giovedì 10 novembre 2016

Trump presidente, ha vinto la rabbia dei dimenticati



 
"Forgotten men". Sono le prime parole che Donald Trump ha pronunciato da presidente eletto, per dire che uomini e donne "dimenticati" d'America non saranno dimenticati mai più. Istintivamente, scientificamente, Trump ha evocato davanti alle telecamere di tutto il mondo la sua costituency reale, quel soggetto politico anonimo e in gran parte sommerso, quindi sconosciuto perché senza voce e senza volto che lo ha preso dal ruolo di outsider e lo ha portato fin dentro la Casa Bianca. Non l'establishment, non il mondo, non il partito, non il Paese. Uomini e donne, singole persone "dimenticate". Il "forgotten man", potremmo dire, è il nuovo Dio sconosciuto d'America che Trump fa uscire dal buio del misconoscimento e porta alla ribalta, suonando la campana del riscatto. Ma quella campana, attenzione, suona per noi.

Non c'è alcun dubbio che il pensiero democratico classico sta andando in minoranza nel mondo in cui viviamo. Credevamo che dopo aver suturato le ferite totalitarie del '900, la democrazia vincitrice si affacciasse al nuovo secolo come l'unica religione superstite, dunque egemone. Prima il rifiuto delle primavere arabe di compiersi secondo i nostri disegni desiderosi di stabilità e sicurezza, poi l'aggressione del jihadismo islamista assassino che attacca proprio il tempo e lo spazio della banalità democratica quotidiana nelle nostre vite, ci hanno fatto capire che ciò a cui attribuiamo un valore universale ha un perimetro e un limite che sono esclusivamente occidentali. Ma la vera sorpresa è dentro quel perimetro. Perché stiamo corrodendo la democrazia dall'interno, la stiamo consumando rendendola inabile, addirittura impotente, certamente estenuata. Come se fosse una creatura del Novecento, che non riesce ad attraversare la dogana del secolo con il bagaglio dei suoi valori intatti.

L'uomo dimenticato è in mezzo a noi, lo conosciamo ogni giorno, ma non lo vediamo perché non è un soggetto politico. E qui c'è la grande questione che sta dietro il risultato americano, e riguarda tutti noi: perché quel "forgotten man" non è rappresentato. Non è necessariamente un povero, piuttosto si sente un espropriato. Gli hanno tolto qualcosa, non sa dove e quando, ma crede di sapere chi lo ha fatto: l'élite, quell'insieme di vip (la parola più orrenda degli ultimi decenni, che conteneva già tutto quel che ci sarebbe successo), di istituzioni, di politica, banche, affari, organismi internazionali, agenzie di rating, governi, media, mercati, esperti, professori e intellettuali. Un mondo della competenza e dell'esperienza - come Hillary Clinton - che sta oltre il ponte levatoio, oltre il fossato che divide chi ce l'ha fatta dagli altri. Un mondo che sa tutto, ma per sé, non per tutti.

Non è un istinto di classe, quello dei "forgotten", perché non hanno sentimenti e interessi di classe, né politici o tantomeno ideologici: vivono dispersi, con frustrazioni individuali e paure personali che faticano a sommarsi e certo non riescono a raccogliersi in una forma visibile di rappresentanza. Hanno perso il lavoro, in America lo hanno in buona parte ritrovato (in Italia no) ma la loro vita ha fatto un giro, hanno sperimentato un precipizio sociale che ha invertito le aspettative di progresso, di crescita, di poter proiettare i figli in una condizione migliore della loro. In una parola qualcuno gli ha sottratto il futuro ed è qualcosa che non possono perdonare. Sono operai, impiegati, ex manager, contadini, professori, caduti in una condizione comune di spaesamento nella quale non si vogliono riconoscere e da cui vogliono uscire individualmente.

Come si chiama questa nuova condizione? La politica tradizionale non lo sa. Ma mettiamo insieme la grande dimenticanza sociale in basso e l'impotenza delle élite in alto e vedremo che si scoperchiano due mondi separati, con un buco enorme tra di loro, un buco di rappresentanza, dunque di politica, infine - diciamo la parola - di democrazia. Quando il lavoro non funziona, e saltano il ruolo sociale che ne consegue e la coscienza di sé di fronte ai doveri verso la propria famiglia ci si sente abbandonati dalla politica, anzi qualcosa di più. Ci si sente fuori: respinti. Questa è la grande novità della fase, la trasformazione delle disuguaglianze (che una democrazia sconta al suo interno e compensa con gli ammortizzatori sociali e civili) in esclusione. Che genera solitudine, abbandono, risentimento, rabbia, e infine propensione al rifiuto.

A che cosa serve, dicono i "forgotten", tutta quella competenza e quell'esperienza di cui abbiamo parlato prima, tutto quel sapere e quella scienza e tecnica di gestione di sistemi complessi, se poi la governance complessiva delle nostre società democratiche non riesce a vedermi, a occuparsi di me, a farmi sentire rappresentato? Prima scatta il disimpegno da ogni scelta civica, si resta sul divano il giorno del voto, si cambia canale, tanto come dice Bauman "la posta è così bassa" che votare o non votare è uguale, votare l'uno o l'altro è la stessa cosa, perché per le mie condizioni concrete di vita non cambia nulla. Poi viene il momento in cui passa un pifferaio che prende a calci il sistema, come vorrebbe fare il "forgotten", ma per lui la distanza è troppa, e non ha la forza. Quel tipo - tosto, nuovo, finalmente irrispettoso, capace di dire pane al pane, arrogante come e più di chi ha il potere - lo può fare al posto degli individui sconosciuti. Ma lui dice: facciamolo insieme, è giunta l'ora. Anzi, prendiamoci tutto, tocca a voi, i diseredati della rappresentanza, io vi apro la strada. Perché non provarci?

Il calcio al sistema è il grado 1 della rappresentanza, dopo lo zero. Risponde a un istinto di sovversione e di antagonismo più che a una domanda di politica e tantomeno di governo. È il ribellismo degli ex, degli spossessati. Che ritengono di aver diritto a un ruolo sociale, a un lavoro che corrisponda agli studi, a un'occasione o almeno a una rivincita, al limite una rivalsa. Il voto è un rifugio di disagio, di rancore, di pretese più che di diritti, uno sfogo piuttosto che una scelta. Intanto diamo il calcio al tavolo del comando. Cosa ci sarà dopo il calcio? Nessuno lo chiede, le proposte del pifferaio non sono mantenibili, la rabbia fatica a trasformarsi in governo. Ma intanto rovesciamo il tavolo e godiamoci lo spettacolo, poi si vedrà.

Trump nasce dunque dal vuoto che noi abbiamo creato, parlando di Paese - com'è giusto fare - ma non anche di lui, il dimenticato. Trump è andato a prenderlo sul divano, dove noi ci rassegnavamo a lasciarlo, scontando un calo di partecipazione ad ogni elezione, un calo di entusiasmo ad ogni comizio, un calo di autenticità ad ogni discorso in tv. In un'alchimia tragica, trasforma in destra reale - mai così realizzata - quelle solitudini sparse, quelle rabbie disperse, quel disincanto democratico che non siamo stati capaci di riunire e che dovevano interpellare la politica con la maiuscola, i grandi partiti storici proprio in nome delle loro tradizioni: la sinistra per prima, perché si tratta di fragilità alla deriva, e di deficit di rappresentanza.

Adesso lo sappiamo. Abbiamo un dovere nei confronti di queste persone, oggi certamente rappresentate dal quarantacinquesimo presidente, e probabilmente ingannate. Abbiamo un dovere drammatico nei confronti della democrazia, dopo aver toccato con mano quant'è fragile, così esposta come non è mai stata. 



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