lunedì 17 luglio 2017

Come parlano i siciliani



In Sicilia, quando non sei proprio convinto dici “ora, poi lo faccio”; oppure, a una domanda rispondi contemporaneamente “sì, no”. 

Noi siciliani abbiamo una percezione del tempo molto particolare, ad esempio, quello che hai fatto il giorno prima diventa passato remoto, come se fossero trascorsi secoli; oppure, quando stai per uscire di casa, rassicuri tutti affermando “sto tornando”, anche se il tuo rientro sarà tra un paio d’ore. 

Il futuro non ha coniugazioni. Sciascia affermava: “Come volete non essere pessimisti in un paese dove il verbo al futuro non esiste”. Viene ridotto tutto al presente: “andrò” è “vaju, o vagghiu”, “farò” è “faju o fazzu”; come se volessimo sfuggire al domani, alla morte. 

Anche il condizionale è inutile, infatti lo sostituiamo direttamente col congiuntivo, tipo: “se putissi, u facissi”. 

Abbiamo il “potere” di far diventare transitivi i verbi intransitivi, infatti noi “usciamo la macchina, saliamo la spesa”. 

Ci piace molto utilizzare gli spostamenti “salire e scendere” in modo fantasioso: “scendiamo giù a Natale” e “saliamo su dopo le feste”, anche il caffè “è salito” e la pasta “si cala”.

Spesso utilizziamo una sola parola per indicare più oggetti, ad esempio non c’è differenza tra tovaglia, asciugamano, tovaglietta, accappatoio, strofinaccio, canovaccio, per noi è solo “a tuvagghia”, e basta. 

Se vogliamo dire a un amico di venire a trovarci, gli diciamo di “avvicinare”, che è meno formale e più amichevole. 

Riusciamo anche a trasformare un luogo in un modo di fare, in un verbo: ad esempio il cortile diventa “u curtigghiu” (da cui “curtigghiare”), cioè spettegolare. 

Il nostro modo di esprimerci è tanto unico e originale quanto preso in prestito, ereditato da chi c’è stato prima di noi; un dizionario frutto di secoli e secoli di storia: invasioni, colonizzazioni, scambi; popoli e culture che si sono susseguite e incrociate tra di loro. 

Ad esempio “tumazzu (formaggio), carusu (ragazzo), cammisa” (camicia), sono parole greche (vedi “tumassu, kouros, poucamiso”); “carrubo” deriva dall’arabo “harrub”, così come le parole “cassata e giuggiulena” (dolci tipici); “accattari” (comprare), deriva dal normanno “acater” (da cui il francese “acheter”), oppure “arrieri” (nuovamente, da darriere); dal catalano abbiamo preso in prestito le parole “abbuccari” (sversare, da abocar),”accupari” (soffocare, da acubar), “cascia” (bara, da caixa). 

Dunque, se parliamo così, non vuol dire che siamo ignoranti e arretrati, non vuol dire che non conosciamo l’italiano (a parte alcune simpatiche eccezioni): dietro ogni parola o espressione del nostro meraviglioso dialetto (che poi dialetto non è, ma “lingua madre”- come ha affermato l’Unesco), ci sono le nostre travagliate origini, la nostra lunga e meravigliosa storia.


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