La libertà di
espressione del pensiero è la regola prima della democrazia. Ma che fare
quando se ne abusa? «Uno dei problemi più gravi del momento» — ha scritto il
procuratore di Roma — è quello di un’informazione inadeguata e manipolatrice,
alcune volte denigratoria e diffamatoria. Particolarmente grave quando corre
sul «web», che consente una straordinaria circolazione delle informazioni, ma è
una specie di giornale senza né direttore né redazione, quindi senza
autocontrolli. Lì l’ottavo Comandamento, quello che proibisce la menzogna,
viene violato ancor più facilmente e più di frequente, come la cronaca recente
ha dimostrato, con notizie false, di cui è difficile capire la fonte, è
complesso identificare l’autore, impossibile richiedere che vengano fornite le
prove.
Il nostro ordinamento
è attrezzato per far fronte a questo problema? La Corte di Cassazione ha
fatto molto bene il suo dovere, fissando, in una ricca giurisprudenza che
risale alla sentenza-decalogo del 1984, i criteri ai quali debbono attenersi i
tribunali. Essa ha stabilito che il «free speech» deve essere bilanciato con
l’interesse alla reputazione e il diritto all’onore. Che vi è diritto di
critica, purché i fatti siano veri e riferiti in modo completo, indicando la
fonte e verificandone l’attendibilità. Che alla critica è richiesta «continenza
espressiva» (non deve cioè contenere ingiurie e inutili offese) e obbligo di
motivazione (cioè il dissenso deve essere spiegato). Infine, che vi è diritto
di satira, e che questa può essere anche aspra e pungente, purché rispetti gli
stessi limiti della critica.
Questi principi che
consentono di bilanciare libertà di stampa e reputazione di coloro che sono
oggetto di critica, come sono stati applicati? Conosciamo i dati relativi
al Tribunale di Roma, dove, dopo un decennio di severità, vi è stata una
inversione di tendenza, con il rigetto di quasi tre quarti delle domande di
risarcimento. Da ultimo, ha ripreso quota un atteggiamento più severo,
simboleggiato da tre sentenze esemplari, pronunciate in sede civile, per il
risarcimento dei danni subiti, da corti diverse. La Corte di appello di Milano,
e poi la Corte di cassazione, hanno ritenuto che l’onore di Ilda Boccassini
fosse stato leso da opinioni espresse su Panorama
senza «continenza», senza controllare la veridicità dei fatti, a scopo
denigratorio. Il Tribunale di Torino è giunto a conclusioni analoghe riguardo a
Renato Schifani, nei confronti del quale erano stati pubblicamente espressi,
alla Rai, giudizi ingiuriosi non motivati. Il Tribunale di Milano e poi,
recentemente, quello di Roma hanno riconosciuto le ragioni di Giuliano Amato,
affermando che notizie e giudizi contenuti in un libro e nel Fatto quotidiano, relativi all’acquisto
dell’abitazione, al cumulo di stipendio e vitalizio, ai rapporti con il Monte
dei paschi, erano frutto di manipolazioni, non rispettavano il criterio della
«continenza», non erano attendibili.
Se, dunque, il sistema
giudiziario, fissati i criteri, ne ha fatto applicazione, possiamo ritenerci
soddisfatti? Rimangono due problemi aperti. Il primo riguarda l’intensità e
la frequenza della tutela giudiziaria. «Fake news», ingiurie, denigrazioni,
campagne diffamatorie, «bufale», affermazioni ciarlatanesche, sono sempre più
frequenti, ma i giudici faticano a star loro dietro. Dunque, sarebbe necessaria
maggiore attenzione da parte dei giudici, attivati dall’iniziativa delle
persone offese, moltiplicando i casi esemplari, come quelli citati.
Il secondo problema
riguarda quel terreno vastissimo e sconosciuto che è la rete. Si tratta di un
terreno poco sorvegliato. Gli stessi interessati possono essere oggetto di
offesa senza venirne a conoscenza. Non vi sono filtri interni, quali possono
essere i giornalisti in una trasmissione televisiva o in un quotidiano o
settimanale. I gestori delle reti o i fornitori di servizi «on line» dichiarano
di non essere responsabili di quel vi viene immesso (basti pensare al caso
della vendita di cimeli nazisti in Francia, sollevato dall’unione degli
studenti ebrei, o al «diritto all’oblio», sollevato da uno spagnolo). Google e
Facebook hanno avviato tentativi di controllo, ma finora senza successo. Non
c’è neppure un’autorità pubblica globale. L’«Internet Corporation for Assigned
Names and Numbers» (Icann) è un ente di governo della rete, ma regola alcuni
problemi tecnici di vertice, e i vari «registries» e «registrars» territoriali
fanno altrettanto a livello locale. Essi, tuttavia, non si interessano delle
notizie immesse in Internet. Qui c’è una vera lacuna da colmare, alla quale si
spera che le corti pongano rimedio (la Cassazione in sede penale, peraltro, ha
già sanzionato messaggi sulla rete, a mezzo di blog o tramite Facebook),
cercando su base nazionale una soluzione che possa essere accettata a livello
globale (altrimenti, succederà quel che è accaduto nel caso della vendita di
oggetti nazisti, proibita dal codice penale francese, che è continuata da un
sito collocato in altra nazione).
Sabino Cassese (Corriere della Sera - 21 aprile 2017)
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