I paradisi
fiscali, una delle principali forze trainanti alla base delle crescenti
ineguaglianze economiche, costituiscono una seria minaccia per le nostre
società democratiche. Nel volume “La ricchezza nascosta delle nazioni” (add
editore) Gabriel Zucman suggerisce una linea di condotta precisa e realistica
per contrastarli. Per gentile concessione dell'editore proponiamo la prefazione
di Thomas Piketty e un brano dal primo capitolo.
di Thomas
Piketty
Per chi ha a
cuore i temi dell’ineguaglianza, della giustizia globale e del futuro della
democrazia "La ricchezza nascosta delle nazioni" di Gabriel Zucman è
una lettura fondamentale. Si tratta forse del miglior libro mai scritto sui
paradisi fiscali e su quello che possiamo fare per contrastarli. Non è
eccessivamente tecnico, si legge con piacere e raggiunge tre obiettivi in modo conciso
ed efficace.
Prima di
tutto ricostruisce l’affascinante storia dei paradisi fiscali: come sono nati
nel periodo tra le due guerre, e come hanno via via assunto il ruolo essenziale
che svolgono oggi. Fornisce inoltre la stima più completa e rigorosa mai proposta
dell’entità finanziaria dei paradisi fiscali nell’attuale economia mondiale.
Infine, soprattutto, suggerisce una linea di condotta precisa e realistica per
cambiare le cose, cominciando con la creazione di un catasto mondiale dei
patrimoni finanziari che registri i proprietari delle azioni e obbligazioni in
circolazione.
I paradisi
fiscali, e con loro l’opacità finanziaria, sono una delle principali forze
trainanti alla base delle crescenti ineguaglianze economiche nel mondo e
costituiscono una seria minaccia per le nostre società democratiche. Perché?
Molto semplicemente perché le democrazie moderne si reggono su un contratto
sociale fondamentale: tutti devono pagare le tasse su una base equa e trasparente
per finanziare l’accesso a un gran numero di beni e servizi pubblici. Come è
ovvio sussiste un margine di disaccordo su che cosa significhi imposizione
«giusta» e «trasparente». Ma se alcuni degli individui più ricchi e alcune
delle più grandi società del pianeta si servono dei paradisi offshore e
dell’elusione fiscale per evitare di pagare la quasi totalità delle imposte
dovute, questo contratto sociale fondamentale è in pericolo. Se i contribuenti
delle classi medie sentono di pagare aliquote fiscali effettive più alte di chi
è in cima alla piramide, e se le piccole e medie imprese sentono di pagare più
delle grandi società, c’è il rischio che il concetto di consenso fiscale – su
cui si fondano le moderne democrazie – si sgretoli in modo irrimediabile. E se
una parte crescente della popolazione, alla base e al centro della piramide, si
sente vittima del funzionamento del sistema e del trattamento iniquo
dell’economia globale o dei governi, potrebbe finire per rifiutare il concetto
di solidarietà tra classi e di stato sociale e fiscale equo. Alcuni potrebbero
perfino lasciarsi sedurre dalle soluzioni nazionaliste, dalle divisioni etniche
e dalla politica dell’odio.
Ma ciò che
rende il libro tanto importante è il fatto che non si limita a formulare princìpi
e minacce astratte, ma propone dati e soluzioni concrete. Le statistiche
finanziarie internazionali presentano incoerenze sistematiche. In particolare,
le piazze finanziarie di tutto il mondo registrano costantemente più passività
che attività. Analizzando tali anomalie con una metodologia rigorosa e
innovativa, Zucman elabora una delle stime più credibili in merito
all’incidenza globale dei paradisi fiscali. Stando alla sua valutazione di
riferimento, che è una stima per difetto, circa l’8% dei patrimoni finanziari
mondiali è detenuto nei paradisi fiscali. Nei Paesi emergenti e in via di
sviluppo questa percentuale è spesso molto più elevata, il che ostacola la
costruzione del consenso fiscale e della fiducia nei governi, impedendo di
risolvere situazioni di estrema ineguaglianza. Zucman valuta che in Africa la
quota dei patrimoni finanziari detenuta offshore sfiori il 30%. In
Russia e nei Paesi petroliferi del Medio Oriente, tra le regioni più inique ed
esplosive del mondo intero, supererebbe addirittura il 50%.
La
percentuale di ricchezza statunitense nei paradisi fiscali sembra essere di
molto inferiore a quella russa o africana. Inoltre, a quanto pare, la quota dei
patrimoni personali degli Stati Uniti detenuti offshore è anche al di
sotto di quella dei Paesi europei che si sono dimostrati particolarmente
inefficaci nel coordinare le loro politiche per contrastare i paradisi fiscali,
e hanno dovuto attendere l’accordo Fatca (Foreign Account Tax Compliance Act)
statunitense e le sanzioni degli Usa contro le banche svizzere prima di
iniziare a muoversi verso la trasmissione automatica delle informazioni.
Sarebbe
tuttavia un errore sottovalutare il peso dei paradisi fiscali sul sistema
tributario statunitense. Secondo le prudenti stime di Zucman, le perdite di
gettito fiscale derivanti dai paradisi offshore rappresentano per gli
Stati Uniti una somma pari agli introiti che otterrebbero aumentando di quasi
il 20% l’aliquota fiscale dello 0,1% di contribuenti nella fascia massima di
reddito. Quindi, se è vero che negli Stati Uniti la questione dei patrimoni
personali offshore ha meno incidenza che in Europa, l’evasione
dell’imposta sulle società da parte delle multinazionali resta un problema di
primo piano. Zucman sottolinea inoltre come la normativa Fatca abbia ancora
molte lacune, tanto che tra il 2008 e il 2015 l’impatto generale dei paradisi
fiscali ha continuato a crescere. Per fare un reale passo avanti serviranno
sanzioni ben più importanti di quelle messe in campo finora. I calcoli di
Zucman evidenziano, ad esempio, che l’opacità finanziaria offre a un Paese come
la Svizzera vantaggi equivalenti alle perdite che subirebbe se i suoi tre
principali vicini (Germania, Francia e Italia) le imponessero dazi commerciali
pari al 30%. Ovviamente questi Paesi sono liberi di non farlo, ma allora non
possono lamentarsi di veder crescere il problema a dismisura. La lotta
all’opacità finanziaria globale è una delle sfide più importanti che i governi
si trovano oggi ad affrontare, e c’è ancora molta strada da fare prima di
riuscire a invertire le attuali tendenze strutturali.
Secondo
Zucman, il primo passo in questa direzione dovrebbe essere la creazione di un
catasto mondiale dei patrimoni finanziari, in cui registrare i proprietari di
ogni azione e obbligazione. Questo catasto fungerebbe da deposito titoli:
sarebbe coordinato dagli Stati e dalle organizzazioni internazionali, e
consentirebbe alle amministrazioni fiscali nazionali di lottare contro
l’evasione e di riscuotere le imposte sui patrimoni e sui flussi di reddito da
capitale.
Ad alcuni
l’idea di un deposito centrale può sembrare utopistica, ma non lo è. In realtà,
i depositi centrali titoli esistono già, il problema è che non sono globali ma
nazionali, o talvolta regionali, e soprattutto sono privati e non pubblici. A
partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, i titoli sono stati gradualmente
dematerializzati, fino alla totale scomparsa dei certificati cartacei. Sono
nati allora i depositi centrali moderni, con lo scopo di garantire la sicurezza
delle transazioni finanziarie e di registrare i proprietari delle azioni e
obbligazioni in un database digitale (è difficile fare affari se diversi
istituti finanziari o operatori economici nel mondo rivendicano un diritto di proprietà
sugli stessi attivi). Molti istituti finanziari privati si sono specializzati
in questo servizio. I depositi centrali più noti sono, negli Stati Uniti, la
Depository Trust Company (Dtc) e, in Europa, Euroclear e Clearstream. Il
problema è che queste organizzazioni non trasmettono sistematicamente i loro
dati agli Stati e alle amministrazioni fiscali, ma tendono anzi a promuovere e
beneficiare dell’evasione fiscale e dell’opacità finanziaria piuttosto che a
favorire la trasparenza (si pensi, ad esempio, allo scandalo Clearstream in
Francia).
La proposta
di Zucman è chiara e semplice: i governi dovrebbero assumere il controllo dei
depositi centrali e via via concentrarli in un catasto finanziario mondiale.
Gli Stati Uniti, l’Unione europea, il Giappone e, auspicabilmente, il Fondo
monetario internazionale dovrebbero essere alla guida di questo processo,
insieme a tutti i Paesi emergenti dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina
che, alla luce delle gravissime perdite subite a causa dell’evasione fiscale e
della fuga di capitali, volessero unirsi a questo sforzo cooperativo.
L’inclusione nel catasto finanziario mondiale comporterebbe diritti e doveri:
garantirebbe la tutela dei diritti di proprietà e delle transazioni finanziarie
in cambio dell’impegno a trasmettere tutte le informazioni necessarie per
identificare i reali proprietari degli attivi in circolazione. Questo sistema,
secondo Zucman, dovrebbe essere accompagnato da una tassa di registrazione
comune minima (ad esempio lo 0,1% del patrimonio netto individuale), che
potrebbe essere integrata da aliquote fiscali progressive stabilite dai singoli
governi (o da coalizioni internazionali di più Stati).
--
Frode fiscale per principianti
di Gabriel
Zucman
Per gran
parte del XX secolo era possibile varcare i confini con enormi quantità di
denaro senza alcuna difficoltà, trasportando semplicemente titoli «al
portatore». Oggi non è più possibile, perché i titoli non sono oggetti
tangibili: esistono solo in forma elettronica. Per mettere al riparo la propria
ricchezza, invece di trasportare oltreconfine valigie piene di banconote, si
ricorre quindi il più delle volte al trasferimento elettronico verso conti
offshore.
Prendiamo un
esempio di fantasia. Mario Rossi è l’amministratore delegato della società Mario
Rossi Spa, un’azienda con 800 dipendenti di cui è socio unico. Per trasferire
10 milioni di euro in Svizzera, Mario Rossi procede in tre tappe. Prima di
tutto fonda una società di comodo, domiciliata ad esempio nelle Isole Cayman,
dove le normative sulla trasparenza dei proprietari delle società sono molto
limitate3. Poi, in appena un paio d’ore, apre un conto a Ginevra a nome della
società di comodo. E per finire compra servizi fittizi dalla società di comodo
nelle Cayman (ad esempio servizi di consulenza) e, per pagarli, trasferisce
denaro sul conto svizzero di quest’ultima. La transazione genera una traccia
cartacea in apparenza lecita, che in certi casi lo è davvero. Dal momento che
le società effettuano ogni giorno milioni di pagamenti in Svizzera e negli
altri grandi centri offshore – ed è impossibile individuare in tempo
reale quali siano legali (ad esempio le somme pagate a veri esportatori) e
quali no (il denaro che evade le tasse) – è probabile che la transazione della
Mario Rossi Spa verso il conto svizzero della società di comodo non provochi
alcun allarme antiriciclaggio all’interno della banca.
Per Mario
Rossi il beneficio è doppio. Pagando per la finta consulenza riduce l’utile
imponibile della Mario Rossi Spa, e quindi l’ammontare dell’imposta sul reddito
della società che dovrebbe pagare in Italia. Poi, quando il denaro è arrivato
in Svizzera, lo investe nei mercati finanziari globali dove genera un reddito –
dividendi, interessi, plusvalenze. Tale reddito può essere tassato solo se Mario
Rossi lo dichiara o se la banca svizzera informa le autorità fiscali italiane.
In caso contrario, Mario Rossi può evadere anche l’Irpef.
Se vuole
utilizzare il denaro, Mario Rossi ha quindi due possibilità. Per le piccole
somme può semplicemente prelevare al bancomat. Per le cifre più consistenti,
però, deve farsi furbo. La tecnica più famosa è quella chiamata «credito
lombard»: Mario Rossi chiede un prestito alla filiale italiana della banca
svizzera dando in garanzia il denaro detenuto a Ginevra. In questo modo il
denaro resta in Svizzera, sempre investito in azioni e obbligazioni, e allo
stesso tempo viene speso in Italia per comprare, ad esempio, il quadro di un
noto artista o una villa a Porto Cervo.
Insomma,
l’autorità fiscale italiana subisce una frode del valore di milioni – tutte le
imposte dovute nel tempo sul reddito generato dal patrimonio dissimulato a
Ginevra – e Mario Rossi può spendere in segreto il denaro nascosto a suo
piacimento. (17 marzo 2017)
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