, produttività, conferma dei 500 euro per i
giovani. E ricostruzione delle zone terremotate e messa in sicurezza del suolo.
GLI AMICI E
I NEMICI - Ci sono
volti che Renzi non vuole più vedere in giro a fare i pasdaran del governo, a
partire dall’infausto Denis Verdini. Alcuni ministri sono da valorizzare, altri
da oscurare. Il testimonial del governo nelle settimane del post-terremoto è
stato il ministro Graziano Delrio, onnipresente nelle riunioni e in tv. Più defilato
Angelino Alfano. Scomparsa dalle cronache Maria Elena Boschi che prima agiva da
super-portavoce del governo e ora è invece associata alle riforme costituzionali
e in caduta nei sondaggi.
La nomina di
Vasco Errani a commissario per la ricostruzione delle zone devastate dal sisma
è anche una mano tesa alla minoranza del Pd e a Pier Luigi Bersani, che di
Errani è quasi gemello. Ancor più significativa, forse, la riapertura dei
tavoli governativi con i sindacati. Incontri tecnici nella prima metà di settembre,
poi il 12 le stanze di Palazzo Chigi riapriranno per i vertici tra il governo e
le leadership di Cisl, Uil e soprattutto Cgil. Due anni fa, di questi tempi,
era in programma l’approvazione del Jobs Act, Renzi ricevette le sigle
sindacali per sessanta minuti, dalle otto alle nove del mattino. «Un’ora sola
ti vorrei...», ironizzò Susanna Camusso. E un mese dopo il premier, dal palco
della Leopolda, restituì il sarcasmo attaccando il sindacato rosso che
difendeva l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, «come inserire il gettone
nell’iPhone, mettere il rullino nella macchina fotografica digitale». Oggi si
va avanti, o si torna indietro. I sindacati si preparano a incassare la manovra
finanziaria del governo progettata dal sottosegretario Tommaso Nannicini: due
miliardi di euro da investire per i pensionati, duecento milioni da destinare
agli statali, l’anticipo di pensione (Ape) che sarà gestito dall’Inps, ma che
vedrà coinvolti come sportelli di consulenza patronati e Caaf. Un bel regalo ai
corpi intermedi di cui nella fase trionfante Renzi predicava la rottamazione.
In cambio, il premier incasserà l’atteggiamento non ostile della Cgil durante
la campagna referendaria. Sul merito della riforma, la Cgil è spaccata e non
prenderà posizione. E fa paura l’ipotesi di un governo 5 Stelle che con i
sindacati non sarebbe più amichevole di Renzi. Così Susanna Camusso torna amica
del Pd renziano, o almeno non belligerante.
Ma la lista
dei nemici con cui ritrovare il filo del dialogo non si limita alla leader di
Corso d’Italia. C’è un pezzo di sinistra esterno al Pd, ma che non si rassegna
all’impossibilità dell’alleanza elettorale con il partito di Renzi: dall’ex
sindaco di Milano Giuliano Pisapia al sindaco di Cagliari Massimo Zedda,
tentati a dire sì al referendum se il governo si impegnerà a cambiare la legge
elettorale Italicum. Ci sono i padri nobili del centrosinistra che finora non
si sono schierati, a partire dal corteggiatissimo Romano Prodi. Ci sono i
governatori del Pd tenuti a distanza da Renzi. Il laziale Nicola Zingaretti, la
sua regione è pesantemente coinvolta nel sisma, si è fatto vedere a seguito del
premier, ha caldeggiato l’operazione Errani, e il pugliese Michele Emiliano, da
recuperare in vista della battaglia referendaria. E poi ci sono i potenziali
interlocutori tra i partiti avversari. L’elenco dei nomi da richiamare dopo le
vacanze, mettendo da parte polemiche furibonde e bandiere contrapposte,
comprende a sorpresa il sindaco di Napoli Luigi De Magistris: in campagna
elettorale sventolava la parola d’ordine della «de-renzizzazione», di Napoli e
poi dell’Italia, ora vorrebbe tornare a parlare con il premier alla pari, a
condizione di eliminare dalla partita di Bagnoli il commissario governativo
Salvo Nastasi. E la mossa potrebbe riuscire. La lista dei carissimi nemici con
cui Renzi cerca di riallacciare rapporti prosegue con i due governatori della
Lega Roberto Maroni e Luca Zaia. In comune hanno il pragmatismo, il profilo
istituzionale, l’insofferenza per le uscite del loro leader Matteo Salvini. «Se
Renzi imposta il referendum come un plebiscito su se stesso il Veneto voterà
contro di lui. Se si resterà sul merito il Veneto voterà per semplificare la
politica romana», ripete Zaia. Motivo in più per Renzi per provare a ricucire.
La visita del premier a Genova dal senatore-architetto Renzo Piano, amico
personale di Beppe Grillo, è un amo lanciato presso l’elettorato di M5S. Prima
o poi toccherà chiamare anche Virginia Raggi e Chiara Appendino.
L’ultimo
numero in elenco è casa Arcore. Con Silvio Berlusconi i rapporti personali sono
formalmente interrotti da mesi. Ma gli emissari renziani e berlusconiani non
hanno mai smesso di parlarsi. Non tanto per questioni politiche, ma perché mai
come in questo momento l’Impero berlusconiano vacilla dopo lo schiaffone
ricevuto da Vincent Bolloré e dal dietrofront di Vivendi nell’accordo con
Mediaset. I contatti tra il Biscione e il governo si sono intensificati in
estate. Patti che si rompono, patti che si ricompongono. Il convegno di metà
settembre organizzato da Stefano Parisi non è l’anticipo di un nuovo patto del
Nazareno, come sognano molti berlusconiani e qualche renziano. Però è un passo
verso la direzione opposta alla linea di Renato Brunetta, martellante
avversario di Renzi. La prima pietra per mettere su la new town del centro-destra,
a debita distanza dalle formazioni antiche. In apparenza l’obiettivo è la
rifondazione dello schieramento moderato, per impedire che la prossima sfida
elettorale sia tutta tra Pd e Movimento 5 Stelle. Ma è un’idea che presuppone
un sistema politico stabile, solido, poggiato su alcuni fondamenti
incrollabili, come fu il fattore K, l’anticomunismo, nella Prima Repubblica, e
la divisione berlusconismo-antiberlusconismo nella Seconda. Mentre lo scenario
è frammentato e instabile. E ancora di più potrebbe diventarlo nelle prossime
settimane. L’operazione avviata oggi da Parisi potrebbe portare Forza Italia o
quello che sarà ad allearsi con Renzi in un futuro prossimo, soprattutto se
dovesse cambiare la legge elettorale.
IL NUOVO
ITALICUM - Il
vecchio Renzi, il rottamatore, l’uomo solo al comando che aveva conquistato (do
you remember?) il 40 per cento alle elezioni europee del 2014, si era fatto una
legge elettorale su misura, l’Italicum, «tutta Europa ce la invidia», ripeteva
il premier. Il nuovo Renzi, il Ricostruttore, ha bisogno di una nuova legge
elettorale che, Mattarella docet, non spacchi ma unisca, non escluda ma
includa, non contrapponga due squadroni in armi come nella disfida di Barletta
(e con il rischio che vinca lo sfidante: M5S) ma favorisca le coalizioni, le
alleanze, prima durante o dopo il voto, con chi ci sta. Renzi, sia pure a
malincuore, si prepara alla bocciatura dell’Italicum da parte della Corte
costituzionale a ottobre, prima del voto referendario. Tutti i segnali portano
in quella direzione, il Palazzo si prepara. Virtù del leader è trasformare le
sconfitte in opportunità, la dichiarazione di incostituzionalità dell’Italicum
non sarebbe certo notizia da festeggiare per il premier ma consentirebbe a
Renzi di cambiare gioco senza dover spiegare in pubblico di aver sbagliato. La
soluzione alternativa, in caso di Italicum da rifare, è già pronta: tornare al
Mattarellum, la legge elettorale che ha funzionato tra il 1993 e il 2006, con i
suoi collegi uninominali e la spinta ad aggregarsi sui candidati più
competitivi. In più, e non è certo un male, porta il nome dell’attuale
presidente della Repubblica. Anche perché con l’Italicum in vigore il Quirinale
sarebbe privato di fatto dei suoi due poteri principali: la scelta del nome cui
affidare l’incarico di formare il governo e lo scioglimento anticipato del
Parlamento in caso di impasse politico. È lecito immaginare che nessun
presidente della Repubblica possa accettare a cuor leggero di essere
neutralizzato senza neppure una modifica formale della Costituzione. Neppure il
meno interventista come Mattarella.
ROTTAMARE
MATTEO - Spersonalizzare
per Renzi equivale a una mutazione genetica. Tutta la sua ascesa da leader è
stata all’insegna della superpersonalizzazione, la comunicazione del governo
ruota su di lui. Oggi il premier è chiamato a fare un passo di lato: meno
risposte su twitter e più ascolto delle domande del Paese. Nell’elenco degli
errori inconfessabili c’è anche la nomina degli attuali vertici Rai. Al
direttore generale Antonio Campo Dall’Orto viene imputata una mancanza di
sensibilità politica, dimostrata in ogni passaggio importante, e una lentezza
nell’innovazione del prodotto. Nei piani di Renzi la Rai doveva essere la
vetrina della nuova Italia governata da lui, invece continua a essere associata
a sprechi, poltrone, lottizzazione. Ma non è solo una questione di
comunicazione. Il Pd non è mai diventato il partito di Renzi, nonostante il
controllo assoluto dei renziani del quartier generale di largo del Nazareno e
dei quadri locali. Basta vedere l’andamento delle feste dell’Unità in tutta
Italia, a partire da quella nazionale di Catania, trasformata in un
palcoscenico per Massimo D’Alema e per i comitati del No. «Ma per Matteo c’è
una cosa ancora più complicata della riforma del Pd», spiega un renziano della
primissima ora. «Cambiare messaggio. Ammettere che la sua visione tutta
positiva dell’Italia non ha aiutato a rappresentare chi è rimasto indietro». Il
terremoto, alla fine di un’estate tragica di incidenti ferroviari e di stragi
terroristiche e con l’economia che balla sullo zero virgola, è il simbolo di un
cambio di fase. Finora i narratori di Palazzo Chigi hanno raccontato che nel
2014, anno primo dell’era renziana, come nelle favole, si aprì una stagione
felice, per l’Italia e per il Principe. Oggi bisogna chiudere il libro delle
fiabe e tornare in terra. È la ricucitura con la realtà. Che serve a Renzi. E
chissà, forse, anche al Paese.
Marco Damilano (L’Espresso – 5 settembre 2016)
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