Non l'avevano mai dimenticata. I vertici del Paese,
colpevolmente, sì. Loro, Licio Gelli e i suoi amici, no. Non la dimenticavano e
la odiavano come la loro peggiore nemica. Lo si capì nel 2004 quando il
ministero delle Pari Opportunità commissionò a Pialuisa Bianco un dizionario
biografico delle donne italiane. Alla voce Anselmi Tina si leggevano parole
come queste: « Moralismo giacobino, istinto punitivo... I 120 volumi degli atti
della Commissione, che stroncò Licio Gelli e i suoi amici, gli interminabili
fogli dell'Anselmi's list, infatti, cacciavano streghe e acchiappavano
fantasmi». E ancora: «improbabile guerriera. Furbizia contadina». Così un
governo aveva ben pensato di ricordare la prima donna ad aver occupato
l'incarico di ministro in Italia. Ad aver commissionato il testo era stata la
responsabile delle Pari Opportunità Stefania Prestigiacomo. Il presidente del
Consiglio era quel Silvio Berlusconi che faceva parte degli «amici di Gelli»,
tessera numero 1816 della loggia massonica P2, gruppo 17, settore editoria.
Non avevano mai dimenticato lei e i quasi tre anni,
dall'ottobre 1981 al maggio 1984, in cui Tina Anselmi aveva presieduto la Commissione parlamentare di inchiesta sulla P2.
Una sfilata ininterrotta di ministri, generali, ambasciatori, segretari di
partito, direttori di giornale, banchieri, magistrati. Si giustificavano:
«Enrico Manca: nel 1980 il 4 aprile entro come ministro del Commercio estero
nel governo Cossiga. A fine aprile conosco Gelli a un ricevimento
all'ambasciata argentina. Visita di Maurizio Costanzo, che disse di essere massone,
e a nome di Gelli mi chiese se ero disponibile a aderire alla massoneria.
Quando mi vidi negli elenchi di Gelli telefonai a Costanzo, ma questi mi
confermò di aver telefonato a Gelli la non disponibilità...». «Bisignani
(Luigi) pagato da Gelli, è ancora in rapporto con Gelli...». Apparivano
untuosi, viscidi come il loro capo, di fronte a quella donna che li
interrogava.
Una donna contro i poteri
occulti che negli anni Settanta avevano invaso le istituzioni
come cellule tumorali che avvelenano un corpo sano. Di eccezionale coraggio. E
di straordinaria normalità. «Tina, nome di battaglia Gabriella, anni
diciasette, giovane, come tante, nella Resistenza. Non ho mai pensato che noi
ragazze e ragazzi che scegliemmo di batterci contro il nazifascismo fossimo eccezionali,
ed è questo che vorrei raccontare: la nostra normalità....». Comincia così la
sua autobiografia, "Storia di una passione politica" (Sperling &
Kupfer), curata da Anna Vinci e pubblicata dieci anni fa. Una ragazzona del
profondo Veneto, campionessa di giavellotto e pallacanestro a livello
regionale, «in un tempo in cui lo sport era un'attività prevalentemente
maschile», a 17 anni era entrata nella Resistenza dopo un colloquio con
un'amica che aveva il fidanzato partigiano, «una ragazzina passata direttamente
dalla vita in famiglia alla lotta armata». Aveva scelto il nome Gabriella come
l'arcangelo Gabriele, il messaggero dell'annunciazione: staffetta partigiana,
cento chilometri al giorno in bicicletta, la fame e la paura.
Non aveva mai dismesso l'abito
della resistente. Neppure quando, dopo la guerra, aveva
cominciato a praticare un altro sport tutto maschile, la politica. Militante
dell'Azione cattolica, amica e discepola di Aldo Moro, l'unica ammessa dalla
famiglia in casa durante i 55 giorni del sequestro del leader dc, eletta
deputata nel 1968, prima donna a essere nominata ministro, nel 1976, a 49 anni,
nel terzo governo Andreotti, ministro del Lavoro e poi ministro della Sanità.
Una donna in politica che portava uno spirito inedito nelle stanze del governo:
spiritosa, anti-retorica, il contrario esatto di certi successivi modelli
narcisisti e tutti auto-riferiti, una che di sé scriveva, con semplicità: «La
ventata di leggerezza che nella mia infanzia ha spazzato tante volte via la
malinconia mi accompagnerà fino alla fine, e avrà sempre per me l'odore del
cocomero di nonna Maria e del panetto con l'uva di nonno Ferruccio». Ingenua,
eppure consapevole di tutte le sottigliezze della politica. Esponente di quella
generazione che aveva ricostruito l'Italia e che alla politica attribuiva
primato e nobiltà, non in nome di una parte ma di tutti.
Quando nel 1981 il Parlamento votò l'istituzione di
una commissione di inchiesta sulla loggia di Gelli sembrava destinata a una
luminosa seconda parte della carriera politica nelle istituzioni: presidente
della Camera o del Senato. Invece il suo sì alla richiesta di guidare la
commissione, arrivata da Nilde Iotti presidente della Camera, le cambiò la
vita.
L'incontro e lo scontro con
il volto oscuro del potere. Quella coltre di mistero, fango,
sporcizia, ricatto che inquinava, e inquina ancora, la vita pubblica italiana.
Per l'ex partigiana una sfida più rischiosa di quella con il fascismo perché
più sottile, con le parti in gioco non dichiarate. La Anselmi ha raccontato
giorno per giorno quegli anni nelle pagine di diario pubblicate da
Chiarelettere nel 2011. La pedinarono («esco da Palazzo San Macuto e mi accorgo
di essere pedinata fino a casa da un uomo di statura piuttosto bassa, robusta,
dell'età di quaranta, quarantacinque anni», annota all'una e un quarto di notte
l'8 febbraio 1983), indagarono su di lei («Il giorno 7 gennaio 1985 sono venuti
da me Lo Presti di Treviso e un suo collaboratore. Si sono dichiarati di
professione agenti investigativi privati. Mi hanno raccontato di essere stati
incaricati di indagare su di me, sui miei beni, sui miei parenti, per avere
elementi contro di me. Hanno rifiutato di collaborare»), fu lasciata sola dagli
uomini del suo partito, la Democrazia cristiana. «Lei ritiene di non poter fare
nulla per impedire che materiale giudiziario venga sfruttato contro di me. Lei
aveva tutti gli strumenti per bloccare un'operazione infame. Non li vuole
usare», le scriveva Flaminio Piccoli, presidente della Dc.
Dai socialisti: «Formica (Psi) mi ha detto ieri che
la commissione P2 va chiusa e basta». E dall'opposizione comunista: «Non mi
pare che il Pci voglia andare fino in fondo. Il gruppo pare abbandonato a se
stesso. La stessa richiesta loro di non approfondire il filone servizi segreti
fa pensare che temano delle verità che emergono dal periodo della solidarietà.
Ipotesi: ruolo di Andreotti che li ha traditi? O coinvolgimento di qualche loro
uomo?». «Nulla si può escludere, neppure che Tina Anselmi sia una
calunniatrice», scrisse infine Gelli al presidente della Repubblica eletto nel
1985, Francesco Cossiga.
In tanti pensavano a lei per
il Quirinale, in realtà. E poi nel 1992, quando il suo nome
risuonò più volte nell'aula di Montecitorio durante le votazioni per il
presidente della Repubblica e il settimanale di Michele Serra "Cuore"
l'aveva candidata ufficialmente, e non c'era nessun intento satirico. E invece
dopo la commissione la sua carriera politica di fatto terminò. Come aveva
previsto un suo grande amico, partigiano come lei, Sandro Pertini. «Con Pertini parlano spesso del mio coraggio.
Sanno che sono sola in questo compito», appuntava il 20
settembre 1983. E il 10 maggio 1984, alla chiusura dei lavori: «Visita a
Pertini. Mi ringrazia per quello che ho fatto per il paese e per l'Italia. Mi
conferma la sua stima e la sua amicizia, per il coraggio che ho. Annota che nel
Palazzo non si avrà la volontà di andare a fondo e di accogliere la mia
relazione».
«Se la loggia P2 è stata politica sommersa, essa è
contro tutti noi che sediamo in questo emiciclo. Questo è il sistema
democratico che in questi quaranta anni abbiamo voluto e costruito con il
nostro quotidiano impegno: non può esservi posto per nicchie nascoste o
burattinai di sorta», aveva concluso il suo compito il 9 gennaio 1986,
presentando nell'aula della Camera il lavoro della commissione. Sono passati
trent'anni, non è andato via questo odore di stantio che si avverte in molti,
troppi passaggi politici e economici. Ma neppure passerà il ricordo di Tina
Anselmi. La ragazza della Repubblica che non hai smesso di sorridere nei
momenti più difficili. La donna che fece tremare i piccoli uomini del potere. È
lei, non i traditori dello Stato che lo hanno usurpato, a meritare a pieno
diritto il titolo di patriota.
Marco
Damilano (L’Espresso, 1 novembre 2016)
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