Sabato scorso non
ho partecipato alla manifestazione del Partito democratico a Piazza del Popolo
a Roma per sostenere il «Sì» al prossimo referendum costituzionale. È stata una
scelta meditata e sofferta perché sono un parlamentare di quel partito, ma sin
da ragazzo ho sempre pensato che fosse giusto partecipare soltanto alle
manifestazioni di cui condividevo la piattaforma politica.
Questa volta non
mi è stato possibile e, per questa ragione, mi è sembrato più serio e anche più
rispettoso nei confronti di quegli amici e compagni che sono stati a Roma non
prendere parte all'iniziativa.
In un documento accluso a questo post che si intitola «La riforma dei gattopardi. Perché voto "No" al referendum costituzionale» provo a spiegare le ragioni della mia scelta. Spero che il testo sia letto da quanti seguono l'«Huffington post», che ringrazio per l'ospitalità, e possa diffondersi sui social network e non solo per contribuire a un dibattito informato su questo importante appuntamento politico e istituzionale.
Penso che in questi mesi Matteo Renzi abbia commesso due errori che la manifestazione di sabato scorso ha sottolineato e, in qualche misura, amplificato. Anzitutto, come segretario del Pd, Renzi ha sbagliato a mobilitare il partito esclusivamente sul «Sì» al referendum costituzionale. Esistono, infatti, tanti iscritti ed elettori del nostro partito e dell'area del centrosinistra che voteranno «No» e che vorrebbero comunque continuare a sostenerci alle prossime elezioni. Costoro, a causa della scelta che hanno compiuto, sono stati messi ai margini della vita del partito e troppo spesso umiliati e ciò è stato un errore perché il Pd ha bisogno del loro impegno nella sua vita quotidiana e avrà necessità del loro sostegno alle prossime elezioni.
Ovviamente non si vuole negare che la maggioranza del Pd abbia tutto il diritto/dovere di esprimere con forza e con chiarezza una posizione a favore del «Sì» al referendum, ma sarebbe stato più saggio e più utile politicamente sostenere, allo stesso tempo, che quanti avevano maturato delle idee diverse su una materia come quella costituzionale, che di per sé è svincolata da una disciplina di partito, avrebbero potuto continuare a sentire il Pd come casa loro. Ritengo che proprio al segretario sarebbe dovuto spettare il compito di garantire a ogni livello questo diritto di espressione e di agibilità.
In un documento accluso a questo post che si intitola «La riforma dei gattopardi. Perché voto "No" al referendum costituzionale» provo a spiegare le ragioni della mia scelta. Spero che il testo sia letto da quanti seguono l'«Huffington post», che ringrazio per l'ospitalità, e possa diffondersi sui social network e non solo per contribuire a un dibattito informato su questo importante appuntamento politico e istituzionale.
Penso che in questi mesi Matteo Renzi abbia commesso due errori che la manifestazione di sabato scorso ha sottolineato e, in qualche misura, amplificato. Anzitutto, come segretario del Pd, Renzi ha sbagliato a mobilitare il partito esclusivamente sul «Sì» al referendum costituzionale. Esistono, infatti, tanti iscritti ed elettori del nostro partito e dell'area del centrosinistra che voteranno «No» e che vorrebbero comunque continuare a sostenerci alle prossime elezioni. Costoro, a causa della scelta che hanno compiuto, sono stati messi ai margini della vita del partito e troppo spesso umiliati e ciò è stato un errore perché il Pd ha bisogno del loro impegno nella sua vita quotidiana e avrà necessità del loro sostegno alle prossime elezioni.
Ovviamente non si vuole negare che la maggioranza del Pd abbia tutto il diritto/dovere di esprimere con forza e con chiarezza una posizione a favore del «Sì» al referendum, ma sarebbe stato più saggio e più utile politicamente sostenere, allo stesso tempo, che quanti avevano maturato delle idee diverse su una materia come quella costituzionale, che di per sé è svincolata da una disciplina di partito, avrebbero potuto continuare a sentire il Pd come casa loro. Ritengo che proprio al segretario sarebbe dovuto spettare il compito di garantire a ogni livello questo diritto di espressione e di agibilità.
Purtroppo, la
realtà di oggi è assai diversa: soltanto con grande difficoltà ed esplicite
pressioni da parte di singoli militanti si stanno riuscendo a organizzare in
sedi di partito confronti tra il «Sì» e il «No» come sarebbe stato normale
attendersi da un partito che si chiama democratico e che storicamente ha fatto
del confronto e della passione politica dei suoi iscritti il principale punto di
forza. Il più delle volte questa possibilità è stata negata da apposite
circolari delle federazioni e, il massimo che è stato tollerato, è un dibattito
di carattere scientifico tra due professori di diverso orientamento sul
referendum, come se fosse meglio tenere fuori da un circolo di partito un
autentico confronto politico. Si è dunque voluto applicare alla vita della
nostra organizzazione un modello «mediatico» che viene già imposto dai
responsabili della comunicazione del premier a buona parte dei principali
format televisivi nazionali: i dibattiti sul referendum possono svolgersi a
condizione, però, che non vedano un confronto tra due esponenti del Pd.
In secondo luogo, come presidente del Consiglio, Renzi ha sbagliato a scegliere la Costituzione come terreno di scontro e di lacerazione non soltanto nel Pd o nell'area del centrosinistra, ma, più in generale, nel Paese. Come se l'Italia, che ha oggi un eccezionale bisogno di coesione sociale e istituzionale, avvertisse la necessità di quest'ulteriore spaccatura sulla Carta di tutti, la casa comune chiamata a definire le regole del vivere democratico di ogni cittadino. Ciò non era mai avvenuto in settant'anni di storia repubblicana: nonostante le diversità, gli accesi dibattiti e persino gli scontri tra opposte prospettive nel campo largo della sinistra, la Costituzione ha sempre rappresentato per tutti noi un ancoraggio di sicurezza, la base solida, perché condivisa, su cui fondare la propria azione politica, civile e culturale. Sia se vincerà il «Sì», sia se prevarrà il «No» questo abito costituzionale comune risulterà comunque strappato e ci vorrà un impegno particolare per ricucirlo e ritornare a indossarlo di nuovo insieme.
Anche per questa ragione nel manifesto fondativo dei valori del Partito democratico del 2008, memori degli errori commessi in passato dalle forze politiche che avevano fondato quel partito, abbiamo scritto che «Il Partito democratico si impegna a mettere fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza». Parole e concetti puntuali che abbiamo dimostrato di avere scritto sull'acqua, tradendo lo spirito originario del Pd e la cultura politica della mitezza e della temperanza, ispirata ai valori del cattolicesimo democratico e del socialismo riformista, che dovrebbero caratterizzarlo.
Non a caso lo slogan dell'Ulivo e della cultura costituzionale del centrosinistra italiano da cui è nato il Pd era «uniti per unire», mentre oggi è come se ne avessimo adottato uno di segno opposto, ossia «divisi per dividere». Temo che questa deliberata strategia di rottura e di disarticolazione di un campo che punta a mescolare voti di provenienza diversa non porterà a nulla di buono perché finirà per favorire la destra e il Movimento 5 stelle.
In realtà, nel nostro partito e tra i miei colleghi in Parlamento sono in tanti a essere consapevoli che questa sia una riforma pasticciata e mediocre. Ma c'è una sorprendente disponibilità a tacitare questa convinzione a condizione che sia il Pd a vincere le prossime elezioni. Domani e per tanti anni ancora. In tutta evidenza non è questo lo spirito e la riserva mentale che può accompagnare una riforma della costituzione di tale portata e servirebbe un di più di prudenza e di equilibrio. Come diceva Aldo Moro, bisogna pensare non soltanto al domani, ma anche al dopodomani, avendo la sicurezza, che invece manca, che il nuovo sistema democratico e istituzionale che stiamo definendo insieme con l'«Italicum», possa e debba funzionare anche contro di noi, quando non sarà più il Pd a governare. Non è possibile modificare la Costituzione con lo spirito di chi gioca un'ultima decisiva mano di poker.
Quando pongo il problema che una vittoria del «Sì» potrebbe produrre una maggiore destabilizzazione del quadro politico ed economico perché potrebbe avvicinare le elezioni anticipate e quindi l'eventualità di una vittoria di una destra riorganizzata o del Movimento 5 stelle grazie al meccanismo del ballottaggio previsto dall'«Italicum», i miei interlocutori fanno finta di non capire, oppure si rifiutano di pensare in prospettiva e assumono una curiosa postura dannunziana che ritengono possa bastare a cambiare la realtà che viene e che stiamo in modo sciagurato contribuendo a edificare.
In ogni caso, sia se vinceranno i «No», sia se primeggeranno i «Sì», penso che, dal giorno dopo, bisognerà lavorare con tutte le energie per l'unità del Pd. Le presenti difficoltà di questo partito, infatti, sono soltanto un aspetto della più vasta e grave crisi che attraversa non da oggi il Paese. Rimango però convinto che esista una coincidenza di destino tra il pluralismo politico e culturale che deve caratterizzare la vita interna del Pd e la qualità complessiva della democrazia che l'Italia sarà destinata a vivere nei prossimi anni. Buona lettura.
In secondo luogo, come presidente del Consiglio, Renzi ha sbagliato a scegliere la Costituzione come terreno di scontro e di lacerazione non soltanto nel Pd o nell'area del centrosinistra, ma, più in generale, nel Paese. Come se l'Italia, che ha oggi un eccezionale bisogno di coesione sociale e istituzionale, avvertisse la necessità di quest'ulteriore spaccatura sulla Carta di tutti, la casa comune chiamata a definire le regole del vivere democratico di ogni cittadino. Ciò non era mai avvenuto in settant'anni di storia repubblicana: nonostante le diversità, gli accesi dibattiti e persino gli scontri tra opposte prospettive nel campo largo della sinistra, la Costituzione ha sempre rappresentato per tutti noi un ancoraggio di sicurezza, la base solida, perché condivisa, su cui fondare la propria azione politica, civile e culturale. Sia se vincerà il «Sì», sia se prevarrà il «No» questo abito costituzionale comune risulterà comunque strappato e ci vorrà un impegno particolare per ricucirlo e ritornare a indossarlo di nuovo insieme.
Anche per questa ragione nel manifesto fondativo dei valori del Partito democratico del 2008, memori degli errori commessi in passato dalle forze politiche che avevano fondato quel partito, abbiamo scritto che «Il Partito democratico si impegna a mettere fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza». Parole e concetti puntuali che abbiamo dimostrato di avere scritto sull'acqua, tradendo lo spirito originario del Pd e la cultura politica della mitezza e della temperanza, ispirata ai valori del cattolicesimo democratico e del socialismo riformista, che dovrebbero caratterizzarlo.
Non a caso lo slogan dell'Ulivo e della cultura costituzionale del centrosinistra italiano da cui è nato il Pd era «uniti per unire», mentre oggi è come se ne avessimo adottato uno di segno opposto, ossia «divisi per dividere». Temo che questa deliberata strategia di rottura e di disarticolazione di un campo che punta a mescolare voti di provenienza diversa non porterà a nulla di buono perché finirà per favorire la destra e il Movimento 5 stelle.
In realtà, nel nostro partito e tra i miei colleghi in Parlamento sono in tanti a essere consapevoli che questa sia una riforma pasticciata e mediocre. Ma c'è una sorprendente disponibilità a tacitare questa convinzione a condizione che sia il Pd a vincere le prossime elezioni. Domani e per tanti anni ancora. In tutta evidenza non è questo lo spirito e la riserva mentale che può accompagnare una riforma della costituzione di tale portata e servirebbe un di più di prudenza e di equilibrio. Come diceva Aldo Moro, bisogna pensare non soltanto al domani, ma anche al dopodomani, avendo la sicurezza, che invece manca, che il nuovo sistema democratico e istituzionale che stiamo definendo insieme con l'«Italicum», possa e debba funzionare anche contro di noi, quando non sarà più il Pd a governare. Non è possibile modificare la Costituzione con lo spirito di chi gioca un'ultima decisiva mano di poker.
Quando pongo il problema che una vittoria del «Sì» potrebbe produrre una maggiore destabilizzazione del quadro politico ed economico perché potrebbe avvicinare le elezioni anticipate e quindi l'eventualità di una vittoria di una destra riorganizzata o del Movimento 5 stelle grazie al meccanismo del ballottaggio previsto dall'«Italicum», i miei interlocutori fanno finta di non capire, oppure si rifiutano di pensare in prospettiva e assumono una curiosa postura dannunziana che ritengono possa bastare a cambiare la realtà che viene e che stiamo in modo sciagurato contribuendo a edificare.
In ogni caso, sia se vinceranno i «No», sia se primeggeranno i «Sì», penso che, dal giorno dopo, bisognerà lavorare con tutte le energie per l'unità del Pd. Le presenti difficoltà di questo partito, infatti, sono soltanto un aspetto della più vasta e grave crisi che attraversa non da oggi il Paese. Rimango però convinto che esista una coincidenza di destino tra il pluralismo politico e culturale che deve caratterizzare la vita interna del Pd e la qualità complessiva della democrazia che l'Italia sarà destinata a vivere nei prossimi anni. Buona lettura.
Miguel Gotor (www.huffingtonpost.it)
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La riforma dei gattopardi - Perché voto «No» al
referendum costituzionale
Ho
deciso di votare «No» al prossimo
referendum istituzionale utilizzando la libertà di coscienza in materia
costituzionale che il carattere liberale del Partito democratico concede ai suoi
iscritti ed elettori.
Tanti
iscritti ed elettori del Partito democratico e dell’area del centrosinistra sceglieranno il «No» ed è giusto che abbiano
una rappresentanza anche politica e non soltanto associativa grazie
all’importante impegno dell’Anpi o sindacale con la significativa scelta di campo
della Cgil.
Desidero
chiarire subito un aspetto. Ritengo che non debba esserci automatismo alcuno tra
un’eventuale affermazione dei «No» e una crisi di governo. Questa lettura è il
risultato di un meccanismo di personalizzazione della consultazione
impropriamente innescato dal Presidente del Consiglio che è arrivato a
minacciare le sue dimissioni, il voto anticipato e addirittura l’abbandono
della vita politica in caso di vittoria del «No». Un ricatto da respingere,
perché non deve esserci relazione tra la vita di un governo, legato a una
maggioranza, e la Costituzione, che invece riguarda tutti i cittadini italiani,
opposizione compresa.
Durante
la Costituente, gli esecutivi e le maggioranze cambiarono, ma i lavori per la
Carta proseguirono ugualmente nonostante una temperie storica e politica molto più
difficile e potenzialmente lacerante di quella attuale.
Dal
momento che il referendum continua a essere presentato come un giudizio finale
tra il bene e il male, un’inverosimile scelta tra l’Eldorado che ci
attenderebbe e un cumulo di macerie da cui saremmo sommersi, corrisponde
all’interesse nazionale che non siano soltanto la destra e il Movimento 5
Stelle a potersi intestare l’eventuale vittoria dei «No», ma anche una parte
significativa della sinistra riformista del nostro partito.
In
ogni caso, sia che vincessero i «No», sia se prevalessero i «Sì», penso che,
dal giorno dopo, bisognerà lavorare con tutte le energie per l’unità del Pd. Le
difficoltà di questo partito, infatti, sono soltanto un aspetto della più vasta
e grave crisi di sistema che attraversa il Paese, ma resto convinto che esista
una coincidenza di destino tra il pluralismo politico e culturale che deve
caratterizzare la vita interna del Pd e la qualità complessiva della democrazia
in Italia. In questa coincidenza si esprime la funzione nazionale di questo
partito, qualcosa di più importante dell’esito referendario.
Il comportamento parlamentare e gli impegni non rispettati
Voto
«No» al prossimo referendum costituzionale in particolare perché non mi
persuade la relazione tra la nuova riforma del Senato e la legge elettorale
denominata «Italicum». Nel corso delle tre letture parlamentari della Riforma
costituzionale ho votato a favore per senso di responsabilità nei riguardi del
governo guidato dal segretario del mio partito. E queste non sono parole vuote
o di circostanza perché hanno costituito il punto saliente e condizionante di
tutta la questione.
Non
ho votato invece l’«Italicum», insieme con altri 24 senatori del Partito
democratico e ho condiviso la scelta di 38 deputati (fra cui Pierluigi Bersani,
Rosy Bindi, Gianni Cuperlo, Guglielmo Epifani, Enrico Letta e Roberto Speranza,
che si è anche dimesso da capogruppo) di non votarlo alla Camera nonostante il
governo, del tutto irritualmente, avesse imposto la fiducia. Uno strappo
procedurale che in 150 anni di storia italiana era accaduto soltanto due volte:
nel 1923, sotto il fascismo, con la «legge Acerbo», e nel 1953, ai tempi della
Guerra fredda, con la cosiddetta «legge truffa».
La
sofferta decisione di votare la riforma del Senato e non votare l’«Italicum» (i
due atti vanno giudicati insieme perché sono il prodotto di un comportamento
parlamentare unitario) non è riuscita ad attutire la consapevolezza che, nel corso
delle due letture del Senato, mi fosse stato presentato un abito costituzionale
macchiato e con diversi buchi. Ho provato a rammendarlo con un’ottica di
riduzione del danno, ma il risultato finale che ora si presenta al giudizio del
popolo italiano mi impedisce con serena coscienza di parlamentare e di
cittadino di indossarlo.
Essendo
di cultura riformista, mi sono impegnato, nelle prime due letture, a migliorare
il testo come era mio dovere di senatore fare, ma ciò è avvenuto in condizioni
politiche assai difficili poiché ogni votazione è stata impropriamente
trasformata in una sorta di voto di fiducia sull’esecutivo e qualsiasi proposta
di intervento considerata alla stregua di un sabotaggio dell’intero progetto
riformatore a opera di un gruppo di dissidenti. Quel clima di ieri, basato sulla
polarizzazione amico/nemico e popolato da «gufi», «sabotatori», «professoroni»
e «vietcong», non è stato dimenticato e condiziona la mia scelta di oggi perché
rivela un tipo di cultura democratica e, al fondo, un tratto illiberale in cui
fatico a riconoscermi.
Occorre,
infine, sottolineare che ho votato per la terza e ultima volta la riforma costituzionale
a condizione che si modificasse radicalmente l’«Italicum» prima del referendum e
che fosse definita una legge per l’elezione dei nuovi senatori in conformità
con la volontà popolare. Questi due impegni, presi oltre un anno fa e
accompagnati da due puntuali proposte di legge firmate da oltre venti senatori
del Partito democratico, sono stati entrambi disattesi dal governo e dalla
maggioranza del Partito democratico e il loro rispetto non è serio pensare
possa
essere
rinviato a dopo la celebrazione del referendum.
Semmai
la commissione del Partito democratico di recente istituita dovesse raggiungere
un punto di incontro condiviso da tutto il partito su una nuova legge elettorale
che abolisca il ballottaggio, dia vita a collegi uninominali piccoli e assegni
un premio di maggioranza ragionevole, questo risultato sarebbe un contributo
importante al dibattito sia nel caso in cui vincessero i «Sì», sia se
prevalessero i «No». Nel frattempo, in assenza di un impegno parlamentare della
maggioranza di governo simile a quello profuso da Matteo Renzi per varare l’«Italicum»
(che allora non istituì commissioni di partito, ma impose la fiducia al
Parlamento), è bene adoperarsi per il successo del «No». La realtà, infatti,
dice che proprio l’«Italicum» è la legge elettorale ormai in vigore dal 1°
luglio 2016. Anche perché, dopo un’eventuale vittoria dei «Sì», sarebbe troppo
forte la tentazione di non modificare l’«Italicum», o compiere un modesto
quanto insufficiente maquillage, magari obbligati da una moderata prescrizione
della Corte costituzionale: del resto, lo stesso presidente del Consiglio,
mentre con la mano sinistra sostiene di avere l’intenzione di cambiarla, con la
mano destra continua a dichiarare che essa sia un’ottima legge.
Cambiare tanto per cambiare? No, grazie
Voto
«No» perché in ambito costituzionale
non vale il principio «piuttosto che niente, meglio piuttosto»: se quel
«piuttosto» peggiora la qualità della democrazia del Paese in cui viviamo ci si assume per pigrizia o per
conformismo una responsabilità assai grave che inciderà sulla nostra vita e su
quella dei nostri figli.
Il
presupposto di un cambiamento è che il nuovo sia migliore dell’esistente. In
questo caso, sono convinto non sia così. Una politica che aspira a essere seria
e responsabile ha sempre il dovere di chiedersi quale trasformazione serve al
Paese e quale direzione (progressiva o regressiva) essa deve assumere. Di
conseguenza non può e non deve proporre il cambiamento per il cambiamento,
altrimenti si rischia d’imboccare la solita scorciatoia gattopardesca per cui «Se
vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».
La
Costituzione è un bene comune della convivenza civile e politica, non una legge
ordinaria figlia della contingenza o degli interessi di una singola parte. Per
modificarla, in questa XVII legislatura, si è dunque seguito un percorso
sbagliato, drammatizzando un passaggio che avrebbe dovuto imporre spirito di
coesione e ricerca della massima unità possibile. Per questa ragione non sono
disposto a sottomettermi all’invocazione di una presunta responsabilità, da
molti sollecitata come uscita dalle secche dell’attuale situazione: quanti si sono
assunti il compito di provocare un incendio e un clima di emergenza nazionale
su un tema fondamentale come la Carta costituzionale, oltretutto in un momento
tanto delicato della vita del Paese, hanno il dovere di provare a spegnere le
fiamme e non possono chiedere a chi non era d’accordo con quel modo di
procedere di votare comunque «Sì» per salvare il salvabile. A maggior ragione
se nel fare quell’appello ammettono di avere partorito un lavoro imperfetto e lacunoso:
stiamo parlando della Costituzione, non di un regolamento di condominio che alla
prossima riunione potremo modificare di nuovo.
Pd, 2008: «...mettere fine alla stagione delle riforme
costituzionali imposte a colpi di maggioranza...»
Neppure
è vero che oggi finalmente stiamo realizzando ciò che in passato non era mai riuscito
a nessuno di fare, come rozzamente viene propagandato puntando sulla
smemoratezza o la disattenzione dei cittadini. Al contrario siamo davanti a un
film già visto: negli ultimi quindici anni ci sono stati ben tre interventi di
riforma costituzionale (compreso l’attuale) che hanno interessato la seconda
parte della Carta. Anzi, in questo arco di tempo, i partiti hanno scaricato
sulle istituzioni le proprie difficoltà e hanno consentito che si affermasse,
anche in ambito costituzionale, una visione dirigista e tecnocratica della vita
politica. In forza di questo disegno si pretenderebbe di regolare dall’alto,
con un’operazione di ingegneria istituzionale, le pulsioni e gli istinti di una
società sempre più tormentata. In realtà, siamo davanti a una crisi politica e
non costituzionale: partiti sempre più inefficienti e una politica sempre più
debole e squalificata hanno attribuito alla Carta le responsabilità delle proprie
inadempienze, alimentando un’incertezza assai più grave e dannosa - perché
riguardante direttamente le istituzioni - della precarietà che può accompagnare
la vita di un singolo governo.
L’unica
distinzione possibile, quando si parla di riforme, è quella che le divide in
buone e cattive, differenziandole in utili o dannose rispetto ai sovrani
interessi dei cittadini. Nel 2001 il centrosinistra riformò il Titolo V della
Costituzione, ossia i rapporti tra Stato centrale e autonomie locali. Quella
riforma fu approvata da un referendum come quello che il 4 dicembre avrà in
oggetto anche la correzione dell’intervento del 2001, giudicato frettoloso e
sbagliato. Nel 2005 il centrodestra propose la «devolution», una revisione
della forma di governo e un
taglio
del numero dei parlamentari che invece vennero bocciati dagli elettori in
un’analoga consultazione referendaria.
Ciò
che caratterizzava questi due progetti di riforma (uno approvato e l’altro
respinto dagli elettori dopo che entrambi avevano terminato il loro percorso
parlamentare proprio come è avvenuto oggi) è un errore che stiamo ripetendo
anche oggi con un eccesso di leggerezza: essi furono approvati in Parlamento da
un’esigua maggioranza, contraddicendo lo spirito dell’articolo 138 della
Costituzione, il quale richiede il massimo impegno affinché si ricerchino maggioranze
le più larghe possibili e si facciano convergere sulla riforma della Carta
anche le forze di opposizione, tutte o almeno in parte.
A
questo proposito è bene ricordare che il Manifesto dei Valori del Partito
democratico, approvato il 16 febbraio 2008, memore degli errori commessi nel
2001 dalle forze politiche che avevano contribuito a costituire il nuovo
soggetto politico, specificava che «La sicurezza dei diritti e delle libertà di
ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non
è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione
e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito democratico si impegna perciò a
ristabilire la supremazia
della
Costituzione e a difendere la stabilità, a mettere fine alla stagione delle
riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza». Parole e concetti
puntuali che oggi stiamo dimostrando di avere scritto sull’acqua, tradendo lo
spirito originario del Partito democratico e la cultura politica della mitezza
e della temperanza, ispirata ai valori del cattolicesimo democratico e del
socialismo riformista, che dovrebbero caratterizzarlo.
Il referendum come plebiscito
Nonostante
i Manifesti e i Valori, anche stavolta si è proceduto con una maggioranza ristretta
pressoché coincidente con quella di governo. Ciò ha comportato il ricorso al referendum,
di cui, tuttavia, per la prima volta, è stato fatto un inaccettabile utilizzo plebiscitario:
non più, in ragione della sua natura «oppositiva», uno strumento in mano alle minoranze
per rovesciare il risultato parlamentare con il voto popolare, ma la leva con
cui celebrare, a legislatura e governo invariati (contrariamente a quanto
accadde nel 2001 e nel 2005-2006) l’azione di un esecutivo e di una maggioranza
che hanno preteso di guidare in modo improprio ed esorbitante il processo
riformatore. Ecco allora un referendum trasformato in una sorta di giudizio di
Dio: prima di me era il deserto e ora, senza di me, sarà l’apocalisse, con un
condizionamento, implicito ed esplicito, sull’intero sistema politico e il
rischio di esporre l’Italia, in modo gratuito e sconsiderato, agli assalti di
un’eventuale speculazione finanziaria internazionale.
Condivido
quanto di recente ha scritto Alfredo Reichlin: «Ma di che cosa stiamo parlando?
Del Senato? Suvvia, è l’ininterrotto parlare, annunciare, promettere,
“rottamare” dello stesso Matteo Renzi che ci dice la verità. È su di lui che
egli ci chiede ogni giorno più chiaramente di votare. Egli chiede un
plebiscito. Non è chiaro? Questo è il punto, gravido di enormi conseguenze.
Avverrà che milioni di italiani si scontreranno in modo lacerante e drammatico
sul voto popolare e diretto del Capo del governo. Ponendo fine così di fatto al
regime parlamentare e all’attuale divisione dei poteri. E temo che un solco
resterà e tutta la comunità nazionale già così divisa ne pagherà le
conseguenze. A me questo non sta bene. È
chiaro?».
Si, è chiaro.
L’ultimo paradosso: cambiare la Costituzione a
maggioranza, grazie a un premio di maggioranza giudicato incostituzionale
Voto
«No» perché la sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale, che ha
dichiarato incostituzionale il premio di maggioranza del «Porcellum», ha
certamente garantito la piena operatività dell’attuale Parlamento, ma un
cambiamento di ben 47 articoli della Carta sarebbe dovuto avvenire a seguito di
un esplicito mandato popolare e non grazie a un premio di maggioranza giudicato
incostituzionale. Si rischia, infatti, un paradosso destinato ad aumentare la
crisi di legittimità delle istituzioni: soltanto un premio di maggioranza
dichiarato incostituzionale dalla Corte ha consentito di approvare a
maggioranza ristretta in Parlamento una così ampia riforma della Costituzione. Le
condizioni venutesi a creare nel 2014, dopo la sentenza della Corte, avrebbero
dovuto suggerire alle forze politiche di esibire un sovrappiù di sforzo
unitario per convogliare sulla riforma una larghissima maggioranza
parlamentare; non di avanzare a colpi di «canguri» e di forzature procedurali,
come l’allontanamento dalla Commissione affari costituzionali dei parlamentari
che non condividevano la linea dell’esecutivo; non di trasformare l’esame di
ogni singolo emendamento in una sorta di voto di fiducia sul governo. Enrico
Letta da Presidente del Consiglio si mostrò ben altrimenti sensibile, quando
prospettò che le Commissioni affari costituzionali della Camera e del Senato,
incaricate di discutere in sede congiunta la riforma costituzionale, fossero
composte secondo un rigoroso criterio proporzionale, al netto cioè del premio
di maggioranza assegnato nel 2013: una condotta assai più rispettosa di
elementari regole democratiche.
Una riforma mediocre per una democrazia più povera
Di
là da questi aspetti procedurali, che pure qualificano l’azione politica
dispiegata sin qui, quella che stiamo discutendo è una mediocre riforma perché,
riducendo gli spazi di partecipazione e di rappresentanza, impoverisce la
democrazia italiana; perché centralizza in modo eccessivo le competenze
regionali, ridotte a mera amministrazione, frenando il cammino verso un assetto
più autonomo, federalista e partecipato dello Stato che ha sempre costituito l’obiettivo
delle forze politiche del centrosinistra legate alla tradizione dell’Ulivo e
del Partito democratico; perché non abolisce il Senato, come propagandato, ma
lo
trasforma in una Camera debole e con scarsi poteri, potenzialmente destinata ad
avere una funzione ostruzionistica o di freno nel caso, non peregrino, in cui
vi sia una maggioranza diversa da quella di governo alla Camera; perché adotta
un procedimento legislativo, che resta bicamerale, così farraginoso e confuso
(è stata contata fino a una decina di differenti procedure) che produrrà
continui conflitti e quindi ricorsi; perché un Senato che si vorrebbe delle
regioni non comprende i governatori eletti direttamente dal popolo, ma ospita
cinque personalità scelte dal presidente della Repubblica «che hanno illustrato
la patria» (si immagina a livello nazionale e internazionale), le quali
siederanno, inspiegabilmente, dove sono rappresentati gli enti locali e non presso
la Camera dei deputati come sarebbe stato logico; perché dilata ulteriormente
la distanza tra le regioni ordinarie e quelle a statuto speciale aumentando gli
squilibri già esistenti anziché ridurli come sarebbe stato ragionevole
nell’attuale fase storica. La riforma della Costituzione deve essere il
risultato di un consenso ampio maturato tra le forze politiche perché costituisce
un patrimonio destinato a durare nel tempo. Non può essere ridotta al rango di
una legge ordinaria sottoposta a referendum che cambia sotto ogni esecutivo: la
stabilità delle istituzioni è più importante della stabilità degli esecutivi e
stiamo creando un pericoloso precedente che altri potranno sfruttare al nostro
posto e contro di noi.
L’incrocio pericoloso tra riforma costituzionale e
«Italicum»
Sono
convinto che entrambi i progetti di riforma, quello costituzionale e quello elettorale,
vadano valutati congiuntamente e, se funzionanti, debbano girare insieme come
le due lancette di un unico orologio democratico. Così non è, perché il
rapporto tra la legge elettorale e la riforma della Costituzione (il cosiddetto
“combinato disposto”) va a modificare in peggio e in modo surrettizio il
funzionamento complessivo del nostro meccanismo istituzionale. Anzitutto riduce
gli spazi di partecipazione, con una maggioranza di deputati e di nuovi
senatori nominati dalle segreterie dei partiti o dai consiglieri regionali e
non dai cittadini; in secondo luogo istituisce un «premierato assoluto» o un
«semipresidenzialismo del premier», in ragione del fatto che, in pratica, il
presidente del Consiglio sarà eletto direttamente dal popolo senza che siano
stati previsti i giusti equilibri e contrappesi istituzionali. Ciò avverrà con
un premio maggioritario che sarà assegnatonazionalmente alla stregua di un jackpot
al vincitore (che potrebbe essere anche espressione di una ristretta minoranza
di elettori) e non si formerà dal basso, mediante una competizione virtuosa
collegio per collegio, come avviene nei sistemi uninominali tradizionali.
Di
conseguenza il capo così eletto trascinerà dietro di sé in modo automatico la
rappresentanza parlamentare, a detrimento della necessaria autonomia che deve
intercorrere tra potere esecutivo e potere legislativo. Non a caso nei sistemi
presidenziali, come quello statunitense, o semipresidenziali, come quello
francese, il momento elettivo della carica monocratica è separato sul piano
istituzionale e temporale dall’elezione dei parlamenti.
L’obiettivo
di questa riforma, non dichiarato pubblicamente, ma evidente nelle conseguenze
pratiche e materiali, è quello di trasformare il presidente del Consiglio in un
sindaco d’Italia che riduce i singoli ministri al rango di assessori e l’unica
Camera che dà la fiducia al livello di un consiglio comunale, che decade in
automatico insieme con il sindaco. Un sistema rigido e centralizzato, pertanto,
privo di quella flessibilità necessaria a governare una società complessa e
moderna e che rischia, nel caso di una crisi istituzionale o politica, di produrre
inediti conflitti con il presidente della Repubblica.
Ora
il referendum costituzionale, nel caso in cui prevalessero i «No», fornisce l’occasione
indiretta, ma risolutiva per abrogare in via definitiva l’«Italicum» in forza
del voto popolare: la legge è stata infatti pensata per una sola Camera
elettiva, a ulteriore riprova dello stretto rapporto che essa ha con la
riforma.
L’illusione della governabilità senza rappresentanza e
il populismo omeopatico del governo
La
nuova legge elettorale combinata con la riforma del Senato rischia di
peggiorare la qualità della democrazia italiana, la quale possiede una sua
natura parlamentare. Una sola Camera che dà la fiducia non può venire eletta
con l’«Italicum», ma deve essere al massimo rappresentativa (ad esempio, con
collegi uninominali piccoli e non formati da 600 mila elettori come avverrebbe
con la nuova legge) e con un premio di maggioranza ragionevole e proporzionato.
Non è possibile, infatti, avere la pretesa di sostituire i cittadini che votano
sempre di meno con il doping maggioritario del ballottaggio che moltiplica
pochi voti in tanti seggi né è giusto continuare ad attribuire sempre maggiori
poteri a chi governa, mentre contemporaneamente diminuiscono il consenso e le forme
di partecipazione degli elettori. La governabilità non scaturisce e non è
garantita da una formula aritmetica e non esaurisce da sola la «questione
democratica». Deve invece poter godere di un rapporto equilibrato con la rappresentanza
e con la partecipazione attiva dei cittadini, i quali hanno il diritto di
scegliere i propri parlamentari e controllare il loro operato.
Questo
non è soltanto il valore cardine di una forza di sinistra e un discrimine tra
noi e le tendenze all’oligarchia tipiche di certa destra liberale,
conservatrice o reazionaria, ma è anche l’unico modo possibile con cui provare
ad affrontare l’ondata di populismo e di ribellione anti-establishment che
caratterizza questa fase della vita delle democrazie in Italia e non solo. Se
la politica del centrosinistra pensa che la soluzione degli attuali affanni democratici
si possa trovare assumendo dosi omeopatiche di populismo di governo commette un
gravissimo errore di valutazione perché sarà disarcionata dalla tigre che prova
a cavalcare; sarà destinata a soccombere con ignominia se ritiene possibile
chiudersi in una cittadella fortificata di privilegi e di tecniche, da dove
sviluppare un gigantesco scontro con le cosiddette forze antisistema usando le
armi del direttismo e del plebiscitarismo e contemporaneamente scolorendo le
proprie bandiere.
Il grande inganno sui costi della politica
Voto
«No» perché non mi persuade l’idea che spiega la riforma alla luce della
riduzione dei costi della politica. Stiamo parlando della Costituzione, la
nostra carta fondamentale, che si cambia per essere più efficienti, ma non per
risparmiare delle cifre, peraltro, irrisorie nell’ambito del bilancio
complessivo di uno Stato. Secondo un documento della Ragioneria centrale dello
Stato, i possibili edeventuali risparmi ammonteranno a circa 50 milioni di
euro, l’equivalente di un caffè al giorno per ciascun italiano, mentre il 90
per cento delle spese vive per il funzionamento del Senato delle autonomie
resteranno invariate, compresi i rimborsi spese da versare ai nuovi senatori. A
proposito di mancati risparmi di un recente passato, l’attuale governo, per
rendere più difficile il raggiungimento del quorum al recente referendum sulle trivelle,
non ha voluto accorpare la consultazione popolare alle elezioni amministrative
e questa decisione è costata da sola circa 300 milioni di euro ai contribuenti
italiani.
La
riforma della Costituzione cambia il 54 per cento degli articoli della parte
seconda della carta, ma soltanto due darebbero luogo a presunti risparmi di
spesa (quello relativo alla composizione del Senato e quello che abolisce il
Cnel), anche se essi occupano i tre quinti degli argomenti riportati nel
quesito stampato sulla scheda referendaria. Mi sembra questo un approccio
populista e demagogico che non giustifica la modifica di ben 47 articoli della Costituzione.
Ciò va sottolineato anche in considerazione del fatto che un maggiore e condivisibile
contenimento dei costi della politica si sarebbe potuto raggiungere e si
dovrebbe raggiungere, in modo più efficace, con una legge ordinaria.
Inoltre,
sarebbe stato più corretto da un punto di vista istituzionale diminuire in modo
equilibrato e proporzionale sia il numero dei senatori, sia quello dei
deputati, anche perché questi ultimi, - ben 630 come se l’Italia si trovasse
ancora nelle condizioni di mobilità del dopoguerra - continuano a essere tra i
più numerosi in Europa rispetto alla popolazione nazionale. Ciò è stato fatto
con l’unico obiettivo di conquistarsi il consenso parlamentare di Montecitorio
al progetto di riforma costituzionale, ma così si è rinunciato a ottenere
risparmi più apprezzabili e una maggiore efficienza della macchina
parlamentare. Inoltre, questa scelta ha creato evidenti squilibri nella
proporzione tra i componenti delle due camere (un senatore ogni sei deputati)
che rischia di riflettersi nell’elezione degli organi di garanzia
costituzionale perché sono mutati i rapporti tra Camera e Senato (Consiglio
superiore della magistratura e presidente della Repubblica).
L’indebolimento indiretto del ruolo di garanzia del
presidente della Repubblica
Voto
«No» perché un’ulteriore manifestazione degli effetti perversi dell’«Italicum»,
in relazione al fatto che nella riforma costituzionale non si è voluto ridurre
in modo proporzionale sia i deputati sia
senatori, riguarda il ruolo del presidente della Repubblica. Si tratta di un effetto
indiretto, ma non per questo meno rilevante, anche perché una modifica
costituzionale non può essere misurata col metro della contingenza politica, ma
deve essere in grado di funzionare anche in contesti storico-politici assai
distanti da quelli attuali.
Il
problema concerne l’articolo 90 della Costituzione, che, pur non essendo stato formalmente
toccato dall’attuale riforma costituzionale, subisce lo stesso un sostanziale indebolimento.
Esso prevede che il presidente della Repubblica possa essere messo in stato di accusa
«per alto tradimento o per attentato alla Costituzione» dal «Parlamento in
seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri».
Allo
stato attuale la maggioranza assoluta del Parlamento riunito in seduta comune corrisponde
a 476 parlamentari basata su una platea formata da 630 deputati, 315 senatori e
5 senatori a vita. Tuttavia, con il nuovo Senato, quella maggioranza assoluta
si ridurrebbe a 366 parlamentari (630 deputati e 100 senatori). Occorre però
rilevare che con l’«Italicum», all’unica lista vincente saranno assegnati 340
deputati. Ciò significa che gliene mancherebbero soltanto 26 per mettere da
sola in stato d’accusa il presidente della Repubblica. In verità anche meno, poiché
i 12 deputati della circoscrizione estero potrebbero aggiungersi al premio di maggioranza,
tutti o in parte. In ogni caso, quella porzione di parlamentari mancante
potrebbe agevolmente trovarsi controllando il 26 per cento del nuovo Senato,
tra sindaci o consiglieri regionali.
Ne
deriva che per la prima volta nella storia della Repubblica una sola forza
politica, costituita in forza di legge in autosufficiente maggioranza di
governo, avrebbe la concreta possibilità di minacciare la messa in stato
d’accusa del capo dello Stato, che quindi risulterebbe indebolito nel suo
supremo ruolo di garante. Mi sembra un problema rilevante e sottovalutato anche
in considerazione del fatto che l’elezione in pratica diretta del premier
introdotta dall’«Italicum», ove si parla esplicitamente del «capo della forza
politica» che si «candida a governare», già attenua la potestà del presidente
della Repubblica di nominare il presidente del Consiglio fissata dall’articolo
92 della Costituzione.
Naturalmente,
il problema, dal mio punto di vista, non riguarda Renzi o il Partito democratico,
ma gli equilibri e i rapporti di forza che si potranno venire a creare tra
cinque, dieci, quindici anni e che nessuno oggi è in grado di prevedere. Come è
noto, infatti, la Costituzione è quella legge fondamentale che i popoli si
danno da sobri, ma deve valere se e quando saranno ubriachi.
Senato delle regioni? No, centralista e che tradisce
lo spirito federalista dell’Ulivo
Voto
«No» perché non mi convince un Senato come quello delineato dalla riforma, composto
da consiglieri regionali e da sindaci che vi si impegneranno a metà tempo, come
fosse un dopolavoro. Così facendo, essi rischiano di svolgere male entrambe le
loro funzioni, tanto più che oggi, a livello locale, sia il lavoro di sindaco
sia quello di consigliere regionale richiede un impegno a tempo pieno. Inoltre
i senatori che comporranno la nuova istituzione saranno legati al proprio
partito di origine e non alla regione di provenienza contraddicendo il principio
cardine di un autentico Senato delle autonomie come quello previsto dalle tesi dell’Ulivo
del 1996.
Con
questa riforma, invece di attuarlo, stiamo tradendo l’articolo 5 della
Costituzione in cui si afferma che «la Repubblica una e indivisibile riconosce
e promuove le autonomie locali e attua il più ampio decentramento
amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze
delle autonomie e del decentramento». Si stabilisce la scomparsa delle materie
concorrenti fra Stato e Regioni in modo troppo rigido e schematico,
introducendo una clausola di supremazia a favore dello Stato che servirà a
garantire una potente ricentralizzazione in contraddizione con lo spirito
federalista e autonomista delle culture riformatrici del centrosinistra e
dell’Ulivo.
L’attuale
riforma, infatti, attribuisce alle regioni la potestà legislativa di dettaglio
mentre riserva alla legge dello Stato i principi fondamentali, ossia le
«disposizioni generali e comuni». Alle regioni resterà una sorta di competenza
integrativa e attuativa che non considera il fatto che il centralismo
amministrativo e burocratico ha già prodotto gravi danni nella storia d’Italia in
termini di inefficienza, sclerosi burocratica e corruzione.
Contro l’immunità dei nuovi senatori, ulteriore
incentivo al degrado del sistema
Voto
«No» perché i nuovi senatori potranno godere del diritto all’immunità che
finora era riservato ai rappresentanti della nazione e non agli esponenti delle
autonomie locali. Non si capisce per quale ragione un consigliere regionale
nominato senatore, a differenza dei loro colleghi di Consiglio regionale o
sindaci sul territorio, debba avere non soltanto l’insindacabilità legata
all’esercizio del proprio mandato, ma anche l’immunità di carattere personale
(posta, arresti, perquisizioni, intercettazioni). Il gravissimo rischio è
quello che al Senato siano inviati quegli amministratori locali che, forti
della tutela dell’immunità, saranno più predisposti a commettere reati, a
detrimento del prestigio dell’istituzione stessa e dell’intero sistema politico
e istituzionale.
No al Partito della nazione. Per il futuro ulivista
del Partito democratico e per un nuovo centrosinistra di governo
Voto
«No», infine, per una ragione politica che riguarda il presente e il futuro del
Partito democratico e, più complessivamente, l’evoluzione del sistema politico
italiano. La drammatizzazione del referendum lo ha presentato come fosse uno
spartiacque epocale tra un prima e un dopo. E non sono mancati quanti pensano
che il fronte del «Sì» e i relativi comitati possano costituire il laboratorio
di uno schieramento o, addirittura, di un nuovo “Partito della nazione” che
muova dal Pd, ma vada oltre il Pd, divenuto il fulcro di un diverso equilibrio
neo-centrista e neo-moderato all’insegna del consociativismo e del trasformismo
più deteriore. Una sorta di partito unico di governo, posizionato al centro,
che ammaina le bandiere della sinistra per consegnarsi ad alleanze anche con la
destra e con le forze moderate. Una prospettiva quattro volte erronea: perché
snatura il confronto referendario, perché allontana il sistema politico dal
valore fondamentale dell’alternanza, perché lo definisce in modo potenzialmente
esplosivo intorno alla polarità sistema/antisistema, perché modifica il profilo
costituente del Partito democratico quale partito di centrosinistra. Il Partito
democratico è nato per essere una grande forza riformista di centrosinistra e
tale deve rimanere: i segretari passano, ma il progetto resta perché è dentro
la storia di questo Paese. Ha le sue radici nell’Ulivo e la sua missione è quella
di tenere insieme forze civiche di matrice liberaldemocratica, l’esperienza
della cultura cattolica democratica e l’impegno di una sinistra radicale, ma
non massimalista, che voglia affrontare la sfida del governo.
Preferisco
non aderire direttamente ai comitati per il «No», pur condividendone il compito
e gli obiettivi, ma mi impegno a partecipare alle iniziative volte a favorire
una vittoria di questo schieramento. Sono consapevole che un referendum, il
momento più alto di mobilitazione civile e politica dei cittadini previsto
dalla nostra Costituzione, si vinca parlando con i disinteressati e gli
incerti, svolgendo un’azione di persuasione quotidiana presso i famigliari, gli
amici e nei luoghi di lavoro. Come si diceva una volta: andando casaper casa. È
per questa ragione che auguro a tutti i miei lettori una buona e libera
campagna, fondata su un impegno in prima persona nel supremo interesse del bene
comune. In gioco è la Costituzione italiana, figlia della Resistenza e dello
spirito costituente dei nostri padri.
E dopo il 4 dicembre?
Dopo
il 4 dicembre, nonostante il catastrofismo di certa propaganda governativa,
l’Italia ci sarà ancora, con le sue virtù e i suoi difetti e un vasto campo di
problemi da risolvere. Se vinceranno i «Sì» lo scioglimento delle Camere e le
elezioni anticipate saranno più probabili e vicine così come il rischio assai
concreto che, grazie al meccanismo del ballottaggio previsto dall’«Italicum»,
possano prevalere il Movimento 5 stelle oppure una destra riorganizzata e di nuovo
competitiva. Del resto un’analisi obiettiva dei risultati delle ultime elezioni
amministrative suggerirebbe un di più di prudenza e di riflessione.
Se
vinceranno i «No» ci sarà una maggiore stabilità e la legislatura arriverà al
suo naturale compimento. Sarà anzitutto necessario scrivere una nuova legge
elettorale che risponda agli interessi di un sistema ormai tripolare, in cui la
giusta esigenza della governabilità e la non meno importante necessità di
rappresentare una società sempre più inquieta siano tenuti insieme.
Il
successo del «No» imporrebbe al Pd di collaborare nella riparazione dei danni prodotti,
al fine di non scaricare sugli elettori le incongruenze del sistema. Rispettare
la volontà popolare vorrebbe dire impegnarsi nel proseguimento della
legislatura, abbandonando la linea del continuo raddoppio di ogni posta, che
alla lunga finisce per destabilizzare la società italiana. Ovviamente, un
analogo impegno dovrebbe essere preso anche se vincessero i «Sì» perché in ogni
caso sarà necessario scrivere le tante (troppe) pagine bianche di questa
riforma. E bisognerà farlo con lo spirito che finora non c'è stato: quello di coinvolgere
il più ampio arco di forze politiche, cercando di costruire delle regole e una
prassi il più possibile condivisa.
L’attuale
legislatura avrà davanti a sé esattamente un anno di vita e sarebbe importante provare
a non disperdere il patrimonio di riformismo costituzionale accumulato con l’esperienza
del Governo Letta e con quella del Governo Renzi. Senza ripetere gli stessi errori.
Ad esempio, in un anno di tempo è possibile realizzare a larga maggioranza
costituzionale pochi essenziali interventi chirurgici riguardanti la
diminuzione proporzionale e bilanciata del numero di deputati e di senatori e
l’istituzione di una Commissione di conciliazione tra Camera e Senato, sul
modello americano, che esamini le leggi e licenzi i testi definitivi in caso di
lettura difforme da parte della Camera e del Senato. Un primo passo di una
riforma seria e condivisa tra le forze politiche che potrà realizzarsi nella
successiva legislatura forte di un mandato popolare diretto, a conferma che
soltanto una vittoria del «No» è in grado di riaprire un discorso sul futuro
dell’Italia e la qualità della sua democrazia di cui si avverte un grande bisogno.
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