martedì 1 novembre 2016

Addio Tina Anselmi, la donna che fece tremare i piccoli uomini del potere



 
Non l'avevano mai dimenticata. I vertici del Paese, colpevolmente, sì. Loro, Licio Gelli e i suoi amici, no. Non la dimenticavano e la odiavano come la loro peggiore nemica. Lo si capì nel 2004 quando il ministero delle Pari Opportunità commissionò a Pialuisa Bianco un dizionario biografico delle donne italiane. Alla voce Anselmi Tina si leggevano parole come queste: « Moralismo giacobino, istinto punitivo... I 120 volumi degli atti della Commissione, che stroncò Licio Gelli e i suoi amici, gli interminabili fogli dell'Anselmi's list, infatti, cacciavano streghe e acchiappavano fantasmi». E ancora: «improbabile guerriera. Furbizia contadina». Così un governo aveva ben pensato di ricordare la prima donna ad aver occupato l'incarico di ministro in Italia. Ad aver commissionato il testo era stata la responsabile delle Pari Opportunità Stefania Prestigiacomo. Il presidente del Consiglio era quel Silvio Berlusconi che faceva parte degli «amici di Gelli», tessera numero 1816 della loggia massonica P2, gruppo 17, settore editoria.

Non avevano mai dimenticato lei e i quasi tre anni, dall'ottobre 1981 al maggio 1984, in cui Tina Anselmi aveva presieduto la Commissione parlamentare di inchiesta sulla P2. Una sfilata ininterrotta di ministri, generali, ambasciatori, segretari di partito, direttori di giornale, banchieri, magistrati. Si giustificavano: «Enrico Manca: nel 1980 il 4 aprile entro come ministro del Commercio estero nel governo Cossiga. A fine aprile conosco Gelli a un ricevimento all'ambasciata argentina. Visita di Maurizio Costanzo, che disse di essere massone, e a nome di Gelli mi chiese se ero disponibile a aderire alla massoneria. Quando mi vidi negli elenchi di Gelli telefonai a Costanzo, ma questi mi confermò di aver telefonato a Gelli la non disponibilità...». «Bisignani (Luigi) pagato da Gelli, è ancora in rapporto con Gelli...». Apparivano untuosi, viscidi come il loro capo, di fronte a quella donna che li interrogava.

Una donna contro i poteri occulti che negli anni Settanta avevano invaso le istituzioni come cellule tumorali che avvelenano un corpo sano. Di eccezionale coraggio. E di straordinaria normalità. «Tina, nome di battaglia Gabriella, anni diciasette, giovane, come tante, nella Resistenza. Non ho mai pensato che noi ragazze e ragazzi che scegliemmo di batterci contro il nazifascismo fossimo eccezionali, ed è questo che vorrei raccontare: la nostra normalità....». Comincia così la sua autobiografia, "Storia di una passione politica" (Sperling & Kupfer), curata da Anna Vinci e pubblicata dieci anni fa. Una ragazzona del profondo Veneto, campionessa di giavellotto e pallacanestro a livello regionale, «in un tempo in cui lo sport era un'attività prevalentemente maschile», a 17 anni era entrata nella Resistenza dopo un colloquio con un'amica che aveva il fidanzato partigiano, «una ragazzina passata direttamente dalla vita in famiglia alla lotta armata». Aveva scelto il nome Gabriella come l'arcangelo Gabriele, il messaggero dell'annunciazione: staffetta partigiana, cento chilometri al giorno in bicicletta, la fame e la paura.

Non aveva mai dismesso l'abito della resistente. Neppure quando, dopo la guerra, aveva cominciato a praticare un altro sport tutto maschile, la politica. Militante dell'Azione cattolica, amica e discepola di Aldo Moro, l'unica ammessa dalla famiglia in casa durante i 55 giorni del sequestro del leader dc, eletta deputata nel 1968, prima donna a essere nominata ministro, nel 1976, a 49 anni, nel terzo governo Andreotti, ministro del Lavoro e poi ministro della Sanità. Una donna in politica che portava uno spirito inedito nelle stanze del governo: spiritosa, anti-retorica, il contrario esatto di certi successivi modelli narcisisti e tutti auto-riferiti, una che di sé scriveva, con semplicità: «La ventata di leggerezza che nella mia infanzia ha spazzato tante volte via la malinconia mi accompagnerà fino alla fine, e avrà sempre per me l'odore del cocomero di nonna Maria e del panetto con l'uva di nonno Ferruccio». Ingenua, eppure consapevole di tutte le sottigliezze della politica. Esponente di quella generazione che aveva ricostruito l'Italia e che alla politica attribuiva primato e nobiltà, non in nome di una parte ma di tutti.

Quando nel 1981 il Parlamento votò l'istituzione di una commissione di inchiesta sulla loggia di Gelli sembrava destinata a una luminosa seconda parte della carriera politica nelle istituzioni: presidente della Camera o del Senato. Invece il suo sì alla richiesta di guidare la commissione, arrivata da Nilde Iotti presidente della Camera, le cambiò la vita.

L'incontro e lo scontro con il volto oscuro del potere. Quella coltre di mistero, fango, sporcizia, ricatto che inquinava, e inquina ancora, la vita pubblica italiana. Per l'ex partigiana una sfida più rischiosa di quella con il fascismo perché più sottile, con le parti in gioco non dichiarate. La Anselmi ha raccontato giorno per giorno quegli anni nelle pagine di diario pubblicate da Chiarelettere nel 2011. La pedinarono («esco da Palazzo San Macuto e mi accorgo di essere pedinata fino a casa da un uomo di statura piuttosto bassa, robusta, dell'età di quaranta, quarantacinque anni», annota all'una e un quarto di notte l'8 febbraio 1983), indagarono su di lei («Il giorno 7 gennaio 1985 sono venuti da me Lo Presti di Treviso e un suo collaboratore. Si sono dichiarati di professione agenti investigativi privati. Mi hanno raccontato di essere stati incaricati di indagare su di me, sui miei beni, sui miei parenti, per avere elementi contro di me. Hanno rifiutato di collaborare»), fu lasciata sola dagli uomini del suo partito, la Democrazia cristiana. «Lei ritiene di non poter fare nulla per impedire che materiale giudiziario venga sfruttato contro di me. Lei aveva tutti gli strumenti per bloccare un'operazione infame. Non li vuole usare», le scriveva Flaminio Piccoli, presidente della Dc.

Dai socialisti: «Formica (Psi) mi ha detto ieri che la commissione P2 va chiusa e basta». E dall'opposizione comunista: «Non mi pare che il Pci voglia andare fino in fondo. Il gruppo pare abbandonato a se stesso. La stessa richiesta loro di non approfondire il filone servizi segreti fa pensare che temano delle verità che emergono dal periodo della solidarietà. Ipotesi: ruolo di Andreotti che li ha traditi? O coinvolgimento di qualche loro uomo?». «Nulla si può escludere, neppure che Tina Anselmi sia una calunniatrice», scrisse infine Gelli al presidente della Repubblica eletto nel 1985, Francesco Cossiga.

In tanti pensavano a lei per il Quirinale, in realtà. E poi nel 1992, quando il suo nome risuonò più volte nell'aula di Montecitorio durante le votazioni per il presidente della Repubblica e il settimanale di Michele Serra "Cuore" l'aveva candidata ufficialmente, e non c'era nessun intento satirico. E invece dopo la commissione la sua carriera politica di fatto terminò. Come aveva previsto un suo grande amico, partigiano come lei, Sandro Pertini. «Con Pertini parlano spesso del mio coraggio. Sanno che sono sola in questo compito», appuntava il 20 settembre 1983. E il 10 maggio 1984, alla chiusura dei lavori: «Visita a Pertini. Mi ringrazia per quello che ho fatto per il paese e per l'Italia. Mi conferma la sua stima e la sua amicizia, per il coraggio che ho. Annota che nel Palazzo non si avrà la volontà di andare a fondo e di accogliere la mia relazione».

«Se la loggia P2 è stata politica sommersa, essa è contro tutti noi che sediamo in questo emiciclo. Questo è il sistema democratico che in questi quaranta anni abbiamo voluto e costruito con il nostro quotidiano impegno: non può esservi posto per nicchie nascoste o burattinai di sorta», aveva concluso il suo compito il 9 gennaio 1986, presentando nell'aula della Camera il lavoro della commissione. Sono passati trent'anni, non è andato via questo odore di stantio che si avverte in molti, troppi passaggi politici e economici. Ma neppure passerà il ricordo di Tina Anselmi. La ragazza della Repubblica che non hai smesso di sorridere nei momenti più difficili. La donna che fece tremare i piccoli uomini del potere. È lei, non i traditori dello Stato che lo hanno usurpato, a meritare a pieno diritto il titolo di patriota.



COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA SULLA LOGGIA MASSONICA P2

 


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