Come se
fossimo entrati all'improvviso dentro un quadro notturno di Hopper, bisogna
sbirciare ogni tanto quell'uomo col cappello in testa e il bicchiere tra le
mani sul bancone del bar, che è venuto a sedersi sullo sgabello di fronte, da
solo sotto la luce al neon. Non parla, rimugina. Si capisce che ha un pezzo
robusto di vita alle spalle, ne ha viste tante, per arrivare stanotte fin qui
deve aver superato ogni illusione consumando qualsiasi speranza. Non crede più
in nulla, anzi sta in guardia, come se gli avessero tolto qualcosa: potrebbe
raccontarlo ma preferisce che ognuno si faccia i fatti suoi, il suo silenzio
magari farà sentire in colpa il resto del mondo. Eppure, perché ci sembra di
averlo già visto? Perché è la nuova figura politica universale che attraversa
l'Occidente dall'America all'Europa, il risentimento che ovunque si mette in
proprio, la rabbia sociale che dappertutto si fa politica, l'outsider che
infine prende il potere: o forse no, ma a lui basta aver scalciato
l'establishment, buttandolo giù dal trono. Il risentimento è appagato: per il
resto, si vedrà.
Poiché non
abbiamo un nome nuovo, per descrivere quest'ultima creatura della
mondializzazione usiamo vecchie categorie che hanno contrassegnato fenomeni
antichi, antipolitica, contropolitica, ribellismo, populismo. Ma invece quel
che accade è figlio legittimo della postmodernità, anzi del suo Big Bang finale
tra la società aperta come mai avevamo conosciuto e la crisi più lunga del
secolo. Ad una ad una, come dopo i terremoti, cadono le vecchie case della
politica novecentesca - i partiti - si spalancano i grandi contenitori
culturali di tradizioni e di valori, come destra e sinistra, ripiegano e si
confondono le stratificazioni sociali che davano identità collettiva, coscienza
di classe, appartenenza, con un disegno di società che concedeva una dinamica
interna e contemplava il conflitto.
Tra le
macerie, cammina lui: il forgotten man, scartato nella crescita, ferito con la
crisi, deluso dalla rappresentanza. Poiché ciò che è accaduto nell'ultimo
decennio ha fiaccato le istituzioni, ha reso impotenti i governi, ha
allontanato gli organismi internazionali e ha finito addirittura per indebolire
la democrazia, il forgotten scopre che nell'improvvisa fragilità del sistema la
sua rabbia può diventare un surrogato della politica, potente. Non riesce a
proporre soluzioni, a disegnare progetti e a farsi governo. Ma basta per
presentare a chiunque il saldo di tutto ciò che non va, per chiedere conto di
un mondo fuori controllo, per dare una colpa universale alla classe generale
che ha esercitato il comando fino ad oggi, chiudendosi in se stessa per
tutelarsi autoriproducendosi. Il risentimento non è in grado di fare una
rivoluzione, creando una nuova classe dirigente. Ma è capace di realizzare la
delegittimazione di un potere debole svuotandolo, per poi affidare l'energia
degli istinti a chi vuole rappresentarla incarnandola in una performance
elettorale. Gli istinti naturalmente non governano: ma questo è un problema di
domani, intanto oggi si scalcia.
Che cos'è
tutto questo? Marco Revelli, che unisce da anni nei suoi studi la scienza della
politica con l'indagine sociale, lo chiama "Populismo 2.0" nel suo
ultimo saggio Einaudi, dando una declinazione modernissima a una storia
ricorrente, ogni volta che un leader cerca il cortocircuito del rapporto
diretto con i cittadini esaltati a popolo mentre vengono ridotti a folla. Ma se
un tempo si presentava come malattia infantile del meccanismo democratico
nascente, una specie di ribellione degli esclusi, oggi il populismo testimonia
invece la patologia senile di una democrazia estenuata e svuotata da processi
oligarchici, e diventa una rivolta degli inclusi, che avvertono la vacuità di
questa inclusione inconcludente.
Il populismo
dunque ritorna come sintomo di un indebolimento dell'organismo democratico, una
febbre della rappresentanza malata. Abbiamo detto che il fenomeno è ricorrente.
Ma oggi per Revelli siamo davanti a un populismo di terza generazione dopo
l'esperienza russa dell'Ottocento, il qualunquismo italiano del dopoguerra:
alla crisi della democrazia si unisce una crisi sociale che declassa il ceto
medio, atomizza l'universo del lavoro, inverte l'ascensore sociale. Il
risultato è una rottura non tanto nel linguaggio politico - come si dice di fronte
al politicamente scorretto - ma nel codice di sistema fin qui riconosciuto da
maggioranze e opposizioni, con la parlamentarizzazione del consenso. Il
parlamento viene anzi contrapposto alla piazza, le istituzioni vengono
denunciate come la cattiva politica che le deforma, come se il contenitore
fosse responsabile del contenuto e la regola dovesse dividere la colpa con chi
la viola, per accrescere la feroce gioia del rogo iconoclasta che brucia senza
distinguere.
Una rivolta
della plebe, l'"oclocrazia" evocata da Polibio "quando il popolo
ambisce alla vendetta"? Ma la massa oggi in movimento, avverte Revelli, è
stata a lungo un anello forte del sistema, fattore di consenso e stabilità,
altro che plebe. Scopriamo che i vituperati partiti erano "banche dell'ira",
come le chiama Peter Sloterdijk, che la intercettavano, le davano un segnale di
riconoscimento e la trasponevano dentro contenitori programmatici e ideologici,
convogliandola in un progetto che la decantava nella nobiltà della politica.
Oggi la rabbia sociale è allo stato brado, i nuovi leader politici si limitano
ad alimentarla per cavalcarla, pensando che la materia sociale incandescente
convenga per radicalità, e dunque meglio usarla come politica primordiale,
rinunciando a raffinarla.
Più che a un
movimento e tantomeno a un partito, siamo davanti a uno stato d'animo (e
infatti parliamo di istinti e risentimenti), a un'espressione senza forma del
disagio, alla manifestazione di visibilità degli invisibili: con la retorica
del "popolo", del "basso contro l'alto", del
"tradimento' da parte delle élite, che mette anche i non poveri nella
condizione psicologica di depredati, dunque di offesi, comunque di vittime, di
umiliati perché esclusi, ostacolati, impediti e marginalizzati. È la strutturazione
drammaturgia di una nuova forma di conflitto politico-sociale, o addirittura
culturale, vissuto come morale, dunque totale. Naturalmente il neopopulismo non
è in vitro, perché ha bisogno di un ambiente storico-politico talmente
particolare da risultare eccezionale e oggi lo trova nell'emergenza conclamata
di tre crisi congiunte, quella economica e del lavoro, quella migratoria,
quella del terrorismo jihadista. Un fenomeno da passaggio di secolo, dice
Revelli, esattamente come il neoliberismo in cui si specchia simmetricamente,
entrambi trasversali, impermeabili e universali.
Ovviamente
tutto questo è esploso come un bengala sotto gli occhi impreparati del mondo
con l'elezione di Trump, che infatti subito dopo il trionfo non ha ringraziato
il Paese, l'establishment o il partito ma esattamente lui, il forgotten man,
portandolo a capotavola della sua avventura. Non solo il popolo delle campagne
e gli hillbilly delle terre alte, ma un popolo disperso che per il 75 per cento
denuncia il peggioramento della sua vita negli ultimi decenni e tuttavia segue
il piffero di un miliardario perché più della differenza sociologica e della
diffidenza ideologica pesa la dipendenza "etologica" che Revelli
spiega così: un meccanismo del riconoscimento che nasce dai segni elementari,
dai gesti, dai suoni e dai colori, dai modi e dalle reazioni che garantiscono
nel leader la tenuta dell'odio della base, la sicurezza nell'opposizione al
sistema, la comunanza nell'alterità.
A questo
punto bisogna cercare i tratti comuni tra Trump e la Brexit (con i beneficiati
della new economy che votano in massa per il "remain", mentre i
naufraghi della globalizzazione fanno il contrario), con la Francia di Marine
Le Pen che sostituisce un neosciovinismo sociale al nostalgismo vichysta del
padre, col muro sovranista di Orban in Ungheria, con gli umori neri dell'AfD in
Germania, per affacciarsi infine alla fabbrica italiana di tutti i populismi.
Revelli ne identifica tre, tralasciando la virata di Salvini
dall'indipendentismo padano al nazionalismo xenofobo di imitazione lepenista.
Quello anticipatore di Berlusconi, una sorta di populismo geneticamente
modificato dal peccato originale dell'incrocio con l'azienda, che lo trasforma
in eroe teleculturale con un partito istantaneo per una "politica dell'immediato",
coprendo con la vernice moderata un'anima di destra radicale e ideologica.
Quello di
Grillo, un cyberpopulismo che, dopo il declino della tv, ibrida la politica con
la retorica della rete intervallata dai "V-day" nelle piazze, dove le
invettive sovrastano un modello culturale intermittente e balbettante. Quello
di Renzi, post-ideologico, post-novecentesco e post-identitario, pencolante tra
la tentazione della lotta e la seduzione del governo, col risultato di
scolorire i colori della sinistra nell'indistinto democratico di un
partito-nazione.
Questo
record italiano è il risultato dell'"età del vuoto", come la chiama
Revelli, che porta al grado zero della semplificazione politica, riassumibile
in un "vaffa", una ruspa, la parola rottamazione. È un vuoto che
riguarda soprattutto la sinistra, assimilata in un pensiero unico che non
prevede un'obiezione culturale, spingendo la rabbia del forgotten a credere che
un'alternativa sia possibile solo fuori dal sistema: mentre in realtà la vera
alternativa nasce in questi mesi nella destra populista, che attacca il
pensiero liberale, il concetto stesso di Europa e di Occidente.
Ci
dev'essere il modo di parlare a quell'uomo che sta nel bar da solo, prima che
arrivi Trump a portarselo via. Ci dev'essere un pensiero democratico in grado
di convincere l'operaio col casco giallo davanti a un grattacielo a Londra, che
nello schermo della Bbc spiega il Brexit con un semplice gesto della mano:
"Quelli lassù hanno votato per restare nella Ue, noi quaggiù per uscire".
Ezio Mauro
(La Repubblica – 10 aprile 2017)
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