domenica 16 aprile 2017

Lavoro, le storie dei working poor italiani. “Con lo stipendio non arriviamo a fine mese. Dobbiamo andare a rubare?”





È la dannazione di molte generazioni, dai nati negli anni Sessanta che ormai hanno cinquant’anni, ai venticinquenni di oggi, nati negli anni Novanta: avere un lavoro, anche a tempo pieno, che però non consente la sopravvivenza. La possibilità, cioè, di pagare un affitto, le bollette, le spese alimentari e quelle, magari, di uno o due figli. Il diritto, come recita la nostra Costituzione, ad avere “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del proprio lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Al contrario questi lavoratori sono arrivati sul mercato quando entrare nella pubblica amministrazione, o in enti statali o nell’insegnamento, cominciava a diventare sempre più difficile, se non impossibile. Sono lavoratori che raramente hanno un contratto da dipendenti – e quando ce l’hanno, magari per piccole aziende private, hanno un netto di poche centinaia di euro – e per lo più lavorano con contratti a tempo determinato, di apprendistato, di collaborazione, con i voucher ma soprattutto con partita Iva, ormai utilizzata per impieghi che un tempo sarebbero stati certamente rapporti di lavoro dipendente.


La logica, però, è contro di loro: perché più sono precari, meno guadagnano, nonostante costino meno in termini di contributi e tutele alle aziende per le quali lavorano. E pure il tempo è contro di loro, visto che la precarietà non si trasforma mai in sicurezza, anzi tende a cronicizzarsi, mentre i compensi diminuiscono di anno in anno. Così, e nonostante lavorino l’intera giornata, i working poor italiani si ritrovano con entrate a volte ridicole. “Ma più che lavorare che possiamo fare, andare a rubare?”, si chiede Alice, cinquant’anni e ancora a casa dai suoi.


Per sopravvivere, come raccontano da anni i rapporti Istat e Censis, si fa di tutto: dalle rinunce a fare figli, una scelta pesante che molti trentenni però stanno più o meno consapevolmente facendo, alla richiesta di aiuto ai genitori, che passano ciò che possono: soldi per la spesa e il parrucchiere, come nel caso di Sara. Oppure un appartamento da affittare, come per Francesco, che ci mantiene i due figli che altrimenti non avrebbe potuto avere. Molti poi, quelli che ammettono candidamente di evadere, almeno in parte. Come Marco, meccanico, che manda i soldi a casa perché i genitori sono poveri e con 1400 euro lorde – con partita Iva – finisce per avere in mano, tolte tasse e contributi, pochi spiccioli. “Lo faccio per non andare sotto i ponti. E nonostante la mia ragazza lavori, anche noi siamo due giovani che hanno deciso che un figlio non lo possono avere. La verità è che basta un passo falso e sei fottuto. Tu e tutta la tua famiglia”.


Quando chiedi loro perché non emigrino, rispondono che andarsene non è facile. Bisogna conoscere le lingue, ma soprattutto, paradossalmente, servono soldi anche per partire, poter stare un periodo in un altro Stato, trovare un lavoro, imparare a parlare la lingua del posto. E quando, infine, domandi se c’è un partito che li rappresenti alzano le spalle. Vorrebbero il reddito di cittadinanza, cioè un’integrazione a un reddito troppo basso, “basterebbero cinquecento euro al mese per svoltare”. Ma sulle politiche del lavoro degli ultimi governi non hanno dubbi: da Sacconi a Poletti la loro condizione è peggiorata, la deregulation si è accentuata, la precarietà è diventata endemica, radicale, mentre la politica – e pure i media, e insieme a loro i sindacati – continuano a parlare di “lavoratori” facendo riferimento solo ai dipendenti. Colpevolmente ignari che si tratta di una specie in via di estinzione. “Certo”, dicono tutti, “loro hanno uno stipendio fisso, il vitalizio per quando smetteranno di lavorare e in più piazzano i loro figli ovunque, come scopriamo puntualmente. Di noi, e della realtà, non sanno nulla, né nulla gli interessa”. 


Alice: “Lavoro da trent’anni, sono una dipendente, ma a cinquant’anni vivo ancora a casa dai miei”


Ha cominciato a lavorare a vent’anni e da allora non si è più fermata. Sempre nel settore delle farmacie, come non laureata: un lavoro pesante, si occupa del magazzino, lo sistema, controlla gli ordini, carica la merce. “Ho lavorato sempre a tempo indeterminato per un milione duecentomila lire circa, il minimo sindacale. E l’orario della farmacia era pesante, si finiva alle otto di sera”. Poi Alice rimane incinta di un ragazzo immigrato, che sparisce poco dopo la nascita. Continua a lavorare, ma deve pagare 600 euro di nido (la bimba non viene presa dal pubblico, né al nido né, persino, alla materna), e non riesce più a pagare l’affitto di 350 euro per una casa a un’ora da Roma. “Sono tornata dai miei genitori, ed è stata una fortuna perché a un certo punto sono stata licenziata. Ho ritrovato subito lavoro, sempre in farmacia, ma con la bambina ho dovuto optare per un contratto part time: oggi guadagno ancora la stessa cifra di sei anni fa, 800 euro, più 75 euro di assegno familiare. Le amministrazioni a cui mi sono rivolta mi ripetevano in continuazione: non ci sono soldi. Ma io come faccio a pagare un affitto?”.


Alice chiede ormai da dieci anni con insistenza una casa popolare: ma le regole cambiano in continuazione, e le madri single sono sfavorite (oltre al fatto che il settore è segnato da una grandissima corruzione). Così Alice e sua figlia continuano ancora a vivere a casa dei genitori. Spetta loro una stanza, in cui deve entrarci anche la scrivania della ragazzina, tutti gli abiti, una televisione e un letto. Una situazione pesante, dalla quale Alice non vede via d’uscita: “Ho fatto di tutto, anche le occupazioni. Avere una casa seguendo una via corretta sembra non esistere, non arriva mai. E mia figlia è ormai adolescente, quanto ancora potremo resistere così? Ma d’altronde più che lavorare cosa posso fare? Forse rubare?”.


Marco: “Evado per non finire sotto i ponti. Ma non posso permettermi un figlio”


“Allora te lo dico subito: devo evadere per forza, altrimenti non riesco a sopravvivere: guadagno 1400 euro, con partita Iva, sembrano tanti vero? Peccato che 300 al mese se ne vadano per l’Inps, poi ci sono le tasse, i costi vari, dal commercialista alla fatturazione elettronica. Levaci l’affitto per me e dei soldi che passo alla mia famiglia d’origine, purtroppo senza reddito, e capisci perché sono costretto a non fatturare tutto”. Marco abita al Nord, ha 42 anni e una storia lavorativa comunque regolare e continua. Inizia a vent’anni, come apprendista meccanico in un autosalone. Guadagna bene in lire, poi viene assunto e il netto scende vertiginosamente. Col passaggio all’euro si stabilizza sui 1100 euro al mese.


Peccato che con la crisi l’azienda cominci a licenziare, e costringere chi resta ad aprire la fatidica partita Iva. “E lì inizia la tragedia, perché come ti ho detto i costi sono enormi. Solo questo mese mi sono arrivati 6000 euro di Inps, lo Stato ci chiede i soldi su quello che guadagneremo prima ancora che a noi ci entrino in tasca. L’Iva poi è una farsa, nessun cliente vuole la fattura con l’Iva, quindi non la recuperiamo mai. Ecco perché spesso devo evadere”.


Marco convive con una ragazza che ha un piccolo negozio e paga tutte le tasse, ma alla fine porta a casa uno stipendio piccolissimo. Entrambi vorrebbero un figlio, soprattutto lei, ma Marco è pessimista: “Un conto se hai una famiglia alle spalle, un padre che ti compra il passeggino, ti paga l’assicurazione, la scuola. Ma per come siamo noi, basta un passo falso e sei fottuto tu, tua moglie e tuo figlio. E io faccio un lavoro usurante, mica sto dietro a una scrivania. Certo se non avessi avuto una famiglia di origine da mantenere, oggi forse non avrei l’affitto da pagare. Purtroppo quella non te la scegli. Ed è veramente ingiusto vivere in un paese dove la tua sorte cambia a seconda di come sta chi ti ha messo al mondo”.


Sara:  “A 35 troppo vecchia per i bandi, ho due lauree e non posso aprire neanche un negozio”


“All’estero? No, è un passo troppo grande, poi ho 35 anni, sono troppo vecchia”. Sara scuote la testa. Vive a Palermo ed è una psicologa: tra laurea triennale e magistrale, analisi personale, seminari, workshop, tirocini e un master in mediazione familiare – 3500 euro ma nessuno sbocco garantito – ha studiato abbastanza. Inutilmente, dice ora, visto che “lavorare al Tribunale di Palermo è impossibile e per la libera professione dovrei studiare ancora”. Nel mondo del lavoro, per la verità, ci è arrivata presto: insegnava in una scuola privata che si occupava di formazione scolastica e universitaria: 8-12 euro l’ora, “non avevo nessun contratto, ma almeno portavo a casa dalle 800 alle 1200 euro”. Poi qualcosa cambia, la precarietà non evolve in nessuna assunzione, si fa più amara: “Hanno cominciato a pagarci 2,5 euro l’ora, io ho provato a resistere, lavoravo anche 12 ore al giorno per portare a casa 500 euro, fino a che non hanno smesso anche di pagarci”. 

Sara prova a sondare il mercato delle cooperative che si occupano di doposcuola, ragazzi con handicap e situazioni difficili, ma il pagamento è solo tramite voucher. “Allora preferisco andare a fare la baby sitter ai figli delle mie amiche”. Già, i figli. Perché Sara è sposata da anni, e da tempo aspetta di poter fare un bambino suo ma, per motivi economici, non può. Decide di cambiare settore, prova in quello assicurativo, ma anche lì le viene richiesta disponibilità full time per 450 euro al mese. Nel frattempo anche il marito, pure lui psicologo, rispolvera un corso regionale che aveva fatto dopo il liceo e si mette a lavorare nel settore logistica: porta a casa 1200 euro, ma il contratto scade ogni sei mesi. Lei comincia a mettere mano ai risparmi, quei 15-20mila euro che le sembravano tantissimi, fino a che il lavoro c’era. Oggi di strade non ne vede più, i bandi regionali per l’inserimento dei giovani la escludono per l’età, aprire un negozio a Palermo è una pazzia, “sono più quelli che chiudono che quelli che aprono”.

Aiuti dai genitori, entrambi insegnanti (e anche loro sgomenti di una situazione che non capiscono)? “Diretti no, magari mia madre mi compra la carne, mi dà i soldi per il parrucchiere. A me pesa, se lavorassi li accetterei più volentieri che così”. Ma cosa fanno le sue coetanee? “Una ha preso un diploma come operatrice sociosanitaria, un’altra ha aperto un agriturismo, altre sono commesse, altre solo le mamme oppure vivono ancora con i genitori”. A conti fatti, resta lo stipendio del marito – il cui padre era dipendente comunale, dunque dipendente pubblico come i genitori di Sara – a cui vanno sottratte 450 euro per l’affitto di una casina di 45 metri quadri. Troppo piccola davvero per contenere spazio per i sogni. Che, tra l’altro, anno dopo anno, vanno allontanandosi sempre di più.
 

Francesco: “Abbiamo due stipendi, ma senza un appartamento da affittare non potremmo dar da mangiare ai nostri figli”

Francesco ha quasi cinquant’anni, e due bimbi che vanno alle elementari. “Fanno tutti e due nuoto, vuoi sapere la retta quanto costa? Più di mille euro per due. Ed è una piscina economica. Per non parlare di tutte le altre spese, dalle scarpe e i vestiti alle vacanze, dai giocattoli alle feste di compleanno. Tutto tra l’altro all’insegna della sobrietà, ad esempio le feste le facciamo nel parco con i panini fatti da noi”. Francesco lavora nella segreteria di un’azienda del centro Italia, porta a casa mille euro lordi ma adesso anche meno perché si trova in solidarietà. Sua moglie lavora per una scuola che si occupa di formazione per adulti, ha dovuto aprire la partita Iva anche se di fatto è dipendente, e guadagna 800 euro nette. In due arrivano a 1500 euro, “come pensi che possiamo campare in quattro?”.


Per fortuna Francesco e la moglie hanno ricevuto dai parenti di lui un appartamento, che affittano a dei liberi professionisti. “Non esiste la cedolare secca per uso d’ufficio, non hai idea di quante tasse paghiamo, solo di Imu sono migliaia di euro e le riforme del catasto ci uccidono. E gli affittuari ogni anno provano a abbassare il prezzo, sanno che non è facile trovare inquilini che paghino”. Con i due lavori e l’affitto, si può andare avanti in maniera dignitosa. Anche se l’ansia è sempre in agguato, “perché le leggi sulle case cambiano sempre, e in peggio per i proprietari, e i nostri due lavori sono comunque a rischio. Ma sappiamo comunque di essere comunque privilegiati rispetto a chi non ha la possibilità di avere l’appartamento in cui vive più uno da sfruttare. Anche se ripeto, vita da ricchi certo non la facciamo. Anzi”.

Elisabetta Ambrosi (Il Fatto Quotidiano - 16 aprile 2017


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