venerdì 9 settembre 2016

Pensioni, la rabbia per la previdenza negata




Stupore, dubbi, angosce. È l’effetto che fa la busta arancione. L’ha spedita l’Inps a un milione di italiani, e di lettere così ne invierà altre sei milioni nei prossimi quattro mesi, per raccontare a ogni lavoratore che tipo di pensionato sarà.

L’oracolo Inps si esprime sotto forma di sei-sette fogli fronte-retro che snocciolano dati, numeri e tabelle su misura per dire a ciascuno quanti soldi ha già versato nelle casse dell’ente, quanti anni mancano al buen retiro, quale sarà il proprio futuro stipendio (sempre che tutto fili liscio) e quale l’ammontare dell’assegno pensionistico.

Il tutto firmato da Tito Boeri, presidente Inps. È stato lui a voler spedire la busta arancione agli italiani, così come si fa già nei paesi del Nord Europa, perché la gente prenda coscienza di ciò che l’aspetta. Per curiosità o necessità, ci sono altri 6 milioni di lavoratori che hanno letto il contenuto della lettera on line, accedendo al portale “La mia pensione” dalla home page del sito web Inps, un servizio che entro l’anno sarà accessibile a tutti i 23 milioni di dipendenti italiani, precari e stagionali inclusi. Nel frattempo “l’Espresso” ha raccolto le storie di dieci italiani - di cui per motivi di privacy non citeremo il vero nome - che hanno già dato una sbirciata al proprio futuro pensionistico. Hanno fra i 30 e i 45 anni: la generazione che più è andata a sbattere sul muro della crisi economica iniziata nel 2008 e che ha passato i limiti d’età per accedere ai progetti di sostegno di Garanzia Giovani.

Se 69 anni vi sembran pochi - Il copione si ripete sempre uguale. Giunti alla seconda pagina della lettera inviata dall’Inps ci si imbatte nella tabella “La previsione della sua pensione” e la prima cosa che balza all’occhio è la data del pensionamento. «Ci vado nel 2052, che è fra un sacco di tempo», racconta Vittorio, 33 anni, di Pistoia, che stropiccia il foglio agitandolo fra le mani. L’ha letto e riletto. «Avrò settant’anni. Faccio l’informatico, non so se a quell’età avrò la mente abbastanza elastica per stare al passo con l’innovazione e i futuri nerd». Vittorio ha cominciato a lavorare a 27 anni, dovrà sgobbare altri 35 anni per arrivare a una pensione di 1.900 euro lordi, sempre che nel mezzo non perda il lavoro, creando buchi contributivi che assottiglierebbero di parecchio l’assegno pensionistico.
Questo è proprio l’incubo di Chiara, 32 anni, romana, laurea in Psicologia. «I 60enni si lamentano perché dovranno lavorare qualche anno in più. E io, che non posso essere assunta stabilmente? Ho consultato la mia posizione sul sito Inps: è un disastro. Sono passata attraverso stage, contratto d’inserimento, partita iva, co.co.pro, tempo determinato. Ho fatto versamenti in casse previdenziali diverse, che fra loro non comunicano.
L’aliquota media versata è del 17 per cento, così la mia pensione equivarrà a metà del mio ultimo stipendio». Per far confluire tutto su un’unica piattaforma previdenziale, Chiara dovrebbe sborsare 24 mila euro, troppo per una giovane che ne guadagna 21 all’anno. L’ha scoperto contattando direttamente l’Inps, perché sulla busta arancione, alla voce “Contributi accantonati Gestione Separata”, c’è scritto che «per valutare come possano essere più utilmente valorizzati i contributi da Lei accantonati le consigliamo di rivolgersi ad una nostra sede per una consulenza». L’ha fatto e le hanno spiegato che o sgancia i quattrini o deve sperare che i prossimi anni di contribuzione siano più stabili di quelli precedenti. Oppure sarà un’anziana povera.

Un nuovo conto corrente - Anche Federica, 37 anni, laurea in Archeologia, insegnante a Bologna, ha chiamato l’Inps dopo aver letto la lettera. «Per poco non mi è venuto un colpo. Dall’elenco dei contributi erano spariti i sei anni di lavoro negli scavi archeologici. Ho contattato l’ente, che adesso sta verificando dove siano finiti i miei contributi. Incrocio le dita».
Situazioni così si verificano spesso, è capitato anche a Melissa, 35 anni, di Milano. Lavorava in una tv locale e si occupava della pubblicità, poi l’azienda è andata in crisi e ha perso il lavoro: «Avevo ricevuto a casa una lettera dall’Inps. C’era un codice e una procedura per verificare on line la posizione contributiva. Non è stato difficile accedere ai miei documenti digitali, ma quando ho scoperto che la mia azienda non mi aveva versato gli ultimi due anni di contributi ho avuto un tracollo. Grazie ai funzionari dell’Inps sono riuscita a recuperare quei soldi».
Da quando c’è la crisi, molte aziende hanno risparmiato sui contributi ai dipendenti per far quadrare i conti ed evitare la bancarotta. «Ci sono otto-nove miliardi l’anno di evasione da parte di imprese che non pagano i contributi alla propria manodopera, il totale è di 141 miliardi di buco. L’ente affida a Equitalia il compito di riscuotere, ma ne recupera il 5 per cento», spiega Gian Paolo Patta, membro del Civ, il comitato di indirizzo e vigilanza Inps. Fortunatamente c’è un fondo che copre quei buchi, ma funziona solo per i lavoratori dipendenti. Gli altri devono segnalare all’Inps i mancati pagamenti entro due anni, altrimenti i contributi vanno persi: «Controllare la propria posizione dovrebbe diventare un’abitudine, come si tiene sott’occhio il conto in banca», rispondono dall’istituto previdenziale.

L’Inps dal volto umano - Infatti, nell’ultima pagina della Busta Arancione c’è scritto a caratteri cubitali «Controlli il suo estratto conto e segnali eventuali errori. Le ricordiamo che eventuali anomalie dell’estratto conto incideranno negativamente sulla sua pensione». Un messaggio che Mirco, giovane impiegato di Torino, ha molto apprezzato: «La busta arancione mi è arrivata. Andrò in pensione nel 2050, a 69 anni compiuti, con un buon assegno. Grazie Boeri per quest’idea, così l’Inps non mi sembra più l’ente polveroso e marziano che pensavo. Però l’idea di finire i miei giorni dietro una scrivania non mi piace. Il governo dovrebbe fare di più per le giovani generazioni, che sgobberanno una vita».
Sono in tanti a pensarla così. E infatti, nel segreto dell’urna delle amministrative di giugno, gli italiani hanno dato una sonora mazzata al governo di Matteo Renzi, che fino all’estate non si era interessato di materia previdenziale. Forse per questo, il premier ha cambiato passo, aprendo alla revisione della materia pensionistica, tema delicatissimo. Ha così riallacciato i rapporti con quei sindacati che aveva messo alla porta e ora siedono al tavolo con il ministro del Lavoro Giuliano Poletti e Tommaso Nannicini, sottosegretario del Consiglio dei ministri e consigliere economico del premier, per modificare gli aspetti più dissonanti della riforma Fornero.

Precoci e usurati i più penalizzati - Il capitolo più scottante da affrontare interessa le categorie di lavoratori svantaggiati. Come le persone che hanno cominciato a lavorare giovanissime o quelle che fanno un lavoro parecchio duro (alla catena di montaggio, per esempio) che dal 2018 perderanno il diritto di andare in pensione in base agli anni di contribuzione. Infatti, con la legge Fornero, la pensione di anzianità svanisce per lasciare il campo alla sola pensione di vecchiaia, che si basa sull’età anagrafica e prevede che i 40enni di oggi andranno in pensione a 69 anni.
Improponibile per gente come Ernesto: «Il medico dice che ho un principio di artrite reumatoide. Generalmente si manifesta a 60 anni, io ne ho 44 ed eccomi qui. La malattia, almeno in parte, è colpa di questo lavoraccio». E racconta che da 25 anni leviga il legno in una falegnameria industriale di Pordenone: «Dovrei andare in pensione dopo 50 anni di fatica. Le mie mani non me lo consentiranno». La risposta che il governo ha intenzione di dare a lavoratori nella situazione di Ernesto si chiama Ape, Anticipo Pensionistico e sostanzialmente si tratta di un mutuo ventennale per ritirarsi con un po’ d’anticipo dal mondo del lavoro. «L’Ape però non risolve i problemi reali», attacca il giuslavorista Giampiero Falasca e spiega che l’anticipo pensionistico «non farà altro che sostituire la mobilità lunga, che permetteva a chi aveva perso il lavoro di stare in cassa integrazione per cinque anni o più, accedendo direttamente alla pensione».
Questa forma di assistenza è venuta meno con il riordino degli ammortizzatori sociali ed ora, se passasse l’idea dell’Ape, sarebbe di fatto reintrodotta. «Il mercato del lavoro italiano, fatto di molte professioni faticose e manuali, non è pensato per un’età pensionabile così alta. L’Ape non risolve il problema di fondo che è quello di mantenere attive le persone fino a 70 anni», sostiene Falasca.

Chi ci guadagna - E se la riforma Fornero bastona i manovali, mostra invece il suo lato migliore ai colletti bianchi e a chi ha uno stipendio alto. Fra i graziati c’è Gabriele, manager in una banca di Bari, che racconta: «È stato un po’ complesso ottenere la password per accedere alla mia pagina web, ma il sito funziona e si possono fare simulazioni, prevedere scenari di carriera differenti, buchi contributivi, svariate situazioni di crescita nazionale. Ma dubito che la previsione stimata dall’Inps si avvererà». Ha cominciato a lavorare nel 2006, guadagna 56 mila euro lordi l’anno: «Secondo i loro calcoli andrò in pensione a 69 anni con un assegno da 7 mila euro lordi», sempre che il prodotto interno lordo, cioè la ricchezza prodotta dall’Italia, cresca l’1,5 per cento l’anno, così come la sua retribuzione. «E chi ci crede? Oggi il pil è allo 0,8 per cento e non vedo crescita all’orizzonte», dice Gabriele che versa 250 euro al mese in un fondo complementare privato. Perché sulla stabilità dell’Inps non ci metterebbe la mano sul fuoco.
Eppure Alberto Brambilla, presidente del centro di ricerca Itinerari Previdenziali, invita a non trarre facili conclusioni: «I conti dell’Inps sono in ordine, l’ente resisterà e i giovani devono fare bene i propri conti». Brambilla ha elaborato una serie di ipotesi su chi andrà in pensione nel 2042 a 66 anni e 9 mesi, così come dice la Fornero. «Un ragazzo che ha cominciato nel 2000 e oggi ha un reddito da 1.500 euro lordi, prevedendo sette anni di buco contributivo e un’inflazione non superiore all’1 per cento, avrà una pensione di 1.050 euro lordi, che sono 750 euro netti. Per campare serve un’integrazione privata da almeno 50 euro al mese. Così arriverà a una pensione dignitosa», spiega Brambilla, che tuttavia mette in guardia soprattutto gli autonomi, le partite Iva, che versano una percentuale contributiva del 23 per cento, e i professionisti, che pagano il 15 per cento, contro il 33 dei lavoratori dipendenti. «Sono quelli che più di tutti dovrebbero pensare a un’integrativa, ma non lo fanno. Alcuni perché guadagnano poco, altri sono probabilmente evasori che non dichiarano tutto al fisco e la pensione la stanno accumulando in nero», continua il professore.

Un futuro troppo lontano - Nonostante la busta arancione tenti di mettere in guardia i giovani da un futuro incerto, per molti il traguardo della pensione appare davvero troppo lontano. Daniele, 38 anni, quadro in una società di revisione dei conti di Milano, racconta: «Ho dieci anni di contributi, manca talmente tanto tempo (lascerò il lavoro nel 2049) che qualsiasi previsione risulterebbe prematura e imprecisa. Verso il Tfr nel fondo integrativo di settore e sto pensando di investire anche in un fondo previdenziale privato, ma al momento non me lo posso permettere e non mi fido molto di banche e assicurazioni».
Del resto, sul mercato italiano della previdenza integrativa, solo il 13 per cento delle polizze è stato stipulato da giovani tra i 25 e i 34 anni contro il 33 per cento della fascia 45-54 anni. L’altro problema è che i maggiori investitori sono lavoratori dipendenti (il 38 per cento e versano 240 euro al mese), anziché quelli che ne avrebbero più bisogno (gli autonomi sono il 34 per cento, con 170 euro in media): «La previsione è che chi lavora in proprio avrà una pensione pari al 55 per cento dell’ultimo stipendio», spiega Renato Antonini, responsabile vita e danni di Alleanza assicurazioni. «Molti giovani si rivolgono a noi, capiscono l’esigenza di integrare l’assegno pensionistico, ma hanno già troppe spese vive per accantonare denaro», spiega Antonini.

Il portafoglio piange - Silvia, 41 anni, per esempio, fa la cassiera in un supermercato di Catania e guadagna 1.050 euro al mese. Anche a lei è arrivata la busta arancione e ha scoperto che la sua pensione sarà il 68 per cento del suo ultimo stipendio. Troppo poco per vivere dignitosamente. «Spero che mio figlio, che oggi ha 7 anni, avrà una vita migliore della mia», racconta, «e per questo spendo tutti i miei risparmi per mandarlo in una buona scuola». Silvia è pessimista. Altri suoi coetanei,invece, si rifugiano nel fatalismo, come Cinzia, 35 anni, di Recanati, mamma di una bambina di 5 mesi. In tasca ha una laurea in Sociologia, ma trovare un’occupazione stabile è difficile: «Non ho il coraggio di verificare la mia situazione contributiva e spero che, come per gli esodati, qualcuno ci metta una pezza».
Una speranza. O forse solo un sogno. Perché per garantire una pensione dignitosa per tutti bisognerebbe innanzitutto tornare a creare posti di lavoro. Ma questa, nell’Italia della stagnazione e della crescita zero, è tutta un’altra storia. Purtroppo.




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