Il premio Nobel per la letteratura si racconta:
dall'incontro con la moglie Franca Rame alla nascita del figlio, dalla pittura
al teatro. "Il giorno più bello della mia vita? Quando è finita la guerra:
ricordo come se fosse ieri la festa dei paesi mentre si allontanava l'incubo
della morte, delle bombe, di quella distruzione orrenda"
Lo cercano tutti per via delle novanta candeline. E
giustamente lui obietta: ma io non ho fatto nulla di rilevante, compio soltanto
gli anni. Il numero però è importante. Come lo è il padrone di casa, che ci
riceve in un’assolata mattina milanese mentre la primavera albeggia al di là
delle finestre. Siamo venuti tante volte in questo appartamento a parlare con Dario
Fo dei suoi libri, dei suoi spettacoli, della politica. L’ultima, l’anno
scorso, ci aveva lasciato con una frase indimenticabile: “Creare meraviglia
vuol dire suscitare l’incanto in chi ti guarda. E attraverso il coinvolgimento
passano al pubblico molte cose, per questo fare teatro è il mestiere più
straordinario del mondo”.
Di lui sappiamo quasi tutto, perché non ha mai smesso
di lavorare, scrivere, recitare e nemmeno di far sentire la sua voce nel
dibattito pubblico. Allora, in occasione di questo compleanno così rotondo e
dunque così simbolico, abbiamo cercato di capire da dove arriva quel suo estro
vulcanico che tanto ha dato all’Italia.
Tutto
comincia a Luino, il 24 marzo del 1926 quando mamma Pina dà alla luce Dario.
Suo marito Felice, di nome e di fatto, è un capostazione con la passione per il
teatro. Il più antico ricordo è “un fatto di sangue”, sullo sfondo c’è un
binario: “Avevo circa tre anni. Vidi un ragazzo che attraversava in bicicletta
la ferrovia. Cadde e si ferì profondamente una mano, in verticale. Gli andai
vicino, la mano era tutta rossa di sangue. Era la prima volta che lo vedevo e
ho scoperto che l’uomo è pieno di sangue. Poi è arrivato un signore che l’ha
soccorso e gli ha stretto una sciarpa attorno alla ferita. E gli ha detto:
‘Andiamo in ospedale perché dovrai mettere dei punti’. Un’altra cosa che mi
colpì moltissimo: non sapevo che le persone si
potevano rammendare come faceva la mamma con i pantaloni
sdruciti”.
Un fatto traumatico. - E non è il
solo. L’altro ricordo è di una notte in cui mi sono svegliato in casa e non
c’era nessuno. Ho cominciato a strillare ed è arrivata una vicina. Mi ha
consolato, con una perfetta recita a soggetto in cui ha inventato una scusa su
due piedi e mi ha fatto riaddormentare. Ma appena i miei sono tornati mi sono
svegliato: volevo sapere perché erano andati via senza dirmi nulla. Questi sono
i due primi ricordi della mia vita.
La sua scelta di arruolarsi
giovanissimo nell’esercito della Rsi ha suscitato un mare di polemiche negli
anni Settanta. - Ho scritto tutto in un libro: mi sono
arruolato nell’esercito italiano, in quanto italiano e non in quanto fascista,
per un brevissimo periodo. Mi sono arruolato per non essere deportato in
Germania e alla fine sono andato nei parà perché per i paracadutisti c’era un
periodo di addestramento obbligatorio e sapevo che la guerra era agli sgoccioli:
in Germania non ci volevo andare, nessuno tornava. Alla fine sono scappato,
perché avevano fucilato venti civili senza ragione. Non m’importava nulla che
mi uccidessero: il mondo attorno a me ormai era solo brutalità, violenza,
sopraffazione. Non m’interessava più nulla di come andava a finire. Sono andato
a rifugiarmi in montagna durante le ultime settimane prima della Liberazione.
Ma la gente del mio paese, quando sono tornato, non mi ha chiamato fascista. Ho
soltanto cercato di salvarmi: ero un ragazzo.
La sua prima vocazione
artistica è stata la pittura. - Ho studiato all’Accademia di Brera, per otto
anni. In quegli anni imparo a incidere, a dipingere, a scolpire. Però a un
certo punto capisco che non siamo più nel periodo d’oro della pittura, con la
guerra qualcosa si è rotto. Tanto è vero che anche i pittori già affermati
cominciano a faticare. A un certo punto un importante mercante d’arte mi
propone di entrare nella sua bottega. Cioè lui mi passava uno stipendio, ma in
cambio voleva la gran parte della mia produzione. Mi lasciava una decina di
quadri: all’epoca io producevo tantissimo, una tela al giorno. Lui si prendeva
tutto, salvo che io fossi diventato molto famoso, allora avrei percepito delle
percentuali sulle vendite. Capii che era una truffa e allora dissi basta,
questo non è il mio mestiere.
E quindi? - Mi sono
iscritto ad Architettura. Contemporaneamente lavoravo per aiutare mio padre a
pagare le tasse e i libri: facevo il ragazzo di bottega in uno studio di
architettura. Mi mandavano a fare dei rilievi, su cui producevo dei bozzetti. A
un certo punto scopro che il terreno di cui mi occupo è vincolato, a uso
agricolo. Allora vado dal titolare dello studio e gli dico: ma perché lavoriamo
ai progetti su quel terreno che è vincolato? È inutile. E lui mi risponde: ‘Non
preoccuparti, le vie del sorprendente in architettura sono infinite’. Un mese
dopo, il Comune aveva cambiato la destinazione d’uso di quel terreno, da
agricolo a edificabile. Per me fu una delusione grandissima. Disperatamente diedi
le dimissioni. Non avevo un soldo, letteralmente, ed ero depresso. Continuavo a
dimagrire perché appena mangiavo qualcosa, rimettevo. Un mio amico mi disse:
‘Ma io ti ho sentito recitare e tutti ti applaudivano. Sei bravissimo a
recitare, è quello il tuo mestiere!’.
Allora andò a bussare alla
porta di Franco Parenti. - Esatto: andai lì con alcuni monologhi che
avevo pronti e mi presero subito. Alle prove c’era Franca. Io la conoscevo già,
attraverso una fotografia che avevo visto nel salotto di casa di sua madre a
Varese, perché per caso avevo conosciuto il fratello.
Ed è stato subito amore? - Dio… era
meravigliosa: bellissima, affascinante, spiritosa. Bravissima sul lavoro.
E corteggiatissima. - Lei mi
piaceva moltissimo, ovviamente. A chi non piaceva Franca? Ma non era alla mia
portata. Tutte le volte che la guardavo mi dicevo: ‘Non perdere tempo, non
perdere la testa, non fare casini. Con tutti i pretendenti potenti e ricchi che
ha…’. M’imponevo di non incrociare mai il suo sguardo, di non darle retta se mi
rivolgeva la parola. Arrivavano fiori, regali, venivano a prenderla con
l’automobile. Figurati un po’, io ero uno spiantato. Una sera però ci
ritrovammo da soli. Io stavo uscendo dal teatro e lei mi disse: ‘Ma dove vai,
Dario?’. Io, secco: ‘A casa’. E lei: ‘Non mangi?’. Le raccontai una bugia: ‘Ho
già mangiato prima’. Ma lei aveva capito: ‘Stai dicendo una balla’. Non avevo
una lira in tasca. Allora m’invitò lei: ‘Pago io. Ma ho soldi abbastanza per
pane, salame e una birra. Ti va?’. Tutti i miei buoni propositi andarono a
farsi benedire… Abbiamo attraversato Milano in lungo e in largo, quella notte.
Io la accompagnavo a casa, poi lei insisteva per accompagnare me e io di nuovo
lei. Abbiamo parlato per molte ore, una serata gioiosa e divertente.
E quindi l’ha baciata? - Ma no! Anzi,
non volevo mai uscire con lei. Inventavo delle balle, dicevo sempre che ero
occupato, che non potevo. Una volta le ho detto addirittura che avevo un esame
al Politecnico e che dovevo studiare e non era vero perché avevo già lasciato.
Quella sera stessa, eravamo nelle quinte del palco, lei mi ha dato uno
spintone. Sono finito con le spalle al muro e mi ha baciato. Questa è la
storia.
Siete stati insieme tutta la
vita. Ma Franca a un certo punto l’ha lasciata. - Veramente mi
ha lasciato un mucchio di volte. Quando è diventata soubrettona, in gergo si
dice così, per una compagnia molto importante, la sorella le diceva: ‘Lascia
perdere gli attori, sono dei perdigiorno. Che vita ti può dare Dario?’. Poi
abbiamo fatto la pace, una volta che lei venne a vederci recitare. E tornò con
noi per recitare ne Il dito nell’occhio. Poi ci siamo sposati in Sant’Ambrogio
con il vescovo che aveva tenuto lì l’arredo di un altro matrimonio. Poi ci
siamo lasciati almeno un paio di volte. Sempre lei. E aveva ragione, io ero
sballato. Avevamo un successo incredibile, io ero circondato da ragazze
bellissime che mi si offrivano… Allora lei disse basta.
Tra queste distrazioni, non
c’è mai stata nessuna che fosse importante? - Se fossi
ipocrita, le direi che erano tutte storie senza importanza, occasionali.
Avventure di nessun conto. Invece no: qualcuna tra queste ragazze si innamorava
di me e io anche ero coinvolto. Ma Franca è sempre stata il centro del mio
universo. Quando lei se ne andava e mi chiamava l’avvocato dicendomi ‘sua
moglie si vuole dividere’, allora era un dramma.
Franca l’ha mai tradita? - Credo
l’abbia fatto per ripicca. Io ci soffrivo ma mi sentivo troppo colpevole,
capivo che lei aveva tutte le ragioni. Però questi sono stati incidenti,
inciampi. Non sono stati mai la chiave della nostra relazione. Ho avuto per
Franca un amore assoluto, sconfinato, traboccante. Ricordo quando ebbe un
incidente stradale, doveva dormire su una superficie rigida e si sdraiava sul
pavimento perché sul letto non riusciva a stare. E io andavo a sistemarmi
vicino a lei per terra.
Le donne hanno con Franca
Rame un debito di gratitudine per aver avuto il coraggio di raccontare la
violenza subita nel ’73. Cos’ha provato lei quando sua moglie è stata presa? - Non ci sono
le parole per dire la rabbia, il dolore, il senso d’impotenza. La cosa più
terribile è stata quando sono venuti fuori i particolari, il coinvolgimento
dello Stato e dei carabinieri, il brindisi alla notizia dello stupro. Il
processo andato prescritto… (una lacrima minuscola scivola sulle guancia dietro
gli occhiali da sole, ndr)
Come ha fatto sua moglie a
superarla? - Un professore nostro amico le disse: ‘Franca,
denunciare non basta. La terapia devi fartela da sola, devi salvarti tu. Non
basta che ne parli con i tuoi familiari o con qualche amico. Devi liberarti,
devi raccontare. Fallo in teatro, è il tuo mestiere’. Lei, scuotendo la testa,
rispose: ‘No, questo non posso farlo’. Un sera, mentre recitavamo uno
spettacolo, lei aveva la scena dopo la mia, un monologo. Io ero dietro le
quinte e improvvisamente capisco che non è il pezzo previsto, ma che Franca sta
raccontando il suo dramma. La gente era sconvolta. Un coraggio da leonessa. E
che esempio è stato per le donne! Quelli erano ancora tempi in cui le ragazze
non potevano denunciare le violenze.
Cosa le ha insegnato
diventare padre? - Ho capito tardi l’importanza del mio ruolo di
genitore, di quello che dovevo fare per mio figlio Jacopo. Lavoravo tanto, ero
spesso fuori in tournée. Mi sono perso la sua infanzia: è mancata anche a me.
Poi ci siamo avvicinati molto e sia io che Franca abbiamo capito che dovevamo
vivere insieme la nostra condizione di genitori ed essere in pieno una
famiglia. Oggi sono nonno e bisnonno, felice. Passo molto tempo con la mia
famiglia: ora per questo compleanno arrivano tutti, mi manderanno a dormire in
solaio!
Parliamo di amici. - Sono sempre
stato un ladro: di conoscenze, di sapere, di esperienza. Ho guardato i miei
amici lavorare, li ho ascoltati e ho rubato, da tutti un po’. Quando ero
ragazzino andavo in campagna a dipingere con i pittori adulti: li osservavo
attentamente, copiavo. E pure all’Accademia. Io raccontavo storie, favole. Mi
esibivo. Come giullare ero già famoso. E poi io chiedevo a mia volta di farmi
vedere come si facevano le cose: ho sempre imparato rubando. Gaber, Jannacci mi
chiamavano maestro: sono stati i primi. Ho insegnato loro alcune cose…
Cadenzare senza esagerare, stare in scena naturalmente. Gli consigliavo di
parlare con il pubblico, di creare un rapporto con chi li ascoltava.
Qualche rimpianto? - Chissà
perché me lo domandano tutti… Ho avuto una fortuna esagerata nella mia vita.
Tutto quello che andava male, le crisi, i momenti distruttivi si sono sempre
capovolti. Mi sono trovato spostato dal vento verso orizzonti diversi,
cambiamenti, novità. Nessun rimpianto, davvero.
Perché non ha mai voluto
guidare l’auto? - Non m’interessava. Guidare è un’attività
esclusiva, per cui non puoi mai distrarti. Ho provato una volta e ho capito che
non ero adatto. Ma lo sospettavo: perfino in bicicletta cadevo perché pensavo a
tutto fuorché alla strada. Poi c’era Franca, lei era così brava a guidare…
I libri più importanti della
sua vita? - Tantissimi. Le dico Memorie di un ottuagenario di
Ippolito Nievo, che ho letto da ragazzo e amato moltissimo. Fino a un certo
punto sono stato un vorace lettore di romanzi. Adoravo Dos Passos e Hemingway.
Poi a un certo punto avevo delle curiosità che volevo togliermi, sulla Storia
per esempio. Ho cominciato a leggere saggi e pubblicazioni scientifiche.
Il giorno in cui le hanno
assegnato il premio Nobel è stato il più bello della sua vita? - No! Il
giorno più bello è stato quando è finita la guerra: ricordo come se fosse ieri
la festa dei paesi, mentre si allontanava l’incubo della morte, delle bombe, di
quella distruzione orrenda. Quando ho vinto il Nobel con Franca ci siamo detti:
‘Adesso non montiamoci la testa’. E abbiamo ricominciato a lavorare.
Cos’è la vecchiaia? - Perché lo
chiede a me? Io non mi sono accorto di nulla. Ogni tanto qualcuno mi diceva:
‘Guarda che tra un po’ compi novant’anni’, e io non ci davo peso. La vecchiaia
ti viene addosso, all’improvviso. Io però mi sento anziano, non vecchio. E le
spiego perché: i vecchi sono conservatori, sono nostalgici. Non fanno che
ripetere ‘ai miei tempi’, hanno una mentalità chiusa, a volte ottusa. Non
accettano le cose nuove, ridono poco. Sono ostili alla diversità. Io non mi
trovo bene con quelli della mia età: peraltro i vecchi di solito votano a
destra. E io a destra mai!
Silvia Truzzi (Il Fatto Quotidiano del 24/03/2016)
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