Tecnicamente, quello
inscenato ieri in Senato da Pd, Forza Italia
e frattaglie varie è un atto eversivo, un abuso di potere, un colpo di
Stato contro la Costituzione, svuotata di uno dei suoi principi
cardine: l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
Un golpe nero che abolisce lo Stato di diritto e legittima
l’arbitrio del più arrogante, torcendo in senso antidemocratico la regola delle
democrazie parlamentari fondate sulla maggioranza. Il voto di scambio non
potrebbe essere più plateale: mercoledì FI, verdiniani di Ala e àscari
centristi salvano il ministro Pd Luca Lotti dalla sfiducia a 5Stelle
e giovedì il Pd regala a FI, verdiniani di Ala e àscari centristi i voti
necessari (l’elenco della vergogna è qui a fianco, così gli elettori sanno chi
li ha traditi) a salvare la poltrona e la pensione del senatore forzista cioè pregiudicato
Augusto Minzolini. Sette mesi fa l’ex direttore del Tg1
è stato condannato in via definitiva a 2 anni e 6 mesi per
peculato nel processo sulle spese personali pagate con la carta di credito
della Rai. E una legge dello Stato, la Severino, approvata nel 2012 da tutti i
partiti, stabilisce che i parlamentari condannati a più di 2 anni decadono ipso
facto dal seggio, rimpiazzati dal primo dei non eletti: il voto della Camera di
appartenenza è una semplice presa d’atto della sentenza e delle conseguenze,
senz’alcun margine di discrezionalità (come il Pd sbandierava ai quattro venti
nel 2013, quando cacciò B. da Palazzo Madama). Dunque da
sette mesi Minzolini incassa stipendi e accumula contributi pensionistici
abusivi. E, col voto di ieri, continuerà a farlo sedendo sullo scranno di
un altro: le sue dimissioni sono fumo negli occhi, visto che
non scatteranno finché non saranno approvate dall’aula, che di solito
le respinge (almeno al primo scrutinio). Campa cavallo:
intanto finirà la legislatura.
Ma, con tutto il rispetto per la poltrona, lo
stipendio e il vitalizio dell’ex Direttorissimo, che pure sono
un bel problema per milioni di disoccupati sotto la soglia
minima di povertà, non era lui il vero oggetto del voto di ieri. Un paracarro
al posto suo non sarebbe cambiato nulla, come dimostrano i toni, le facce e i
contenuti del dibattito su Lotti: come ai tempi della Bicamerale
(1997-’98), delle indagini sulle scalate trasversali dei furbetti del
quartierino (2005) e della caduta del governo Prodi-2 per le
dimissioni del ministro Mastella dopo l’arresto di sua moglie e di mezza Udeur
(2008), destra, centro e sinistra si ritrovano affratellate in una soave corrispondenza
di amorosi sensi contro tutto ciò che puzza di legge, di etica e di
giustizia.
Accade ogni volta che le indagini aprono
l’armadio degli scheletri della politica. Nessuno meglio di lorsignori sa di
che ruberie e malaffari grondano i partiti e quanto rischiano se, dopo anni di
letargo, le Procure ricominciano a fare ciò per cui sono pagate: indagare.
E, agevolate da quest’arietta da fine impero 25 anni dopo Mani Pulite,
trovano gente disposta a rompere i patti di omertà e a cantare. Ci voleva un
bel messaggio mafioso a tutti i pm d’Italia perché non si azzardino a
seguire l’esempio dei colleghi napoletani e romani. E il messaggio mafioso è
arrivato: non osate, altrimenti alle elezioni vincono i barbari.
Pare un atto di forza, prepotenza e tracotanza. Invece è una clamorosa
prova di debolezza, il classico ruggito del coniglio: se i “barbari”
“populisti” e “antipolitici” avanzano in tutto il mondo è perché le classi
politiche sono screditate: non dai pm, ma da se stesse. Potrebbero salvarsi
anticipando gl’inquirenti e facendo le pulizie di casa, invece si stringono a
coorte, pronti alla morte pur di difendere i loro indifendibili. Io
salvo un inquisito a te, tu salvi un condannato a me (e alla fine
affonderanno tutti). È il replay di 24 anni fa, 29 aprile ’93, quando la Camera
negò al pool Mani Pulite quattro autorizzazioni a procedere contro Craxi.
Anche allora il Parlamento degli inquisiti (un centinaio, come oggi) esplose in
un baccanale liberatorio: cori da stadio, urli di giubilo, baci e abbracci
traversali, “liberi tutti”. Ma già l’indomani quella che
pareva la vittoria di Craxi e del partito dell’impunità si rivelò una
cocente sconfitta: per Bettino, che non se ne riebbe mai più, e per
l’intera Casta. Le piazze si riempirono di manifestanti, chiamati a raccolta da
opposizioni e giornali (esistevano ancora), Bettino fu lapidato a suon di monetine,
l’autorizzazione a procedere fu abolita a furor di popolo insieme al
finanziamento pubblico dei partiti.
Ma quanto accaduto ieri è molto più grave:
nel ’93 spettava al Parlamento valutare il fumus persecutionis per
dare o negare l’autorizzazione a procedere, oggi la decadenza di un
pregiudicato è automatica. La Severino non
piace ai partiti che 5 anni fa la votarono? La aboliscano e se ne
assumano la responsabilità. Non vogliono che i politici delinquenti
vengano indagati? Ripristinino l’autorizzazione a procedere e ne paghino le
conseguenze. Quello che non possono fare è calpestare una legge dello Stato
nella stessa aula che l’aveva approvata; porsi al di sopra delle (loro) regole;
e rivendicare il diritto di farlo ogni volta che vogliono con la forza dei
numeri del neonato Forza Pd (peraltro falsati da una legge elettorale
incostituzionale). Magari la reazione non sarà la
violenza evocata da Di Maio, né la gente in piazza (per mancanza di stampa
libera). Ma il re è nudo. Chi l’altroieri straparlava di
“innocenza fino a condanna definitiva” ieri ha salvato un condannato in via
definitiva. Chi si illudeva di arginare l’avanzata dei “barbari” le ha
spalancato le porte. E chi strillava alla “gogna” ci ha infilato spontaneamente
la testa. Se nessuno tira le monetine, è solo perché la gente le ha
finite, o teme che lorsignori si freghino pure quelle.
Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano - 17 marzo 2017)
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