sabato 18 marzo 2017

Minzolotti



 

Tecnicamente, quello inscenato ieri in Senato da Pd, Forza Italia e frattaglie varie è un atto eversivo, un abuso di potere, un colpo di Stato contro la Costituzione, svuotata di uno dei suoi principi cardine: l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Un golpe nero che abolisce lo Stato di diritto e legittima l’arbitrio del più arrogante, torcendo in senso antidemocratico la regola delle democrazie parlamentari fondate sulla maggioranza. Il voto di scambio non potrebbe essere più plateale: mercoledì FI, verdiniani di Ala e àscari centristi salvano il ministro Pd Luca Lotti dalla sfiducia a 5Stelle e giovedì il Pd regala a FI, verdiniani di Ala e àscari centristi i voti necessari (l’elenco della vergogna è qui a fianco, così gli elettori sanno chi li ha traditi) a salvare la poltrona e la pensione del senatore forzista cioè pregiudicato Augusto Minzolini. Sette mesi fa l’ex direttore del Tg1 è stato condannato in via definitiva a 2 anni e 6 mesi per peculato nel processo sulle spese personali pagate con la carta di credito della Rai. E una legge dello Stato, la Severino, approvata nel 2012 da tutti i partiti, stabilisce che i parlamentari condannati a più di 2 anni decadono ipso facto dal seggio, rimpiazzati dal primo dei non eletti: il voto della Camera di appartenenza è una semplice presa d’atto della sentenza e delle conseguenze, senz’alcun margine di discrezionalità (come il Pd sbandierava ai quattro venti nel 2013, quando cacciò B. da Palazzo Madama). Dunque da sette mesi Minzolini incassa stipendi e accumula contributi pensionistici abusivi. E, col voto di ieri, continuerà a farlo sedendo sullo scranno di un altro: le sue dimissioni sono fumo negli occhi, visto che non scatteranno finché non saranno approvate dall’aula, che di solito le respinge (almeno al primo scrutinio). Campa cavallo: intanto finirà la legislatura. 

Ma, con tutto il rispetto per la poltrona, lo stipendio e il vitalizio dell’ex Direttorissimo, che pure sono un bel problema per milioni di disoccupati sotto la soglia minima di povertà, non era lui il vero oggetto del voto di ieri. Un paracarro al posto suo non sarebbe cambiato nulla, come dimostrano i toni, le facce e i contenuti del dibattito su Lotti: come ai tempi della Bicamerale (1997-’98), delle indagini sulle scalate trasversali dei furbetti del quartierino (2005) e della caduta del governo Prodi-2 per le dimissioni del ministro Mastella dopo l’arresto di sua moglie e di mezza Udeur (2008), destra, centro e sinistra si ritrovano affratellate in una soave corrispondenza di amorosi sensi contro tutto ciò che puzza di legge, di etica e di giustizia. 

Accade ogni volta che le indagini aprono l’armadio degli scheletri della politica. Nessuno meglio di lorsignori sa di che ruberie e malaffari grondano i partiti e quanto rischiano se, dopo anni di letargo, le Procure ricominciano a fare ciò per cui sono pagate: indagare. E, agevolate da quest’arietta da fine impero 25 anni dopo Mani Pulite, trovano gente disposta a rompere i patti di omertà e a cantare. Ci voleva un bel messaggio mafioso a tutti i pm d’Italia perché non si azzardino a seguire l’esempio dei colleghi napoletani e romani. E il messaggio mafioso è arrivato: non osate, altrimenti alle elezioni vincono i barbari. Pare un atto di forza, prepotenza e tracotanza. Invece è una clamorosa prova di debolezza, il classico ruggito del coniglio: se i “barbari” “populisti” e “antipolitici” avanzano in tutto il mondo è perché le classi politiche sono screditate: non dai pm, ma da se stesse. Potrebbero salvarsi anticipando gl’inquirenti e facendo le pulizie di casa, invece si stringono a coorte, pronti alla morte pur di difendere i loro indifendibili. Io salvo un inquisito a te, tu salvi un condannato a me (e alla fine affonderanno tutti). È il replay di 24 anni fa, 29 aprile ’93, quando la Camera negò al pool Mani Pulite quattro autorizzazioni a procedere contro Craxi. Anche allora il Parlamento degli inquisiti (un centinaio, come oggi) esplose in un baccanale liberatorio: cori da stadio, urli di giubilo, baci e abbracci traversali, “liberi tutti”. Ma già l’indomani quella che pareva la vittoria di Craxi e del partito dell’impunità si rivelò una cocente sconfitta: per Bettino, che non se ne riebbe mai più, e per l’intera Casta. Le piazze si riempirono di manifestanti, chiamati a raccolta da opposizioni e giornali (esistevano ancora), Bettino fu lapidato a suon di monetine, l’autorizzazione a procedere fu abolita a furor di popolo insieme al finanziamento pubblico dei partiti. 

Ma quanto accaduto ieri è molto più grave: nel ’93 spettava al Parlamento valutare il fumus persecutionis per dare o negare l’autorizzazione a procedere, oggi la decadenza di un pregiudicato è automatica. La Severino non piace ai partiti che 5 anni fa la votarono? La aboliscano e se ne assumano la responsabilità. Non vogliono che i politici delinquenti vengano indagati? Ripristinino l’autorizzazione a procedere e ne paghino le conseguenze. Quello che non possono fare è calpestare una legge dello Stato nella stessa aula che l’aveva approvata; porsi al di sopra delle (loro) regole; e rivendicare il diritto di farlo ogni volta che vogliono con la forza dei numeri del neonato Forza Pd (peraltro falsati da una legge elettorale incostituzionale). Magari la reazione non sarà la violenza evocata da Di Maio, né la gente in piazza (per mancanza di stampa libera). Ma il re è nudo. Chi l’altroieri straparlava di “innocenza fino a condanna definitiva” ieri ha salvato un condannato in via definitiva. Chi si illudeva di arginare l’avanzata dei “barbari” le ha spalancato le porte. E chi strillava alla “gogna” ci ha infilato spontaneamente la testa. Se nessuno tira le monetine, è solo perché la gente le ha finite, o teme che lorsignori si freghino pure quelle.


 

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