Stupore, dubbi, angosce. È l’effetto che fa la busta arancione.
L’ha spedita l’Inps a un milione di italiani, e di lettere così ne invierà
altre sei milioni nei prossimi quattro mesi, per raccontare a ogni lavoratore
che tipo di pensionato sarà.
L’oracolo Inps si esprime sotto forma di sei-sette fogli fronte-retro che
snocciolano dati, numeri e tabelle su misura per dire a ciascuno quanti soldi
ha già versato nelle casse dell’ente, quanti anni mancano al buen retiro, quale
sarà il proprio futuro stipendio (sempre che tutto fili liscio) e quale
l’ammontare dell’assegno pensionistico.
Il tutto firmato da Tito Boeri, presidente Inps. È stato lui a voler
spedire la busta arancione agli italiani, così come si fa già nei paesi del
Nord Europa, perché la gente prenda coscienza di ciò che l’aspetta. Per
curiosità o necessità, ci sono altri 6 milioni di lavoratori che hanno letto il
contenuto della lettera on line, accedendo al portale “La mia pensione” dalla
home page del sito web Inps, un servizio che entro l’anno sarà accessibile a
tutti i 23 milioni di dipendenti italiani, precari e stagionali inclusi. Nel
frattempo “l’Espresso” ha raccolto le storie di dieci italiani - di cui per
motivi di privacy non citeremo il vero nome - che hanno già dato una sbirciata
al proprio futuro pensionistico. Hanno fra i 30 e i 45 anni: la generazione che
più è andata a sbattere sul muro della crisi economica iniziata nel 2008 e che
ha passato i limiti d’età per accedere ai progetti di sostegno di Garanzia
Giovani.
Se
69 anni vi sembran pochi - Il copione si ripete sempre uguale.
Giunti alla seconda pagina della lettera inviata dall’Inps ci si imbatte nella
tabella “La previsione della sua pensione” e la prima cosa che balza all’occhio
è la data del pensionamento. «Ci vado nel 2052, che è fra un sacco di tempo»,
racconta Vittorio, 33 anni, di Pistoia, che stropiccia il foglio agitandolo fra
le mani. L’ha letto e riletto. «Avrò settant’anni. Faccio l’informatico, non so
se a quell’età avrò la mente abbastanza elastica per stare al passo con
l’innovazione e i futuri nerd». Vittorio ha cominciato a lavorare a 27 anni,
dovrà sgobbare altri 35 anni per arrivare a una pensione di 1.900 euro lordi,
sempre che nel mezzo non perda il lavoro, creando buchi contributivi che assottiglierebbero
di parecchio l’assegno pensionistico.
Questo è proprio l’incubo di
Chiara, 32 anni, romana, laurea in Psicologia. «I 60enni si lamentano perché
dovranno lavorare qualche anno in più. E io, che non posso essere assunta
stabilmente? Ho consultato la mia posizione sul sito Inps: è un disastro. Sono
passata attraverso stage, contratto d’inserimento, partita iva, co.co.pro,
tempo determinato. Ho fatto versamenti in casse previdenziali diverse, che fra
loro non comunicano.
L’aliquota media versata è del 17
per cento, così la mia pensione equivarrà a metà del mio ultimo stipendio». Per
far confluire tutto su un’unica piattaforma previdenziale, Chiara dovrebbe
sborsare 24 mila euro, troppo per una giovane che ne guadagna 21 all’anno. L’ha
scoperto contattando direttamente l’Inps, perché sulla busta arancione, alla
voce “Contributi accantonati Gestione Separata”, c’è scritto che «per valutare
come possano essere più utilmente valorizzati i contributi da Lei accantonati
le consigliamo di rivolgersi ad una nostra sede per una consulenza». L’ha fatto
e le hanno spiegato che o sgancia i quattrini o deve sperare che i prossimi
anni di contribuzione siano più stabili di quelli precedenti. Oppure sarà
un’anziana povera.
Un
nuovo conto corrente - Anche Federica, 37 anni, laurea in
Archeologia, insegnante a Bologna, ha chiamato l’Inps dopo aver letto la
lettera. «Per poco non mi è venuto un colpo. Dall’elenco dei contributi erano
spariti i sei anni di lavoro negli scavi archeologici. Ho contattato l’ente,
che adesso sta verificando dove siano finiti i miei contributi. Incrocio le
dita».
Situazioni così si verificano
spesso, è capitato anche a Melissa, 35 anni, di Milano. Lavorava in una tv
locale e si occupava della pubblicità, poi l’azienda è andata in crisi e ha perso
il lavoro: «Avevo ricevuto a casa una lettera dall’Inps. C’era un codice e una
procedura per verificare on line la posizione contributiva. Non è stato
difficile accedere ai miei documenti digitali, ma quando ho scoperto che la mia
azienda non mi aveva versato gli ultimi due anni di contributi ho avuto un
tracollo. Grazie ai funzionari dell’Inps sono riuscita a recuperare quei
soldi».
Da quando c’è la crisi, molte
aziende hanno risparmiato sui contributi ai dipendenti per far quadrare i conti
ed evitare la bancarotta. «Ci sono otto-nove miliardi l’anno di evasione da
parte di imprese che non pagano i contributi alla propria manodopera, il totale
è di 141 miliardi di buco. L’ente affida a Equitalia il compito di riscuotere,
ma ne recupera il 5 per cento», spiega Gian Paolo Patta, membro del Civ, il
comitato di indirizzo e vigilanza Inps. Fortunatamente c’è un fondo che copre
quei buchi, ma funziona solo per i lavoratori dipendenti. Gli altri devono
segnalare all’Inps i mancati pagamenti entro due anni, altrimenti i contributi
vanno persi: «Controllare la propria posizione dovrebbe diventare un’abitudine,
come si tiene sott’occhio il conto in banca», rispondono dall’istituto
previdenziale.
L’Inps
dal volto umano - Infatti, nell’ultima pagina della Busta Arancione
c’è scritto a caratteri cubitali «Controlli il suo estratto conto e segnali
eventuali errori. Le ricordiamo che eventuali anomalie dell’estratto conto
incideranno negativamente sulla sua pensione». Un messaggio che Mirco, giovane
impiegato di Torino, ha molto apprezzato: «La busta arancione mi è arrivata.
Andrò in pensione nel 2050, a 69 anni compiuti, con un buon assegno. Grazie
Boeri per quest’idea, così l’Inps non mi sembra più l’ente polveroso e marziano
che pensavo. Però l’idea di finire i miei giorni dietro una scrivania non mi
piace. Il governo dovrebbe fare di più per le giovani generazioni, che
sgobberanno una vita».
Sono in tanti a pensarla così. E
infatti, nel segreto dell’urna delle amministrative di giugno, gli italiani
hanno dato una sonora mazzata al governo di Matteo Renzi, che fino all’estate
non si era interessato di materia previdenziale. Forse per questo, il premier
ha cambiato passo, aprendo alla revisione della materia pensionistica, tema
delicatissimo. Ha così riallacciato i rapporti con quei sindacati che aveva
messo alla porta e ora siedono al tavolo con il ministro del Lavoro Giuliano
Poletti e Tommaso Nannicini, sottosegretario del Consiglio dei ministri e
consigliere economico del premier, per modificare gli aspetti più dissonanti
della riforma Fornero.
Precoci
e usurati i più penalizzati - Il capitolo più scottante da
affrontare interessa le categorie di lavoratori svantaggiati. Come le persone
che hanno cominciato a lavorare giovanissime o quelle che fanno un lavoro
parecchio duro (alla catena di montaggio, per esempio) che dal 2018 perderanno
il diritto di andare in pensione in base agli anni di contribuzione. Infatti,
con la legge Fornero, la pensione di anzianità svanisce per lasciare il campo
alla sola pensione di vecchiaia, che si basa sull’età anagrafica e prevede che
i 40enni di oggi andranno in pensione a 69 anni.
Improponibile per gente come
Ernesto: «Il medico dice che ho un principio di artrite reumatoide. Generalmente
si manifesta a 60 anni, io ne ho 44 ed eccomi qui. La malattia, almeno in
parte, è colpa di questo lavoraccio». E racconta che da 25 anni leviga il legno
in una falegnameria industriale di Pordenone: «Dovrei andare in pensione dopo
50 anni di fatica. Le mie mani non me lo consentiranno». La risposta che il
governo ha intenzione di dare a lavoratori nella situazione di Ernesto si
chiama Ape, Anticipo Pensionistico e sostanzialmente si tratta di un mutuo
ventennale per ritirarsi con un po’ d’anticipo dal mondo del lavoro. «L’Ape
però non risolve i problemi reali», attacca il giuslavorista Giampiero Falasca
e spiega che l’anticipo pensionistico «non farà altro che sostituire la
mobilità lunga, che permetteva a chi aveva perso il lavoro di stare in cassa integrazione
per cinque anni o più, accedendo direttamente alla pensione».
Questa forma di assistenza è
venuta meno con il riordino degli ammortizzatori sociali ed ora, se passasse
l’idea dell’Ape, sarebbe di fatto reintrodotta. «Il mercato del lavoro italiano,
fatto di molte professioni faticose e manuali, non è pensato per un’età
pensionabile così alta. L’Ape non risolve il problema di fondo che è quello di
mantenere attive le persone fino a 70 anni», sostiene Falasca.
Chi
ci guadagna - E se la riforma Fornero bastona i manovali,
mostra invece il suo lato migliore ai colletti bianchi e a chi ha uno stipendio
alto. Fra i graziati c’è Gabriele, manager in una banca di Bari, che racconta:
«È stato un po’ complesso ottenere la password per accedere alla mia pagina
web, ma il sito funziona e si possono fare simulazioni, prevedere scenari di
carriera differenti, buchi contributivi, svariate situazioni di crescita
nazionale. Ma dubito che la previsione stimata dall’Inps si avvererà». Ha
cominciato a lavorare nel 2006, guadagna 56 mila euro lordi l’anno: «Secondo i
loro calcoli andrò in pensione a 69 anni con un assegno da 7 mila euro lordi»,
sempre che il prodotto interno lordo, cioè la ricchezza prodotta dall’Italia,
cresca l’1,5 per cento l’anno, così come la sua retribuzione. «E chi ci crede?
Oggi il pil è allo 0,8 per cento e non vedo crescita all’orizzonte», dice
Gabriele che versa 250 euro al mese in un fondo complementare privato. Perché
sulla stabilità dell’Inps non ci metterebbe la mano sul fuoco.
Eppure Alberto Brambilla,
presidente del centro di ricerca Itinerari Previdenziali, invita a non trarre
facili conclusioni: «I conti dell’Inps sono in ordine, l’ente resisterà e i
giovani devono fare bene i propri conti». Brambilla ha elaborato una serie di
ipotesi su chi andrà in pensione nel 2042 a 66 anni e 9 mesi, così come dice la
Fornero. «Un ragazzo che ha cominciato nel 2000 e oggi ha un reddito da 1.500
euro lordi, prevedendo sette anni di buco contributivo e un’inflazione non
superiore all’1 per cento, avrà una pensione di 1.050 euro lordi, che sono 750
euro netti. Per campare serve un’integrazione privata da almeno 50 euro al
mese. Così arriverà a una pensione dignitosa», spiega Brambilla, che tuttavia
mette in guardia soprattutto gli autonomi, le partite Iva, che versano una
percentuale contributiva del 23 per cento, e i professionisti, che pagano il 15
per cento, contro il 33 dei lavoratori dipendenti. «Sono quelli che più di
tutti dovrebbero pensare a un’integrativa, ma non lo fanno. Alcuni perché
guadagnano poco, altri sono probabilmente evasori che non dichiarano tutto al
fisco e la pensione la stanno accumulando in nero», continua il professore.
Un
futuro troppo lontano - Nonostante la busta arancione tenti di
mettere in guardia i giovani da un futuro incerto, per molti il traguardo della
pensione appare davvero troppo lontano. Daniele, 38 anni, quadro in una società
di revisione dei conti di Milano, racconta: «Ho dieci anni di contributi, manca
talmente tanto tempo (lascerò il lavoro nel 2049) che qualsiasi previsione
risulterebbe prematura e imprecisa. Verso il Tfr nel fondo integrativo di
settore e sto pensando di investire anche in un fondo previdenziale privato, ma
al momento non me lo posso permettere e non mi fido molto di banche e
assicurazioni».
Del resto, sul mercato italiano
della previdenza integrativa, solo il 13 per cento delle polizze è stato
stipulato da giovani tra i 25 e i 34 anni contro il 33 per cento della fascia
45-54 anni. L’altro problema è che i maggiori investitori sono lavoratori dipendenti
(il 38 per cento e versano 240 euro al mese), anziché quelli che ne avrebbero
più bisogno (gli autonomi sono il 34 per cento, con 170 euro in media): «La
previsione è che chi lavora in proprio avrà una pensione pari al 55 per cento
dell’ultimo stipendio», spiega Renato Antonini, responsabile vita e danni di
Alleanza assicurazioni. «Molti giovani si rivolgono a noi, capiscono l’esigenza
di integrare l’assegno pensionistico, ma hanno già troppe spese vive per
accantonare denaro», spiega Antonini.
Il
portafoglio piange - Silvia, 41 anni, per esempio, fa la
cassiera in un supermercato di Catania e guadagna 1.050 euro al mese. Anche a
lei è arrivata la busta arancione e ha scoperto che la sua pensione sarà il 68
per cento del suo ultimo stipendio. Troppo poco per vivere dignitosamente.
«Spero che mio figlio, che oggi ha 7 anni, avrà una vita migliore della mia»,
racconta, «e per questo spendo tutti i miei risparmi per mandarlo in una buona
scuola». Silvia è pessimista. Altri suoi coetanei,invece, si rifugiano nel
fatalismo, come Cinzia, 35 anni, di Recanati, mamma di una bambina di 5 mesi.
In tasca ha una laurea in Sociologia, ma trovare un’occupazione stabile è
difficile: «Non ho il coraggio di verificare la mia situazione contributiva e
spero che, come per gli esodati, qualcuno ci metta una pezza».
Una speranza. O forse solo un
sogno. Perché per garantire una pensione dignitosa per tutti bisognerebbe
innanzitutto tornare a creare posti di lavoro. Ma questa, nell’Italia della
stagnazione e della crescita zero, è tutta un’altra storia. Purtroppo.
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