La settima Leopolda renziana è il
capolinea della sinistra italiana. Quel poco che era rimasto della vecchia
"ditta" riformista attraversa la sua ultima stazione, dalla quale non
uscirà più, o potrà uscire solo a pezzi.
Colpisce l'asprezza dei toni con
i quali Renzi ha regolato i suoi conti con la "minoranza" del
partito, e ha lasciato che il suo popolo leopoldino gli urlasse "fuori,
fuori". Un brutto spettacolo, inutilmente rancoroso e fortemente
autoreferenziale. Soprattutto per una kermesse che ha la giusta ambizione di
parlare al Paese, non a se stessa. Ma c'è del metodo, in questa scelta renziana.
Per almeno due buone ragioni.
La prima ragione riguarda il
marketing. A un mese dal referendum
che lo vede in svantaggio, il premier ha fatto esattamente quello che doveva
fare. Con l'ennesimo testacoda, ha ri-personalizzato la campagna elettorale.
L'ha definitivamente svuotata di ragionamenti "tecnici", e l'ha
nuovamente riempita di argomenti ideologici. La posta in gioco, il 4 dicembre,
non è quindi la Costituzione riformata e l'Italicum, ma torna ad essere il
premier e il suo governo.
Renzi aveva riconosciuto il suo
errore iniziale: il voto sulla riforma costituzionale costruito come un'ordalia
su se stesso. Aveva tentato di tornare a parlare del "merito":
discutiamo solo di Senato delle autonomie, di navette parlamentari, di leggi a
data certa. Un compito arduo, un esito incerto. Perché questa riforma è un
compromesso complicato e pasticciato, difficile da "vendere" bene
agli italiani confusi (se non ai prezzi di saldo del populismo, cioè con la
promessa che serve a "mandare a casa i politici" e a far pagare il
conto alla "casta"). Con la "prosa" del tecnicismo
costituzionale il Sì non recupera i "clienti" perduti. Può farlo solo
attraverso la "poesia" del leaderismo emozionale. Solo così puoi
vincere. È la lezione di Christian Salmon, inventore dello storytelling in
politica: "Votare è comprare una storia".
Dunque, si torna alla casella di
partenza. La storia che Renzi rivende dalla Leopolda torna a raccontare il referendum
del 4 dicembre come un "derby tra la rabbia e la speranza". Come la
"guerra dei mondi": il vecchio contro il nuovo. Dove il nuovo è
ovviamente lui medesimo, garante unico del cambiamento, macchinista di "un
treno che passa ora o non ripasserà mai più". E dove il vecchio,
illividito di rabbia, non è tanto incarnato dagli avversari naturali della
sinistra, cioè i Berlusconi e i Grillo. Ma è costituito soprattutto dalla
sinistra stessa, cioè i Bersani e i D'Alema.
È contro questa sinistra, che
Renzi consuma il suo strappo finale. Lo fa con una mossa di grande astuzia. Il
compromesso sulle modifiche alle legge elettorale, firmato
anche da Cuperlo, è poco più che una "scrittura privata", che
rinvia tutto a dopo il voto. Ma in quel pezzo di carta c'è tutto quello che la
minoranza Pd aveva chiesto: l'eliminazione del ballottaggio, il premio di coalizione,
il ritorno ai collegi uninominali, perfino l'elezione diretta dei nuovi
senatori. Renzi, firmando quella carta, paga un prezzo altissimo alla coerenza
(ha sempre definito l'Italicum "una bellissima legge che tutta l'Europa ci
invidia"). Ma Bersani, negando ancora una volta la sua firma, stavolta
rischia di pagarne uno ancora più alto (se accetti di partecipare alla
commissione, e in quella sede accolgono tutto quello che hai chiesto, come fai
a rifiutare? Puoi dire che non ti fidi di Renzi, ma allora ha ragione lui a
sostenere che il tuo "movente" non è il no alla riforma, ma il no
alla sua leadership).
Ma lo fa anche con un attacco
definitivo contro "quelli che 18 anni fa decretarono la fine dell'Ulivo, e
ora stanno provando a decretare la fine del Pd". E qui sta la seconda
ragione, per la quale l'attacco di Renzi alla "ditta" non deve
stupire. Una ragione che riguarda la politica. La settima Leopolda riflette la
compiuta metamorfosi del Pd in PdR, il Partito di Renzi, per usare la formula
di Ilvo Diamanti. Un partito che può e deve fare a meno di "quella
sinistra", ormai vissuta e costruita come nemico. Perché è ormai chiaro
che il blocco sociale da aggredire, per il partito renziano trasformato in
struttura servente del leader, è quello moderato e tuttora
"congelato" dopo la diaspora berlusconiana.
Vale per il referendum di
dicembre (secondo i sondaggi che Alessandra Ghisleri ha mostrato al Cavaliere,
il 25% di italiani indecisi sarebbe attualmente diviso tra un 60% di No e un
40% di Sì, e dunque è su quel 60% che Renzi deve tentare un recupero). Ma vale
anche per il dopo (come ha riconosciuto ieri Roberto D'Alimonte sul Sole 24 Ore, se vincessero i Sì
l'unico sbocco possibile di un Italicum riscritto secondo il compromesso appena
varato sarebbe "una coalizione con Forza Italia e/o Area Popolare").
Nella narrazione renziana, nulla
si salva prima del 2014. "Quelli che c'erano prima" hanno sfasciato
il Paese e il partito. Per questo devono obbedire o scomparire. Si torna così
dove tutto era cominciato: la rottamazione come "rivoluzione".
È evidente che la sinistra ha fallito. Il problema è che, dopo aver ucciso la
"vecchia", nessuna Leopolda ci ha ancora spiegato quale sia, e
soprattutto se debba esistere, una "nuova" sinistra.
Massimo Giannini (La Repuibblica, 7 novembre 2016)
Nessun commento:
Posta un commento
Tutto quanto pubblicato in questo blog è coperto da copyright. E' quindi proibito riprodurre, copiare, utilizzare le fotografie e i testi senza il consenso dell'autore.